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QT n. 7, 7 aprile 2001 Monitor

Sulle tracce di Stingel

Un solo passo, e già calpesti l’opera. Altri, prima di noi, l’hanno fatto: signore con tacchi a spillo, uomini con suole carroarmato hanno lasciato impronte e squarci irreversibili, su questo pavimento di polistirolo foderato di carta argentata, come tutte le pareti e il soffitto. E’ la sala centrale della mostra di Rudolf Stingel, a palazzo delle Albere, ulteriore tappa di Contemporanea (fino al 1° luglio).

Mentre pensi che in fondo è un bel modo di accoglierti, di metterti a tuo agio (o a tuo disagio: comunque compartecipe), hai la sensazione di essere avvolto da uno specchio morbido, cedevole, che moltiplica con effetti un poco allucinatori i riflessi di luce e la nostra presenza informe. In questa simultaneità di impressioni e sensazioni non manca nemmeno, a un certo punto, una punta claustrofobica e il desiderio di imboccare una delle vie d’uscita che si aprono in questo utero di domopak. Il cui senso si dipana e si rafforza proprio percorrendo il resto delle stanze. Che, per come sono state allestite, ci restituiscono a una diversa, se vogliamo più normale percezione di noi stessi come fruitori dell’opera, invece che come suoi occupanti: ma senza che l’impatto sensoriale e simbolico iniziale abbia smesso di essere attivo.

Nella prima stanza sulla destra (ma il percorso avrebbe altre direzioni possibili: solo l’inizio e la fine sono "obbligati") troviamo nient’altro che un vecchio pavimento di moquette, ma applicato a tutta parete. E’ pieno di segni, anzi del peso di qualche esistenza quotidiana, forse di un ambiente di lavoro. Cominciamo a focalizzare bene l’importanza centrale che hanno, in questa mostra, le tracce. In un’opera successiva, tornano come impronte di scarpe in una coltre di neve-polistirolo, piedi che hanno girato senza una direzione precisa, come di chi ha sostato, smarrito. E non è ancora una traccia, stavolta dotata di una diversa forza simbolica, il caldo colore rappreso che vediamo imprigionato nel radiatore trasparente? Come di una "energia interna che non riesce ad uscire" (così Francesco Bonami).

Il carattere moderno del materiale che in varie forme viene proposto in questo percorso, il polistirolo, permette di ancorare alla contemporaneità una sapiente, coinvolgente riflessione visiva su diverse dimensioni della nostra condizione psichica e della nostra esistenza: come quando ci smarriamo nelle ellissi e nei cerchi concentrici pazientemente scavati e proposti in tenui intonazioni monocrome, oppure, con quella che appare come una citazione - ma tridimensionale - dell’arte optical, l’occhio si sperde nelle deformazioni computerizzate di file di fori.

Anche due tele conclusive affiancate, che sembrano il prodotto di una delle più raffinate personalità informali, sono però tutte funzionali al discorso molto coerente di Stingel: una "pelle argentata" di grande qualità percettiva, ma pregna anche di un significato concettuale, epidermide che esalta una trama, i suoi segni, le sue increspature. Dimensioni diverse: percezione e riflessione, sensorialità e memoria, misura e istinto, ma quanto unite nella nostra comune esperienza, alle quali ripensiamo tornando nell’utero domopak dell’inizio, forse la metafora del nostro io riflettente. Per quanto gli è possibile.

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