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Le lingue scompaiono più lentamente delle cose

Da Storo, un insolito e prezioso dizionario dialettale

Quinto Antonelli

Le lingue scompaiono più lentamente delle cose, e quindi c’è un periodo in cui le cose scomparse non sono più accessibili altro che attraverso i loro spettri presenti nella lingua in via di estinzione".

La riflessione di Luigi Meneghello (in "Jura", 1987) sulle parole e le cose sembra scritta apposta per introdurre l’opera di Gianni Poletti, "Parlar da Stòr. Parole, modi di dire e tradizioni della gente di Storo", Associazione "Il Chiese" (I ed. dicembre 2007; II ed. riveduta e aggiornata, giugno 2008). Un dizionario dialettale che è una "re-immersione" in un universo linguistico e culturale in via di sparizione.

Gianni Poletti, già insegnante e dirigente scolastico, è da qualche decennio protagonista della vita culturale e della ricerca storica provinciale con l’Associazione "Il Chiese" e la rivista storica "Passato Presente". Si è occupato delle memorie garibaldine e di quelle della Grande Guerra, dell’emigrazione in Nord America e della storia del lavoro contadino, nonché del suo paese e della sua valle. Un’assidua frequentazione come docente ai corsi della terza età lo ha portato a raccogliere e schedare un migliaio di voci dialettali: con un ristretto gruppo di lavoro formato da otto signore ha poi pazientemente rivisto le sue schede. Il dizionario è quindi esplicitamente un’opera corale, anche se alla fine sono riconoscibili il rigore e la nitidezza della scrittura di Poletti. La struttura apparentemente è quella di un tradizionale vocabolario: al termine dialettale corrisponde quello italiano (quando esiste), una o più definizioni, l’eventuale etimologia, locuzioni e proverbi in cui il termine compare (poiché la lingua non è composta da singole parole ma da testi). Ma poi digressioni storiche, aneddoti, incursioni nell’immaginario folclorico rilevano la "particolare forza e importanza evocativa" di talune antiche parole dialettali che, come scrive ancora Meneghello (questa volta in "Maredè, Maredè...", 1991) contengono "la forma generale di qualche aspetto cruciale del vivere". Meneghello fa l’esempio delle "strussie: patire, consumarsi a lavorare e penare"; nel dialetto di Storo il termine si tramuta in strösiar ma rimane l’emblema di una condizione umana, quella dei contadini di montagna, che si dividevano tra le coltivazioni in valle e l’alpeggio e quella delle donne sottoposte alle faìghe (fatiche) più aspre.

È un dizionario narrativo. Si legge con interesse dall’inizio alla fine, da "a" a "vöt". Un esempio tra i meno difficili da trascrivere: "consorèla: s.f. Consorella, componente di una confraternita femminile. Vedi confradél. L’associazione delle consoréle c’è ancora oggi, ma è scomparsa l’usanza per cui una di loro (in molti ricordano in questo ruolo la Ghiacomina däl Temù) portava ai funerali lo stendardo del gruppo raffigurante uno scheletro con la falce e la macabra scritta: Oggi a me, domani a te".

È un dizionario storico. La consapevolezza che il dialetto vive nella storia ha convinto Poletti a inserire e a segnalare i prestiti, le interferenze, i lasciti. Ritrovo qui il lessico austriacano, un gergo italo-tedesco dovuto in epoca asburgica alla frequentazione, da parte dei giovani trentini in età di leva, delle caserme austriache. Trovo i termini, a me del tutto ignoti, riportati in patria dagli emigranti, i mericani. E infine si legge con un po’ di spaesamento il lessico della modernità che irrompe negli anni ‘50 (giungono in paese, fin dentro la casa contadina, nuovi oggetti, nuovi prodotti con il loro nuovo nome).

Ad esempio, sotto la lettera "c" viene registrata la voce "crèma marsala" che provoca una divertente digressione narrativa con la storia del vecchio contadino che si lamenta direttamente con il Padreterno per la morte della moglie: "Ma te pölée a lasàrmala Segnòr chè ä mi ä me ocòr. Cò n’anfarét ti che ä brontula, ä pipa, ä lec äl grantotèl e ä béf a l crèma marsala?" [traduzione alla buona: "Ma potevi lasciarmela, Signore, che mi serviva. Che cosa te ne fai di una che brontola, fuma, legge Grand Hôtel e beve la crema marsala?].

È un dizionario libero. Libero da falsi pudori e da moralismi. "Chiül" (culo), per esempio, gode di un’intera pagina, dove è al centro di un vorticoso frasario metaforico. Scrive Poletti: "Non dobbiamo aver pudore ad usare queste espressioni, perché antant che se parla de chiül e de mèrda l’ànema lä se consèrva".

Le tante fotografie che accompagnano le voci sono in genere ben scelte e pertinenti, ma fra tutte ho apprezzato quella che affianca il termine "sfoi" (giornale), che raffigura quattro uomini intenti a leggere L’Unità "nella storica sede del PCI storese", perché, appunto, inserisce nell’universo dialettale (che tende a raccontare il tempo ciclico del lavoro contadino) la dimensione politica e ne sottolinea la permeabilità storica.

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