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Filo-americani che fanno male all’America

L'America, con le sue luci e ombre. E il greve mostro sacro che ne fanno gli "americanisti" di casa nostra.

Confesso, senza vergogna, di essere un seguace convinto dell’antiamericanismo. Eppure degli Stati Uniti (che non sono tutta l’America e tanto meno le Americhe) apprezzo molte cose.

Ho provato l’incanto dei vasti spazi di quella rigogliosa natura navigando lungo il Potomac. Mi piace il jazz, Gershwin e Copland. Adoro Chaplin, nato a Londra ma cresciuto negli States, ed ammiro quel copioso filone del cinema impegnato nella difesa dei diritti civili. Ho divorato con autentico godimento Edgar Allan Poe, Mark Twain, Hermann Melville, Edgard Lee Masters, e letto con viva partecipazione Erskine Caldwell, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald e Philip Roth. Invidio i limiti di velocità imposti alle automobili ed i puntigliosi poliziotti che vigilano per farli rispettare. Giudico Franklin Delano Roosvelt il più grande statista liberal-democratico del ventesimo secolo, non solo perché ha convinto il suo popolo ad entrare in guerra contro il nazi-fascimo, ma anche per il New Deal. Ritengo la sinistra Usa preferibile a quella europea, perché non è mai degenerata nel terrore di Robespierre e Stalin. Considero la costituzione degli Stati Uniti d’America la meno imperfetta fra tutte quelle conosciute.

Naturalmente accanto a questi bagliori vedo anche le tenebre di quel mondo. Il genocidio dei pellirosse, l’assassinio di Lincoln, dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King, il Ku-Klux-Klan, Hiroshima e Nagasaki non sono accidenti occasionali, ma eventi rivelatori di un carattere costante di quella società. La pena di morte ed il libero commercio delle armi non paiono degni di un paese civile. La quasi totale assenza di uno " stato sociale" è indice di una cultura che ha privilegiato la libertà ma sacrificato l’eguaglianza

Ombre e luci, dunque, vi sono in quel grande paese. Come del resto in questa nostra vecchia Europa. Ma per gli "americanisti" di casa nostra questo non si può dire. Per costoro l’America non è solo un modello, è un mito e come tale sacro e intoccabile.

Quando invochiamo l’abolizione della pena di morte ribattono indignati che c’è anche nella Cina comunista, ed è vero, ma credevamo appunto che le due situazioni fossero in una diversa fase di evoluzione storica. Quando si accenna a criticare un intervento armato di Washington, ci rinfacciano che gli americani intervenendo nel 1941 ci hanno salvato dal nazi-fascismo e poi ricostruiti con il piano Marshall, trascurando che l’attacco di Pearl Harbor e l’interesse ad una ripresa dell’economia europea coinvolgevano direttamente anche gli Usa nella lotta contro Hitler e i suoi alleati e nella ricostruzione del dopoguerra. Se lamentiamo le centinaia di morti civili provocati in Afganistan, ci oppongono con sdegno i seimila delle Torri gemelle, come se non ci fosse alcuna differenza fra il barbaro terrorismo e la reazione repressiva di una comunità internazionale civile. Se i pacifisti manifestano contro le azioni militari della Nato che impegnano anche l’Italia, li sfidano a manifestare anche contro la Russia per la guerra in Cecenia, certamente esecrabile ma in nessun modo imputabile al nostro governo. Questa viscerale fedeltà a tutto ciò che è degli Stati Uniti, comunemente detto "americano", è appunto un atteggiamento mentale, assai diffuso, che chiamo "americanismo".

Esso trova riscontro del resto anche in altri indizi del costume e del linguaggio, di per sé meno gravi, ma significativi di una subalternità culturale di tipo coloniale. I giovani, o meno giovani, che parlando al loro cellulare balbettano nervosamente okkei, le Jennifer o Samanhte o i Maicol che cominciano ad avere attorno ai vent’ anni. I giornalisti televisivi che dovendo citare Max Weber pronunciano Ueber e in ogni momento per dire unitario si pavoneggiano proferendo baipartisan. Le insegne commerciali che sempre più ricalcano banali anglicismi a costo di non essere capite dai potenziali avventori.

Come meravigliarsi se Berlusconi e Fini vanno a piatire la grazia di un breve incontro alla Casa Bianca, ciò che è tipico di umili vassalli ed invece assai disdicevole per i rappresentanti di uno stato sovrano? Come meravigliarsi se Giuliano Ferrara e Forza Italia promuovono una manifestazione di solidarietà con l’America che, a questo punto, non riguarda le vittime del 10 settembre ma i bombardamenti di Kabul?

E’ contro questa acritica e supina sudditanza, contro questo piatto e fazioso "americanismo" che trovo doveroso sviluppare un antidoto salutare, appunto, l’antiamericanismo che convintamente professo.