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Dalla turboeconomia alla distruzione ecologica

Luigi Serravalli

Luttwak, in un libro ormai celebre, analizza gli aspetti deteriori del più recente capitalismo, parlando di turbocapitalismo. Un fenomeno di sfrenata corsa alla ricchezza, dove tutto appare lecito anche se le conseguenze a danno dei cittadini sono drammatiche e spesso demenziali.

In questi ultimi tempi ne abbiamo esempi macroscopici: la mucca pazza, l’uranio impoverito, le case di sabbia nel territorio indiano colpito dal terremoto, la desertificazione nelle zone tropicali dell’Africa, l’acqua alta a Venezia, la deforestazione selvaggia in Sardegna, la quasi scomparsa delle balene e di grandi famiglie di pesci, abituati a convivere in branchi nei mari del pianeta... e si potrebbe continuare a lungo. I media molto spesso proteggono l’imprenditoria selvaggia e senza scrupoli: dicono e non dicono. Scatenano campagne scandalistiche per poi abbandonarle repentinamente, sensibili alle rimostranze delle potenti holdings interessate.

Il fenomeno della mucca pazza è diventato angoscioso per tutti. La mucca ci dà i vitelli, il latte, la carne, il cuoio e, in cambio, chiedeva un’alimentazione a base di foraggio, essendo un animale rigorosamente vegetariano. Sono sorti invece enormi mangimifici che si sono messi ad inventare nefandi pastoni, triturando tutto: una certa parte di foraggio tradizionale e poi carne, ossa, zoccoli, peli della coda, frattaglie, immondi miscugli, finché le povere mucche sono impazzite. Sono in gioco enormi interessi e, in modo grave, la nostra stessa salute. Tuttavia lo stesso tam tam (ne abbiamo l’impressione) funziona anche come cortina fumogena. Così viviamo una crisi che, in questo settore, ci fa dubitare della stessa parola progresso.

L’uranio impoverito sbuca fuori da tutte le parti e nello stesso modo siamo bombardati da notizie contraddittorie. I media come sempre, sono combattuti fra lo sfruttamento a tappeto della notizia e l’oscuramento della medesima per non danneggiare le imprese. Il numero dei malati, d’altronde, non appare ancora così grande da far correre ai ripari e quindi non si prendono decisioni definitive: si confrontano le situazioni e non si decide drasticamente di mettere al bando, come nefasto, questo materiale cancerogeno. Dietro al quale si nascondono affari miliardari.

Il recente terremoto in una regione dell’India occidentale ha mostrato come il maggior numero di decessi si è verificato dove edifici pubblici o privati erano di grandi dimensioni. Cioè sotto le catapecchie il terremoto ha fatto i minori danni. E’ noto che un edificio di notevole altezza si sostiene con infrastrutture in cemento armato che, in quella parte dell’India, totalmente latitavano. Così, con la scossa, quei pomposi casoni sono crollati come castelli di carta.

La deforestazione selvaggia, per i guadagni delle imprese che si dedicano a questa industria, finisce per desertificare il territorio. Nei nostri Appennini porta anche alle alluvioni, alle valanghe d’acqua che si scatenano improvvise ai fianchi delle montagne, spazzando via tutto quello che incontrano: l’Appennino disboscato è franoso e in fondovalle si creano zone allagate (Sarno e Quindici).

Per l’acqua alta a Venezia ci si contenta di indicare progetti (che non vengono mai messi in atto), mentre i cittadini passeggiano sui ponteggi che ormai sono diventati una costante dell’arredo urbano della regina dell’Adriatico, ridotta a città cronicamente sinistrata. Pare che al tempo dei Dogi le cose funzionassero molto meglio e che il pericolo dell’acqua alta fosse stato esorcizzato. Se in Olanda facessero come a Venezia, l’Olanda semplicemente non esisterebbe: dove oggi si pratica un perfetto sistema di dighe a protezione dei "polders", si praticherebbe la pesca d’altura.

Altro episodio gravissimo è stato quello delle Galapagos, preceduto da uno analogo nelle coste della Bretagna. Si tratta di due località, la prima al largo dell’Ecuador, la seconda presso la penisola omonima nel Nord della Francia, fra le più belle del mondo. Si sa da tempo che le petroliere sono spesso come mine vaganti: il loro contenuto, se si sparge per il mare, uccide la fauna e la flora ed imbratta le coste in modo irrimediabile. Abbiamo visto tutti, al tempo del guaio in Bretagna, gli ecologi che cercavano di ripulire albatros, gabbiani, procellarie ed altri uccelli marini dai liquami usciti da una di queste carrette, marce per troppo lungo servizio, che avevano impestato di bitume una delle più belle spiagge della terra. Così la settimana scorsa, alle Galapagos, dove vanno a nidificare le gigantesche tartarughe marine (dalle quali, in spagnolo, il nome galapagos), dove la flora e la fauna incontaminata hanno sede in uno degli arcipelaghi più belli dei tropici, un capitano, forse un po’ bevuto, ha portato la sua vetusta carretta in una secca, e il petrolio si è sparso per il mare, prendendo la via delle isole, impiastricciandone le foche, gli uccelli marini, arrivando sulle spiagge e distruggendo la bellezza dell’ecosistema. La carretta sconquassata continua ancora oggi a buttare fuori fetidi liquami. Per fortuna, a un certo punto, una forte tempesta ha cambiato il corso dei venti e l’onda nera è stata portata al largo risparmiando le isole. Perché le leggi internazionali non obbligano le petroliere a navigare il più lontano possibile dai rifugi per la flora e la fauna, dai luoghi che appartengono a tutta l’umanità come la parte ancora incontaminata del pianeta?

Il perché è semplice: il turbocapitalismo vede solo nella ricchezza senza limiti lo scopo di ogni attività economica, senza curarsi della vivibilità, della protezione della natura, del sopravvivere della società umana su un pianeta sempre più in pericolo.

Con le prossime elezioni, in Italia, è proprio un esempio del più esagitato turbocapitalismo che si presenta come premier; non per il bene del paese che dovrebbe amministrare, ma per aumentare ancora le sue incredibili ricchezze.