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QT n. 18, 14 ottobre 2000 Servizi

Malattia Psichica: oltre la pastiglia

A Trento, da un affollato incontro, le esperienze più innovative per recuperare il disagio psichico.

"La libertà è partecipazione" - cantava qualche anno fa Giorgio Gaber. E Luciano, paziente psichiatrico e socio di una cooperativa, esprime più o meno lo stesso concetto con queste parole: "Le medicine aiutano, però il calore umano è quello che ti fa uscire dall’isolamento". Insomma, non sarebbe un grande progresso se il malato di mente, una volta abolito il manicomio, uscisse di casa solo una volta in settimana per recarsi al centro di salute mentale, e per il resto vivesse segregato all’interno di un condominio.

Sulle cause della malattia mentale, e dunque sulle terapie da adottare c’è stato per anni un accanito dibattito, quasi una guerra ideologica, conclusasi infine con una sorta di armistizio, che riconosce un qualche valore alle diverse argomentazioni in conflitto. Il paziente - si dice ormai pressoché unanimemente - va curato sia con i farmaci, sia con l’intervento degli operatori psichiatrici, sia con tutte quelle iniziative di socializzazione che mirino a reinserire la persona nella famiglia e nell’ambiente. Quest’ultimo tipo di "terapia" è ancor oggi quello più difficile da mettere in atto, perché richiede la partecipazione diretta del malato, dei suoi famigliari, del tessuto sociale. Qui l’utente del servizio non si limita a seguire le prescrizioni del medico: diventa soggetto attivo all’interno delle iniziative più diverse, e questo a volte disturba, cozza contro un modo tradizionale di praticare la psichiatria e più in generale la medicina. Il risultato è una situazione estremamente variegata, fatta di realtà - come Trento - in cui la struttura ufficiale (a partire dal primario) utilizza energie e risorse in quella direzione, ed altre dove ci si scontra con il muro di gomma del tran tran quotidiano, poco propenso a vedere degli "estranei" invadere in qualche modo il proprio terreno.

Questo momento del lavoro psichiatrico è evidentemente quello più nuovo, più sperimentale, meno soggetto a regolamentazioni precise, ed è per conoscersi, raccontare e confrontare esperienze che a Trento, fra il 6 e il 7 ottobre, si sono incontrate, al convegno intitolato "Le parole ritrovate", alcune centinaia di persone provenienti da tutta Italia, fra psichiatri, assistenti sociali, volontari, familiari e malati, lasciandosi infine con l’impegno di tenersi in contatto e di riferire sulla prosecuzione delle proprie esperienze.

Le esperienze di cui si è parlato erano le più varie, tutte caratterizzate però da un elemento comune: un rifiuto della delega, un’assunzione di responsabilità, un "fare con" al posto di quel "fare per" che è inevitabile nel versante "chimico" della psichiatria. Al centro di ogni iniziativa, troviamo quasi sempre un’associazione o una cooperativa composta da tutti i soggetti interessati (psichiatri, assistenti sociali, educatori, volontari, familiari, pazienti…); quanto all’attività svolta, si cerca di affrontare tutto il panorama dei possibili bisogni: la ricerca dell’autonomia fisica (case protette) ed economica (cooperative di lavoro), il tempo libero (feste, gite, vacanze), il recupero della creatività (spettacoli teatrali, attività artistiche, giornali), fino alla scelta di praticare adozioni a distanza.

La testata di uno dei giornali prodotti da centri di salute mentale, associazioni o cooperative che lavorano sul disagio psichico. Uno dei momenti del convegno è stato il confronto tra i redattori di questi giornali.

In tutte le realtà più vivaci troviamo poi gruppi di auto-mutuo aiuto che si incontrano regolarmente: un appuntamento che interessa non solo le persone affette da disagio psichico, ma anche, in riunioni a parte, i familiari.

"Al principio, provavamo tutti un grande disagio - racconta una madre - Seduti in cerchio, non osavamo neanche guardarci l’un l’altro. Poi ci siamo letti in faccia il dolore che ciascuno provava ed è stato l’inizio di una resurrezione. Prima di allora non potevo esprimere le mie emozioni con nessuno, nemmeno con gli amici. Che ne sapevano, loro, di quello che avevo dentro? Lì invece tutti sapevano, il loro era un ascolto autentico. Risultato: l’atmosfera in famiglia è cambiata, siamo diventati più sereni, meno impacciati. Io e mio marito abbiamo smesso di litigare, di rimpallarci responsabilità per il dramma che ci era capitato, abbiamo imparato a metterci in discussione. Ma perché la cosa funzioni bisogna togliersi la maschera, essere se stessi, non vergognarsi degli sbagli commessi. E ci riesci, perché quando è in gioco la salute, la vita di tuo figlio, le motivazioni sono fortissime".

P

iù che limitarsi a elencare le molte realizzazioni raccontate nel corso del convegno, può essere utile spendere qualche parola in più su un paio di casi. A Milano, una di queste associazioni ha realizzato il progetto "Vacanze assieme" (tra l’altro, scegliendo come meta il Trentino), che consente a delle persone con disturbi psichici, accompagnate dai familiari e con l’aiuto di volontari, di trascorrere serenamente un periodo in montagna. Il che, mentre permette ai malati di godere di una libertà e di una socializzazione spesso sconosciute, fa sì che i loro genitori, che in certi casi si trovano sotto tensione 24 ore su 24, possano tirare un po’ il fiato e instaurare coi figli un rapporto più tranquillo.

Da Tolmezzo, in provincia di Udine, un’altra trovata in apparenza banale. Tutto è partito con l’idea di costruire un presepe, ma alla fine queste persone, che avevano imparato a lavorare la ceramica, si sono trovate ad insegnare quanto avevano appreso a dei ragazzi delle scuole locali. E siccome si sono dimostrate, in questo lavoro, particolarmente flessibili e pazienti con i loro giovani allievi, sono arrivate numerose richieste perché questo loro impegno didattico prosegua e si allarghi. Non è difficile capire quanto sia importante, nella ricostruzione di una identità fragile, di una personalità disturbata, una gratificazione di questo genere.

Una gratificazione - va aggiunto - che evidentemente tocca anche gli operatori, e anche questo è importante. Da alcuni interventi è infatti emerso il problema del cosiddetto "burn out", espressione che potremmo tradurre con demotivazione, stanchezza, mancanza di stimoli. Un fenomeno che nasce da cosa? "La perdita di entusiasmo negli operatori psichiatrici – spiega un assistente sociale – non deriva, come qualcuno potrebbe credere, dal quotidiano contatto con un mondo di sofferenza. La stanchezza - una recente ricerca lo ha dimostrato - è favorita dalla disorganizzazione, dalla cattiva qualità del servizio, dalla quotidiana constatazione che non sappiamo sfruttare tutte le risorse che pure abbiamo a disposizione. Fra queste risorse c’è anche un rapporto corretto con gli utenti del servizio; ed è una risorsa che si attiva solo quando li responsabilizziamo, cioè li prendiamo sul serio, rispettiamo la loro privacy…, insomma concediamo loro quella fiducia che pretendiamo per noi".