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Democrazia a rischio

Mi domando se quella che viene chiamata la lunga "transizione" dalla prima alla seconda Repubblica non sia in realtà un’altra cosa. Dal 1991 ad oggi sono accadute molte cose, alcune di segno positivo (il risanamento del debito pubblico, la ripresa produttiva e l’entrata in Europa), altre di segno negativo (il fallimento della Bicamerale, l’irrisolto conflitto di interessi, il permanente contrasto col potere giudiziario, l’attacco ai diritti dei lavoratori). Ho l’impressione inoltre che in questi anni il tessuto democratico si sia indebolito, che la partecipazione dei cittadini alle sorti della "res publica" sia diminuita (l’astensionismo elettorale, che ne è un indice, è in costante aumento), e che infine stiano venendo meno i fondamenti stessi della democrazia.

Non di transizione si dovrebbe quindi parlare, ma di decadenza, anzi di metamorfosi verso l’anarchia e il successivo stadio che è la tirannide, o comunque un regime autoritario. Il processo si è accelerato con la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 13 maggio 2001 che ha determinato il riacutizzarsi del contrasto con la Magistratura, caratteristica tipica di una democrazia maggioritaria in torsione verso un regime autoritario.

Dal 1991 in poi molti eventi avevano aperto prospettive di speranza che si sono presto richiuse, determinando delusione e disincanto in larghi strati di cittadini, e talvolta vero e proprio rigetto della politica. Alla stagione entusiasmante di "Mani pulite", che il centro-sinistra, unendosi al coro del centro-destra, ha scambiato per giustizialismo giacobino o sanculotto, quando invece era solo desiderio di legalità, è succeduta abbastanza rapidamente la stagione di "Mani impunite", dell’attacco ai giudici, delle accuse e dei processi a Di Pietro, l’uomo simbolo (simpatico o antipatico che sia il personaggio).

Dalla esaltazione delle Procure di Palermo e di Milano si è passati alla ingiuria sistematica, all’insulto gratuito ("Assassini!" - ha ripetuto mille volte il deputato Sgarbi), e alla contemporanea doppia assoluzione di Andreotti a Perugia e a Palermo. La stagione di "Mani pulite" sembra finita, e l’Italia torna ad essere un paese normalmente corrotto, caratterizzato dalla illegalità diffusa. In prigione finiscono solo i poveracci, mentre i colletti bianchi, sotto tiro nel 1992-93, sono a piede libero e siedono al Parlamento italiano ed europeo, primi fra tutti Berlusconi, Previti e Dell’Utri.

L’opinione pubblica è delusa e purtroppo anche rassegnata: dopo una breve illusione si accorge che il rispetto della legge non paga, che la legge non è uguale per tutti, che è molto meglio essere furbi che onesti. Questa convinzione genera comportamenti imitativi ed ecco che compaiono fenomeni di illegalità di massa: concorsi truccati, cattedre scolastiche comprate con mazzette da quattro soldi, ammissione alle specialità mediche con 50 milioni messi in mano al Primario.

Nell’indifferenza più totale dell’opinione pubblica passano leggi che servono solo alla nidiata di gentiluomini che ci governa: falso in bilancio, rogatorie, rientro senza controlli di capitali illegalmente esportati all’estero e magari riciclati.

Al ritorno della illegalità, accompagnato inevitabilmente alla beffa verso chi rispetta la legge, si unisce il rifiuto di accettare il primato di chi è migliore. Alla meritocrazia si sostituisce il nepotismo, la simonia, la raccomandazione, la cordata, l’impudenza rampante, e tornano a riaffacciarsi sul proscenio politico facce squalificate della prima repubblica, che entrano a far parte della corte di Berlusconi..

Fiatone, nei suoi scritti politici, già 2500 anni fa, scriveva che le cause principali della decadenza di "una democrazia di uomini liberi" erano due: "l’illegalità" e la "malvagia impudenza". Secondo lui infatti i criteri da cui dipendono la sanità o la corruzione di una "politeia" sono anzitutto l’accettazione di "nomoi" (leggi, regole), e in secondo luogo "il rispetto di chi è migliore". I vizi capaci di corrompere lo Stato sono "anomia e licenza, impudenza e presunzione di essere sapienti".

Lasciando per un attimo Platone, c’è un altro greco che sembra fotografare la situazione attuale della democrazia italiana: la democrazia, scrive Isocrate, è diventata "mancanza di autocontrollo", la libertà si è trasformata in arbitrio, la felicità è divenuta "libertà di fare ciò che si vuole" e l’eguaglianza di fronte alla legge si è trasformata in "parlare in libertà". E’ difficile contestare che il quadro raffigurato da Isocrate non corrisponda alla situazione italiana attuale. Ciò non significa che la situazione politica immediatamente precedente fosse migliore; vuol dire solo che è lontana anni luce dalla fase costituente repubblicana e da quella della ricostruzione del Paese.

La breve e felice stagione di "Mani pulite", che aveva riportato in auge la convinzione (illusione) che la legge fosse uguale per tutti, ha determinato il crollo e la sparizione di una serie di partiti politici, in primo luogo la DC e il PSI, che erano gli assi portanti della prima Repubblica. Il loro posto è stato occupato dalla Lega e in particolare da Forza Italia, il cui capo Silvio Berlusconi è stato eletto in Parlamento ed è poi divenuto capo del Governo in violazione del Testo Unico del 1957 e continua a mantenere un impero televisivo e finanziario che lo rende incompatibile con la politica. Egli inoltre non ha alcuna competenza specifica per il governo del Paese: è privo quindi di entrambe quelle condizioni (rispetto della legge e preparazione) che rendono sano uno Stato. Lo spettacolo inconcludente della Bicamerale, che con calcolo sprezzante Berlusconi ha fatto saltare; gli orrori giuridici che la maggioranza parlamentare ha legiferato nell’indifferenza dell’opinione pubblica (falso in bilancio, rogatorie, rientro dei capitali dall’estero) non solo hanno aggravato la confusione, ma hanno ribadito nell’opinione pubblica la convinzione che la libertà democratica sia in realtà "libertà di fare tutto ciò che si vuole" apparentemente per l’interesse comune, in realtà in difesa di interessi particolari e talvolta per garantire l’impunità a veri e propri malfattori. Ne consegue che è più difficile oggi, nella assordante confusione di false opinioni che si è prodotta, che si faccia strada e trovi una risposta, dopo il recente e insospettabile rapporto della Banca d’Italia, la domanda fondamentale e tremenda: "Berlusconi, dove hai trovato i soldi?". L’ "acropoli dell’anima", come scrive Platone, è ormai tutta occupata da discorsi falsi e da opinioni vuote, tanto che Berlusconi può sprezzantemente dichiarare che "alla gente non importa nulla del conflitto di interessi. Anzi è contenta che chi governa abbia del suo, perché così non ha bisogno di rubare. Inoltre, chi è stato capace di farsi da sé, sarà capace di risolvere i problemi dell’Italia".

Anche a quest’ultima farneticazione nessuno ha replicato, salvo eccezioni, né a destra né a sinistra: sintomo grave di decadenza democratica, perché il conflitto di interessi è in realtà un macigno pesantissimo che, se non rimosso, può spegnere la democrazia italiana. E’ possibile che il processo di decadenza abbia ormai raggiunto il punto segnalato da Petronio: "Quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat?"

E’ certo difficile oggi, alla luce degli eventi che ho ricordato, affermare che l’Italia sia un paese normale e negare che la sua politeia sia caratterizzata da "illegalità" e da "malvagia impudenza" (Platone) a un punto tale che appare assai prossimo lo slittamento in an-archia e poi in regime autoritario (magari soltanto televisivo).

Quando il 13 maggio 2001 il centro-destra di Berlusconi, Fini e Bossi ha vinto le elezioni politiche, il processo di trasformazione in una democrazia autoritaria ha subito un’evidente accelerazione. Lo dimostra l’attacco durissimo contro il potere giudiziario, rimasto solo a contrastare la tendenza a consegnare tutto il potere alla maggioranza, e la minaccia arrogante e fraudolenta di cambiare la Costituzione in due punti essenziali: l’obbligatorietà della legge penale e l’indipendenza del Pubblico Ministero con la scusa ridicola di adeguare il nostro sistema giuridico a quello degli altri paesi d’Europa affinché possa entrare in vigore anche in Italia il mandato di arresto europeo. Né è da sottovalutare che da alcuni anni la lotta alla criminalità organizzata è entrata in sonno, fatto sintetizzato dalla dichiarazione del Ministro che sovraintende alle opere pubbliche (cioè agli appalti): "Con la mafia bisogna convivere".

C’è davvero di che rimanere sconcertati e sconfortati. Anche in questo caso si tocca con mano il mancato "rispetto di chi è migliore" e la violazione dei "nomoi", cioè la "malvagia impudenza" e la "illegalità" che sono i veleni della democrazia.

La democrazia corre pericolo anche per un altro motivo, che per la verità Platone non aveva ignorato, ma che oggi è visibile a tutti, essendo la sua causa divenuta macroscopica. Il ragionamento necessita di una premessa. Gli elementi essenziali di una società democratica sono schematicamente: sovranità popolare; elezioni a suffragio universale per eleggere il potere legislativo ed esecutivo; divisione dei poteri; indipendenza del potere giudiziario; libertà di pensiero, di espressione, di organizzazione; pluralismo politico e garanzia delle minoranze; principio di legalità. Si tratta di regole che non garantiscono, anche se rispettate, il tralignare della democrazia in anarchia o in dispotismo. L’esperienza storica lo ha già dimostrato. Hitler e Mussolini sono giunti al potere utilizzando largamente il metodo democratico. La teoria giunge alle medesime conclusioni. Fra i moderni lo aveva previsto con lucidità Tocqueville, segnalando il pericolo del "dispotismo democratico". Il totalitarismo è certamente l’opposto della democrazia, e tuttavia riposa in germe dentro di essa e non al suo esterno (Montesquieu). "Ebbene, amico mio, qual é la genesi della tirannide?" - chiede Platone, e la risposta è: "La tirannia da non altro governo può prendere le mosse se non dalla democrazia". Mi domando se ciò accada perché la democrazia è forma o tecnica (Weber, Kelsen, Schumpeter), cioè un complesso di procedure di per sé neutre che non debbono prescrivere determinati contenuti. Ma non è così: il metodo democratico è certamente neutrale rispetto ai contenuti o valori politici, ma non lo è verso se stesso. La procedura democratica ha uno "spin" inequivocabile che va rispettato. Ne è una prova il controllo di costituzionalità delle leggi ordinarie, che equivale a un controllo di democraticità. Prima del principio di maggioranza viene il principio di garanzia delle minoranze: quello che tutela ogni singolo cittadino contro il rischio di un dispotismo della maggioranza. Ogni atto che contraddice le regole di libertà e di eguaglianza fra i cittadini fa scattare, se il sistema è sano, il controllo di legittimità costituzionale. Vi è da considerare inoltre che basta assumere la democrazia non come mezzo ma come fine ed essa stessa diventa un valore. La democrazia non può avere o prescrivere altro valore che se stessa. Intendo dire che in uno Stato democratico si possono fare politiche dai contenuti opposti: nucleare o antinucleare, inflazionistica o deflazionistica, demografica o no, e così via, senza violare le regole democratiche. Tuttavia la democrazia non trova in sé alcuna norma capace di impedirne la degenerazione. In effetti le regole vanno sempre rapportate agli uomini che le inventano e le utilizzano. L’esperienza dimostra che con ottime regole si possono fare pessime partite: nel calcio, nel gioco degli scacchi, in qualunque ramo dello sport, ma anche in ogni confronto culturale e politico. Non sono infatti le regole, per quanto perfette, che fanno la partita ma la qualità dei soggetti che vi partecipano. La forza di una democrazia dipende dalla vitalità culturale e morale della società e dei singoli che la compongono.

L’attuale gruppo dirigente berlusconiano, con sfumature diverse, considera la democrazia non un fine ma un mezzo per meglio tutelare i propri interessi personali o di casta. I primi 100 giorni di governo lo hanno ampiamente dimostrato. Gli attuali dirigenti politici che formano l’élite dello Stato (con l’eccezione di Ciampi) ignorano cosa sia l’interesse nazionale, e inoltre non sono competenti nei singoli rami della politica e della amministrazione. E’ questo un pericolo insidioso di nuovo tipo che mina l’esistenza o almeno la vitalità della democrazia

Governare significa risolvere problemi, e per farlo occorrono adeguate conoscenze che i nostri politici non hanno. Se inoltre c’è distanza di sapere tra governanti ed elettori, la democrazia soffre. Non è vero che tutti sanno tutto, anzi. Se il divario aumenta, la democrazia rischia di rimanere vuota apparenza e il potere si concentra nelle mani di tecnici anche di alto valore, che però nessuno è in grado di controllare.

Un esempio recente e clamoroso è dato dalla Banca Centrale Europea, da cui dipende la politica monetaria del continente (300 milioni di persone). Essa è un centro di potere enorme, e la battaglia per la presidenza è stata una spia della sua importanza. Neppure la Federal Reserve negli Stati Uniti ha tanta autonomia decisionale. Ma in Europa la situazione è aggravata dal fatto che non c’è ancora un Governo né un Parlamento con poteri legiferanti. L’Italia e gli altri paesi del continente cedono i loro poteri a un organismo tecnocratico che nessuno controlla. I vertici della Banca Centrale Europea non possono essere eletti (ci mancherebbe altro!), ma se anche lo fossero, come potrebbero i cittadini, che nulla sanno di politiche monetarie, scegliere alcune persone piuttosto che altre? Di fronte alla paurosa complessità, anche tecnica, delle società industriali e postindustriali, i cittadini non sono più in grado di capire cosa vada a vantaggio dei loro interessi (Robert Dahl). La democrazia, se non è vuoto simulacro, deve garantire ai cittadini scelta effettiva tra opzioni diverse. Scelta implica conoscenza, sapere, informazione diffusa, circolazione adeguata di tutti i dati (Flores D’Arcais).

Ma se il livello di cultura dei cittadini elettori non arriva alla comprensione dei dati necessari a scegliere, e neppure i politici sono all’altezza, che succede? Si andrebbe necessariamente verso un "governo dei custodi" (Dahl), che della democrazia conserverebbe forse i simboli ma non la sostanza.

Platone auspica un "governo dei custodi", cioè di saggi che conoscono e sanno interpretare le leggi e perciò unici abilitati a governare i comuni mortali la cui ignoranza non è superabile. Se Platone ha ragione, il futuro della democrazia è a rischio. Nel migliore dei casi "la democrazia dei nostri successori non sarà la democrazia dei nostri predecessori" (Dahl).

Credo che valga la pena riflettere e por mano alle risorse teoriche e pratiche, prima fra tutte la diffusione della cultura, che fermino questa deriva democratica. Se si perde la sfida, ritorneremo ad essere sudditi, non più di monarchi (forse) ma di tecnocrati o di rovinosi demagoghi.

E’ amaro comunque assistere alla decadenza di quella che Platone definisce "kalliste ton politeion": la più bella fra le costituzioni politiche, cioè la democrazia. Quella italiana sembra volgere verso un autoritarismo plebiscitario caratterizzato dal culto del capo, senza incontrare particolari resistenze. Dossetti e Bobbio, due voci alte e diverse, avevano ragione: i barbari sono alle porte. La sinistra e il centro non reagiscono nel modo sperato, non investono l’opinione pubblica con campagne parlamentari e di massa che potrebbero risvegliare e attivare le coscienze: unico "pharmacon" (Platone) da cui si potrebbe sperare salvezza. E’ il caso tuttavia di ricordare il vecchio detto: non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare.