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QT n. 4, aprile 2022 Servizi

Extracomunitari in Trentino, tra sfruttamento e solidarietà

La storia di Vera, albanese con un figlio: anche 13 ore al giorno di lavoro. Ed ora un affitto impossibile

Vera è una donna albanese di 30 anni. Con un figlio di 9 che vive con lei. A Trento. Per un paio d’anni, dal 2014, è venuta a lavorare in Trentino nell’agricoltura stagionale. In nero, senza contratti. Sottopagata. Sfruttata, anche 13 ore di lavoro al giorno e solo un quarto d’ora per il pranzo.

Conoscendo però la solidarietà di altri trentini. 8 anni dopo Vera lavora nel settore delle pulizie e guadagna abbastanza per vivere decentemente. Ma solo perché A.T.A.S. (Associazione Trentina Accoglienza Stranieri, finanziamenti in gran parte nazionali ed europei gestiti dalla Provincia) le sta fornendo un appartamento ad affitto facilitato. Se lei (e fra poco dovrà farlo) dovesse ricorrere al mercato, avrebbe grossi problemi a tirare avanti con decenza. Perché gli affitti a Trento sono proibitivi. Nonostante lavori 6 giorni, e non 5, alla settimana. Lei che ancora dovrà attendere anni per ambire alla cittadinanza italiana. E così suo figlio, che incomincia a non capire e ad arrabbiarsi. Pur parlando l’italiano e il dialetto trentino, frequentando la scuola trentina con gli amici trentini, vivendo qui praticamente da sempre, si trova però nel limbo della non cittadinanza. Con minori diritti e costi maggiori.

Negli ultimi decenni in Occidente le classi lavoratrici hanno perduto dei punti in termini economici. La scala dei redditi si è polarizzata e chi aveva più oggi ha molto di più. E chi aveva meno oggi ha ancora meno. Gli ultimi, nella scala, sono gli extracomunitari, lavoratori stranieri che non trovano in Italia le difese a cui potrebbero ambire se fossero comunitari, europei. Nel gennaio del 2021 in Trentino tra i 46.500 stranieri residenti (l'8,6% della popolazione, un po’ meno della media italiana) 5.400 erano albanesi, 3.700 marocchini, 3.000 pakistani e 2.450 ucraini. Anzi, ucraine. Le donne in Italia nel 2021 rappresentavano il 52% del totale di stranieri residenti. E il 69% di queste donne erano occupate nei servizi domestici e di cura della persona (collaboratrici domestiche, badanti, addette alle pulizie). Già uno stigma. Le tre categorie hanno a che vedere anche o soprattutto con la pulizia, di persone o di ambienti. Un lavoro che molti giudicano socialmente svalorizzante. Molte di queste donne però, con coraggio, capacità di carichi di lavoro e di privazioni notevoli, professionalità anche, sopravvivono e vivono. E spesso mandano a casa soldi che, a ragione del cambio favorevole, nelle loro terre danno sollievo a genitori e figli. Non solo carichi di lavoro e privazioni, anche certe - chiamiamole - ingiustizie. Quella della cittadinanza, ad esempio, che devono inseguire, attendere, agognare per 10 e magari 15 anni, e senza non sei un cittadino come gli altri (oltre a dover lavorare di più e a guadagnare meno hai anche meno diritti).

Vera, tu sei nata ad Alessio (Albania), parli un buon italiano, disponi di un diploma di terza media. Ci racconti come sei capitata in Trentino?

"Sono arrivata nel 2014 a Borgo Valsugana. Mia sorella più grande lavorava qui. E mi ha procurato un contratto stagionale di 4 mesi. Avevo un figlio di un anno e mezzo. Lo lasciai dai miei e fu molto difficile, ho sofferto tanto. Dovevo essere molto forte. Mi aiutò una signora trentina. Ho fatto due stagioni senza di lui, volevo guadagnare per poterlo crescere con tutto ciò che poteva servirgli. Al momento della sua nascita non avevo possibilità. Non avevo un futuro. Ecco perché sono venuta qui".

Hai iniziato con l’agricoltura?

"Raccoglievo piccoli frutti. Arrivai a giugno. Non sapevo come funzionava un contratto. Ciò che mi davano… ero contenta. Lavoravo 13 ore al giorno, sotto il sole. Non c’era pausa pranzo. Ti fermavi 15 minuti per un panino. Ci spostavamo a piedi tra un campo e l’altro, i padroni non mettevano a disposizione un mezzo. Dormivo in una casa in affitto con mia sorella che da anni abitava a Borgo. Il padrone non mi dava da dormire e nemmeno da mangiare. Ogni tanto, quando aveva voglia, un caffè. Mi alzavo alle 5 anche se a lavorare si iniziava alle 8. Per fare qualche ora in più andavamo prima. A piedi… anche in quelle mattine fredde e umide, in cui le gambe si bagnano subito ed i campi stavano anche a un’ora di cammino".

Non troppa differenza con le condizioni di lavoro degli extracomunitari stagionali al Sud, i raccoglitori di pomodori. Com’era il tuo padrone?

"Se mi chiedevi a quel tempo ti avrei risposto che era molto carino. Ora che capisco qualcosa ti rispondo che era solo ruffiano. Per colazione mangiavo cracker. A pranzo panini. O pasta che ci portavamo noi. Lavoro stancante. Tante ore. Tornavi a casa e non avevi la forza neanche per fare la doccia. Mio figlio si chiama Juri e lo rividi dopo 4 mesi. Ora ce l’ho con me fin da quando ha compiuto un anno e mezzo".

Quanto prendevi?

"4 mesi di lavoro e mi sono portata via 2.000 euro. Al rientro in Albania tornai a fare quello che facevo prima, operaia in una fabbrica di un imprenditore italiano. Salario? 3 euro al giorno. Un’ottantina al mese. Ma quando sei con la famiglia tutti mettono i soldi in cassa comune. Poi la seconda estate a Borgo. E alla fine sono tornata in Albania a prendere mio figlio: ho deciso che avremmo vissuto qui. La casa me la trovò il nuovo padrone. Un piccolo appartamento, pagavo 300 euro al mese. Ho iniziato ad andare nei campi col bambino. Quando usciva il sole andavo a lavorare e facevo 3-4 ore: gli mettevo una coperta per terra e lui stava lì. Se pioveva tornavo a casa. Se il campo era vicino a casa ci andavo a piedi, col passeggino. Poi ho detto stop. Avevo bisogno ma non potevo lasciare il piccolo in quella situazione".

Se il bambino si ammalava, cosa facevi?

(ride)"Niente assistenza medica né permesso di soggiorno. Ho atteso un anno per averlo. Mi arrangiavo… con le medicine della nonna, erbe. Il secondo anno lavorai nei campi solo un mese. Poi mi aiutavano le persone, i vicini. Cambiai 4 volte casa perché avevano paura, non avevo i documenti. I vicini mi regalarono i cucchiai, il cuscino… Avevo l’acqua calda con il gas. Ero fortunata" (bellissima risata).

Non ti sentivi perduta in un mondo infame?

"Con ciò che avevo sofferto in Albania a me bastava stare con mio figlio. Ero comunque più felice. Non avevo bisogno di un compagno, di un’amica, di chi mi coccolasse. Solo di qualcuno che mi ascoltasse. Piano piano ho iniziato ad aprirmi. Venivo da un’altra realtà, altra mentalità. Temevo che tutti mi guardassero male perché ero un’albanese, sola e con un figlio. Ed infatti c’era diffidenza verso di me. Ma dopo avermi conosciuta la gente mi salutava. E dopo un certo tempo mi sentivo a casa. Ti dicevano buongiorno, ti aiutavano. Dal 2014 sono fissa in Trentino".

Quando hai trovato il primo lavoro continuativo?

"Non subito. Ho lavorato anche in biblioteca, pagamento in voucher. Riordinavo i libri, aiutavo gli studenti e potevo scrivere al computer. Avevo il permesso di soggiorno. Prendevo 200 euro al mese, due volte alla settimana per un paio di ore. C’erano i servizi sociali che mi aiutavano. Ma molto vivevo a debito, accumulai debiti per 3 anni. Era la stessa signora che mi prestava i soldi. Ad un certo punto trovai ancora lavoro in campagna, per 6 mesi e così ho potuto pagare il mio debito. Poi con gli assistenti sociali abbiamo deciso che sarei venuta a Trento. Era il 2016. Sono entrata in una casa di accoglienza con altre mamme, diverse erano arabe. Ci rimasi 4 anni col mio bambino, una stanza e la cucina comune. Non lavoravo il primo anno. Poi ho iniziato il tirocinio… Mi sentivo molto male. Vivere con altri, le regole, persone di abitudini e mentalità diverse…".

Quando hai trovato un lavoro fisso e una indipendenza tua anche economica e di abitazione?

"La casa ancora non ce l’ho, me la fornisce l’A.T.A.S.. In agosto saranno due anni: mi sento più libera, autonoma, completa. Mancano pochi pezzi al puzzle. Sono 7 anni che vivo in Italia fissa, il bambino ha 9 anni, fa la terza elementare. Yuri non manca di cibo, amici ne ha, più italiani che albanesi. Anche se non ho abbastanza tempo per stargli dietro".

Che lavoro fai?

"Pulizie. Sono ormai 4 anni. Alla fine del mese guadagno 1.000 euro, talvolta 1.200, dipende dalla quantità di ore che faccio. Ricevo poi 70 euro dall’assistenza sociale. Per l’affitto pago 200 euro. Riesco a risparmiare. Metto da parte qualcosa. Il mio sogno è quello di affittarmi un appartamento".

Quanto lavori?

"Dalle 8.30 alle 15.30. Un solo giorno di riposo, lavoro anche sabato e domenica. Siamo tutte donne, tutte straniere e tutte mamme con bambini. I miei progetti? Intanto rimango in questa azienda dove mi hanno promesso che mi faranno un contratto a tempo indeterminato. A quel punto, e con i risparmi, potrei trovare un appartamentino per me e mio figlio in affitto. Senza quel contratto, nessuno ti affitta nulla. Poi ho tanti sogni. Vorrei fare la scuola per Oss".

La tua azienda ti tratta secondo le regole?

"C’è un problema. Solo saltuariamente mi consegnano la busta paga. Mi danno i soldi ma non vedo quante ore di straordinario mi hanno segnato, quali sono le voci, se ci sono stati aumenti. Non riesco a capire se mi pagano il giusto. Ma ne ho bisogno e devo accontentarmi. Naturalmente non ho le ferie pagate".

Il tuo bambino è felice? Tu sei felice?

"Lui penso di sì. Io ancora no. Non ho un contratto a tempo indeterminato. Continuano a rinnovarmelo. E se non ce l’hai i privati non ti affittano una casa. Avevo lavorato per loro un anno. Mi ero impegnata molto, avevo fatto tutte le ore che mi richiedevano. Per cercare di essere assunta definitivamente. Ma non lo hanno fatto. Allora ho provato da un’altra parte. Ma in quel caso lo stipendio era molto basso. Mi arrangiavo a fare piccoli lavori, trovandoli qui e là. Poi mi hanno richiamata in questa ditta".

In che ambiente lavori?

"In alberghi di alto livello. Dove un cliente in un giorno può spendere un terzo del mio salario. Non è scandaloso: hanno i soldi e se li godono".

Tu e tuo figlio avete la cittadinanza italiana?

"No. Io devo rinnovare il permesso ogni 6 mesi e mi costa circa 200 euro la pratica. Per ottenere la cittadinanza ci vogliono più di 10 anni di lavoro continuativo. Il che vuol dire tanti problemi. Ad esempio, se sei extracomunitario entri in una diversa graduatoria per avere un appartamento di case popolari. Dalla quale ne pescano 1 rispetto ai 10 della graduatoria degli italiani".

Tuo figlio un giorno si arrabbierà vedendo che non ha gli stessi diritti dei compagni?

"Sì. Lui parla poco o niente albanese, la sua lingua è l’italiano. Addirittura parla anche il dialetto di qui, agisce e pensa come un trentino. Fra poco credo che si arrabbierà vedendo che non ha gli stessi diritti degli altri".

Ci rivolgiamo a Francesco Modenese, operatore di A.T.A.S. dal 2015. Fino al 2020 ha lavorato con richiedenti asilo e rifugiati. Ora si occupa di vulnerabili, persone segnalate dal servizio sociale. Nel caso di Vera, ci dice, il problema è quello della casa: "La difficoltà più grande per questo tipo di persone, fenomeno che in questi mesi è addirittura esploso, è il livello degli affitti a Trento. Esageratamente alti. E ancora che lei è di pelle bianca. Se fosse nera sarebbe peggio. I proprietari chiedono delle referenze: un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ma pensa: se lei prende 1.000-1.200 euro al mese, a Trento per un appartamento di 40-50 metri quadri chiedono 500-600 euro. Minimo. Aggiungi le bollette e capisci che è durissima. Noi possiamo tenere le persone per un massimo di 2 anni e per lei i termini scadranno in agosto. Puntavamo sulla possibilità di farle frequentare la scuola per Oss. Una formazione professionale. L’impedimento è il livello B2 di conoscenza della lingua italiana. Lei la parla bene ma non a quel livello. Quindi ora deve sperare in un contratto a tempo indeterminato, poi deve trovare un appartamento. Sarà dura farcela".

Com’è la faccenda della cittadinanza?

"Chi ha un regolare permesso di soggiorno può richiederla dopo 10 anni di residenza continuativa, dimostrando tre anni di reddito minimo. Quindi Vera potrebbe fare domanda tra quattro anni (se mantiene un reddito) con tempi di attesa tra i due e i tre anni per una risposta. Il figlio otterrà automaticamente la cittadinanza con lei in quanto convivente minorenne a carico".