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Palestina quale soluzione?

Serravalli Luigi

Nel 1896 l’avvocato ungherese Theodor Herzl pubblicò a Vienna un libro destinato a fare epoca: "Der Judenstaat" nel quale, partendo da idee romantiche (vedi, per esempio, i "Discorsi alla nazione tedesca" di Fichte), sostenne che gli ebrei sarebbero dovuti tornare in Israele, e formare la nazione giudaica. Da qui nacque il movimento detto Sionismo. Herzl, per il resto della sua vita, diventò il maggior propagandista della sua idea che trovò l’accettazione entusiastica di una parte degli ebrei: portare un popolo senza terra in una terra senza popolo. Nel 1917, alla fine della prima guerra mondiale, Lord Balfour, importante personalità politica inglese (fu anche primo ministro), aderì all’iniziativa. Molti anni più tardi Lord Balfour dichiarò candidamente che lui credeva che la Palestina, tranne Gerusalemme, fosse vuota di abitanti. Le grandi potenze, in generale, furono favorevoli al fatto che una "guarnigione" europea si insediasse al centro dei paesi arabi a guardia delle immense risorse di petrolio del territorio.

Il movimento ebbe successo. Nel 1880 in Palestina si trovavano 24.000 ebrei, ma nel 1914 erano già 85.000. Intanto molti arabi pensarono bene di rifugiarsi nei paesi limitrofi di popolazione islamica.

Secondo le cifre di alcuni anni fa, la popolazione araba è ridotta ormai a circa 700.000 persone (per un totale di circa tre milioni e ottocento mila abitanti), tuttavia questo resto di cittadini islamici costituisce sempre un grosso elemento di preoccupazione, in quanto la spinta demografica nel mondo arabo è assai più forte che in quello ebraico.

Dobbiamo qui ricordare che prima della guerra mondiale del 14/18, la Palestina era sotto l’impero turco. Gli inglesi, per combattere i turchi, si fecero aiutare, sotto il consiglio del mitico colonnello Lawrence, dal re Feisal e dalle tribù nomadi arabe. Alla fine della guerra, furono proprio gli inglesi (il citato Lord Balfour) ad appoggiare l’insediamento dei sionisti, popolo senza terra, in una terra già occupata dagli arabi da circa 2000 anni. Cioè gli inglesi premiarono l’aiuto arabo col tradimento, come racconta lo stesso Lawrence nel suo bellissimo libro "I sette pilastri della saggezza".

L’attuale conflitto arabo-israeliano è l’ultimo di una lunga successione di episodi similari. Da una parte l’esercito israeliano, dotato di tutti i mezzi più potenti, dall’altra gli arabi, armati soprattutto della loro rabbia. I sionisti hanno cominciato ad affluire in Palestina quando esisteva ancora una mentalità colonialistica. E, purtroppo, gli israeliani hanno mantenuto, di fronte alla precedente popolazione araba, una mentalità colonialistica. Nel 1945 le grandi potenze hanno rinunciato alle colonie, ma nel 1945 gli ebrei venivano fuori dalla spaventosa esperienza della Shoah. Moltissimi ebrei dell’Europa orientale e dei paesi tedeschi trovavano in Palestina una nuova patria e tutti eravamo felici di questa possibilità. Maxime Rodinson, nel suo libro "Israele e il rifiuto arabo", esamina la situazione in modo oggettivo e, pur essendo ebreo, considera che la discriminazione finisce col situare gli arabi in Palestina in una situazione simile a quella del Sud Africa. E’ inutile quindi sedersi a un tavolo per fissare il cessate il fuoco se non si risolve l’altro problema impellente che è quello della minoranza araba.

Teoricamente, secondo il pensiero di Rodinson, la soluzione esiste. I due popoli debbono imparare a considerarsi, in modo moderno, accettandosi l’un l’altro. Ammettere le differenze etniche, storiche, religiose. Non mostrare complessi si superiorità. Ritenere concordi che la società coranica e quella biblica sono ugualmente fondate su antiche culture e che, a parte i diversi discorsi metaforici, arrivano ambedue agli stessi risultati. Assimilarsi a vicenda, mescolarsi, mantenendo il minimo di identità ataviche fondamentali, ma senza conflitti.

Ancora una volta, insomma, bisogna citare il modello di convivenza fra italiani e tedeschi nel contesto alto-atesino. Occorre mettere al bando i massimalismi, riflettendo sul fatto che pur nei diversi paralleli e meridiani, con le caratteristiche che vanno rispettate, tutti gli uomini, in fondo, non sono altro che scimmie che hanno fatto carriera.

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