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QT n. 21, 25 novembre 2000 Monitor

Fratello, dove sei?

Ifratelli Cohen nel loro ultimo film, "Fratello, dove sei?", rivisitano, con i modi originali che gli sono propri, la figura e il mito di Odisseo, affermando per altro in un’intervista di non aver mai letto il poema, ma di averne visto la trasposizione cinematografica con Kirk Douglas, e di aver sentito la storia dai racconti di chi l’aveva letta. Essi comunicano subito, all’inizio tra i titoli di testa, di essersi ispirati al poema di Omero, di cui su fondo nero riportano i versi della protasi, per allontanarsi subito nel tempo e nello spazio ed entrare molto liberamente in un mondo recente: gli anni ‘30 nel Sud degli Stati Uniti d’America, la grande depressione tra gli agricoltori del Mississippi. Tre condannati ai lavori forzati fuggono in catene, vengono ospitati e traditi, sono coinvolti in avventurose vicende, alcune rischiose, le sirene, il Ku Klux Klan dalla cui furia strappano l’amico nero destinato a morte, una manifestazione elettorale molto aggressiva per cui si trovano a cantare, Ulisse ritrova la sua Penelope aspra, incattivita e infedele; infine eccoli superstiti dopo una terribile inondazione.

Nessuna attinenza con l’Odissea dunque, se non in qualche riferimento gustoso e a volte riadattato con amaro humor, ma di essa, filtrato attraverso i modi della commedia, il regista mantiene lo spirito dell’andar girovagando, dopo averla spogliata di ogni epicità o eroismo. Dello spirito dell’epico poema che i Cohen hanno inteso preservare e comunicare, diverse sono le tracce palpabili, pur ricreandolo in una rappresentazione, sfumata di malinconia e ironia, accompagnata da una musica sapientemente espressiva, che riveste la vicenda delle peculiarità e dei tratti storico-culturali che caratterizzano quel pezzo di storia americana del primo 900. Così il moderno Ulisse, come l’antico astuto, ingannatore e generoso, fedele agli affetti domestici e avventuriero, prudente e temerario, pensa sempre a casa, sua meta agognata, e si vanta come paterfamilias, ma si attarda in ogni genere di guai, stravaganze, curiosità, trascinando seco i due amici fedeli. E come nell’Odissea, anche qui si tende a render verosimile l’incredibile, a riportare gli episodi più fantastici ad un livello di plausibilità, calando le mirabolanti avventure dei tre Ulissidi (un ironico e vanitoso Geoge Clooney, un imbronciato e cupo John Turturro, un ingenuo e remissivo Tim Blacke Nelson) nella realtà miserevole della depressione, in un contesto sociale fitto di umili e diseredati. E, soprattutto, si chiude questo oscuro periodo di incertezze e durezze di vita (nell’Odissea si chiude il medioevo greco che dalla caduta della civiltà micenea approda ora alle civiltà aristocratiche) con i segni di un nuovo mondo che avanza sul vecchio, elettricità, progresso, dighe, nuove persone politiche e nuovi comunicatori; cadono vecchi miti e credenze, e con essi il vecchio Sud con le sue superstizioni e ingenuità, sostituito da uno nuovo più tecnologico, in cui presenti sono già gli annunci di una comunicazione di massa con conseguenti nuovi modi di manipolazione. Il tutto trasmesso attraverso un fluido scorrere di tempi e situazioni, caratteri e sentimenti, con momenti surreali e altri di crudo realismo, lo sguardo ironico e sempre una limpidezza e perfezione stilistiche, connotazioni di uno stile d’autore.

I tre Ulissidi, molto umani e volti non ad eroiche vittorie ma a cavarsela al meglio nelle varie vicissitudini, vagabondano per boschi, praterie e paesi, dietro le avventure che incontrano, proprio col piacere di affidarvisi, pur nel miraggio di un tesoro (che Ulisse sa bene non esserci) e della Penelope a cui tornare. Se da una parte i Cohen tolgono l’omerico afflato, dall’altra anche rispetto al loro cinema si discostano da un loro modo che riconduceva la struttura ad una qualche perfetta geometria (cerchio o linea retta), per lasciarsi invece andare, senza meccanismi o artifizi, all’imprevisto del girovagare che da una situazione porta nell’altra. E pure lo spettatore si lascia andare, piacevolmente perché la messa in scena è ricca e originale, l’interpretazione accattivante, l’incanto dei paesaggi persino irreale nella sua bellezza, e segue divertito gli incontri, le esperienze fantasiose, senza preoccuparsi di ritrovarvi quelle del mitico Ulisse; che pure vi sono disseminate (Tiresia, le sirene, il ciclope, Penelope) insieme ad un comizio elettorale, un rito purificatore nel fiume, una registrazione musicale, una cerimonia notturna del Ku Klux Klan.

Ma il riferimento più forte e originale è la splendida colonna sonora che accompagna tutto il film, con musiche e canzoni d’epoca, country, spirituals, blues, a sottolineare i fatti dei vari capitoli della peregrinazione e a identificare la temperie storico-culturale che li contiene; le canzoni paiono fissare la storia popolare dell’America anni’30, di quella depressione che ha segnato la vita individuale e collettiva, come l’Odissea di Omero ha fissato le storie orali che gli aedi cantavano a corte. Ed è proprio questa musica, piena, ricca, dolente, allegra, struggente, che conduce il filo dell’emozione, dell’adesione libera alla scanzonata, e pur malinconica, epopea dei protagonisti, che vivono i giorni come seguendo la corrente di un fiume placido, non frettolosi di arrivare ma curiosi di vivere e sopravvivere. E ce la fanno sempre, senza eroismi; anche dall’evento catastrofico finale, un’inondazione che ha spazzato via tutto, riemergeranno galleggiando aggrappati ad una bara.

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