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QT n. 23, 23 dicembre 2000 Servizi

Nizza: da una parte e dall’altra del corteo

Riflessioni sul movimento italiano per la manifestazione di Nizza del 6-7 dicembre.

Volevamo andare a Nizza perché rivendichiamo l’Europa degli uomini contro l’Europa del denaro, un mondo dove la ricchezza non sia il fine, ma uno dei fattori che ci permettono di realizzare quanto abbiamo di più caro: tessere relazioni, recuperare la nostra dimensione sociale, imparare a comunicare.

La cosa di cui avevo più paura era il ritrovarmi solo, incompreso, emarginato; la cosa che meno mi aspettavo era che la mia paura trovasse un fondamento proprio nel corteo della manifestazione diretta a Nizza e fermata sul confine a Ventimiglia a suon di comunicati governativi e gas lacrimogeni dalle autorità che noi abbiamo eletto per rappresentarci.

Chi ha seguito lo svolgersi dei fatti attraverso le cronache saprà che il corteo dei manifestanti provenienti da tutta Italia e diretto a Nizza (circa 1.500 persone, per lo più giovani) è stato fermato al confine presso la stazione di Ventimiglia e impedito di proseguire. La Francia ha chiuso le frontiere dimenticandosi per l’occasione dell’Europa unita e, con la complicità del governo italiano, ha schierato uno stuolo di forze di polizia in tenuta antisommossa soprassedendo anche su altri fondamentali diritti, orgoglio della civiltà occidentale: diritto alla libera circolazione delle persone (per le merci, invece, nessun problema: quelle non pensano), diritto ad esprimere liberamente la propria opinione e via dicendo.

Il fatto è increscioso, inaudito e, se non altro, ha messo in luce il vero volto dell’Europa che ci si appresta a costruire: l’Europa delle merci, dei governanti anziché dei governati, della polizia anziché dei diritti, dei lacrimogeni contro le libertà democratiche. Ma non è di questo che voglio parlare, non solo perché se ne è già parlato molto, ma anche perché vorrei indossare per un momento l’abito di avvocato del diavolo e cercare di scoprire il marcio anche laddove non riusciamo a vederlo.

"Partono i giovani dei centri sociali forniti di vermouth, ‘fumo’ e bandiere rosse" - echeggiano le testate di giovedì 7 dicembre. Qualche tempo prima, in occasione di manifestazioni antirazziste che hanno interessato il Triveneto, una testata locale aveva sputato veleno: "Scendono in piazza gli anarco-tossici"; ovunque si paventa il pericolo che l’orda rossa, imbottita di sostanze psicotrope, si dia al vandalismo. Non si tratta di casi isolati ma di fatti paradigmatici che denotano il sentore comune in riferimento ai fatti successi.

La prima critica va ai mass media: il sensazionalismo di cui sono vittime li porta ad associare arbitrariamente le bandiere rosse e la solidarietà all’alcol, le manifestazioni contro la xenofobia agli spinelli e così via. Ne viene fuori un movimento politico connotato a tinte fosche, la cui credibilità è zero. E l’impatto sociale di una notizia posta in questi termini è disastroso: il passo da "io non sono un drogato ubriacone" a "io non vado a manifestare" è brevissimo. E credo che non esprimere pubblicamente la propria opinione su questioni di vitale importanza sia più grave che schierarsi a favore dei movimenti xenofobi, dal momento che è proprio l’indifferenza che lascia correre l’equazione: solidarietà + antirazzismo = comunismo = droga, alcol, violenza, ecc. A questo punto, l’importante è risalire alle radici di questo stereotipo pericoloso e profondamente offensivo per chi si batte concretamente in nome di ideali di cui tutti si fregiano la bocca.

Nel caso dei mass media l’associazione di concetti di cui sopra può derivare in parte dai modelli culturali (oggi decisamente obsoleti) formatisi nel periodo della guerra fredda e dei blocchi ideologici contrapposti, o da movimenti che oggi ne ricalcano le impronte; non posso tuttavia negare che la descrizione riprenda, per così dire, fotograficamente la realtà. Ero anch’io sul treno per Nizza, quindi so bene che su quel treno non mancavano certo sostanze psicotrope di vario tipo. Un giornalista non particolarmente sensibile o un semplice osservatore non avrebbe potuto non cadere in questo equivoco - senza voler per questo difendere la faciloneria dimostrata in quell’occasione.

Ma non è tutto. In primo luogo mi sono chiesto: è davvero tutta qui la gente che crede e lotta per un mondo migliore, dove la politica sia un evento partecipato, la solidarietà il criterio che regola i rapporti tra persone, nazioni e popoli e la comprensione reciproca la base della futura società interculturale? Voglio credere che non sia così e sperare che tutti quelli che si stanno muovendo per promuovere la globalizzazione dal basso della solidarietà non si possano ammassare indistintamente sotto una sola bandiera di partito, né riunire sotto una definizione comune nell’insieme di chi fa uso di sostanze psicotrope. Il cosiddetto terzo settore si presenta oggi variegato, multiforme, fors’anche diviso e frammentato: e questo, se da un lato costituisce una debolezza, dall’altro mostra come la molteplicità e la differenza costituiscano il perno attorno al quale costruire, nel rispetto reciproco, il mondo che vogliamo. Insomma, il treno che dall’Italia si diresse a Nizza non era rappresentativo del popolo di Seattle, e non rispecchiava nemmeno la realtà complessa della manifestazione di Nizza. Dove erano gli ambientalisti? I pacifisti? Gli attivisti delle ONG? I cattolici sensibili al tema? I nonviolenti? Gli obiettori di coscienza? E, per dirla tutta: dove erano i cittadini che, senza militare in gruppi politici o bazzicare nei centri sociali, si dicono ugualmente solidali alla lotta con mezzi civili per far sentire la propria voce? So che ce ne sono, ne ho conosciuti. Perché non si sono uniti al corteo?

C’è però un secondo aspetto che vorrei sottolineare. Nel partecipare alla manifestazione ho notato a tratti una certa intolleranza, dimostrata dalle frange di attivisti che si dicono più "estremiste", nei confronti di chi non è come loro. C’è stato chi ha sollevato accuse di buonismo, eccessiva magnanimità, inutile tolleranza addirittura nei confronti dei promotori del corteo, allorché questi ultimi deploravano rabbiosamente atti inconsulti di vandalismo (si vedano i danni riportati ai caselli autostradali della frontiera italiana, i cassoni della spazzatura rovesciati, ...) o di violenza gratuita (scagliare pietre ai poliziotti, prendere a botte un fotografo per il sospetto che si tratti di un agente della Digos,...).

Nella sera tra mercoledì e giovedì, quando si è occupato il casello autostradale chiudendo l’accesso a chi provenendo dalla Francia era diretto in Italia, non ci sono stati veri momenti di tensione. Ciò nonostante, ci fu chi sentì il bisogno di incitare il corteo alla corsa (tra l’altro, col risultato di romperne la compattezza), di insultare i poliziotti, di rompere le sbarre dei caselli autostradali, di frantumare a terra bottiglie di vetro. Senza parlare degli accadimenti del giovedì nella blindatissima Ventimiglia, dove si è arrivati allo scontro fisico, ai lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, a cariche portate avanti da entrambi i lati.

Manifestare la propria rabbia o il proprio entusiasmo non significa diventare degli incivili. La disobbedienza civile è l’arma più forte che abbiamo a disposizione per far sentire la nostra voce di resistenti. Per ottenere dei risultati è necessario che l’iniziativa non sia di singoli cittadini "facinorosi", ma di una vasta schiera di resistenti. Una partecipazione su larga scala presuppone che nella manifestazione ci sia spazio per tutti e che ciascuno si faccia responsabile del comportamento collettivo. L’atteggiamento dei facinorosi rovina l’intento della manifestazione e, al tempo stesso, preclude la partecipazione attiva di tutta una fetta della società civile che si batte per gli stessi ideali ma che, visti gli esiti, ne condanna la forma. Senza contare che fomenta la violenza fino ad entrare in un circolo vizioso: ormai, tutti sanno che dove passa il popolo di Seattle ci saranno scontri, motivo per cui chi comanda aumenterà sempre di più il numero degli agenti antisommossa. E così via, a chi picchia più forte. E poi si sa, quando gli animi si scaldano, chi si tiene più? E’ indubbio che la polizia sia lo strumento utilizzato da chi vuole zittire le voci che protestano, ed è altrettanto fuori discussione che nella polizia-istituzione vi sia il punto di forza dei governanti contro i governati. Ma così come possiamo criticare a gran voce l’uso della forza per soggiogare quello che riteniamo essere un nostro diritto, allo stesso modo è esecrabile che ci facciamo portavoci della resistenza adottando gli stessi strumenti e atteggiamenti che il "sistema" usa contro di noi.

Il problema, per tornare all’assunto iniziale, è che mi sono sentito solo durante la manifestazione. Soprattutto, mi brucia il fatto di essere stato io (come parte di una collettività, non come individuo) a lanciare i sassi alla polizia, a incitare alla corsa per cercare il contatto fisico, a rovesciare i cassonetti ed a picchiare il fotografo. Come parte di un gruppo, ognuno deve essere pronto ad assumersi le responsabilità di queste azioni; ed è questo probabilmente uno dei motivi per i quali molti attivisti italiani hanno preferito rimanere a casa anziché unirsi al corteo.

Ho parlato con i poliziotti. Ragazzi anch’essi, né più né meno come la maggioranza dei manifestanti, hanno voluto mostrare, in un attimo di distensione, il loro volto di uomini al di là della divisa. Adducevano a loro discolpa il fatto di essere loro stessi i difensori delle libertà democratiche e dei deboli. "Un uomo stava accompagnando suo padre all’ospedale, e ho dovuto dirgli che per il valico di Ventimiglia non si passava. Quello se l’è presa con me" - mi dice un ragazzone, un metro e novanta per novanta chili nascosti dentro la divisa blu imbottita. E aggiunge: "Certo che avete la libertà di manifestare. Ma fino a quando la libertà vostra non lede la libertà altrui...". Una frase emblematica, non certo per la banalità del contenuto (quante persone sul nostro pianeta muoiono ogni giorno per fame, guerre, malattie a causa delle politiche economiche globali contro le quali si stava manifestando?), quanto per lo spirito con il quale è stata pronunciata. Il poliziotto, infarcito di buoni propositi e ideali simili, per certi versi, a quelli dei manifestanti, vedeva confermate le sue convinzioni nel momento in cui i manifestanti assumevano un comportamento poco civile. Lo scopo che ci si dovrebbe prefiggere sarebbe, per converso, quello di stupire a tal punto i difensori dell’ordine pubblico da spingerli all’obiezione di coscienza e a formarsi, per quanto possibile, un’opinione più articolata delle politiche globali che, più o meno coscientemente, difendevano con scudi, manganelli e lacrimogeni.

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