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QT n. 4, 23 febbraio 2002 Monitor

“Il favoloso mondo di Amélie”

Recensito il film di Jean-Pierre Jeunet, che tanto è piaciuto; e "Da zero a dieci" di Luciano Ligabue.

Jean-Pierre Jeunet, regista già apprezzato per l’eccentrico e un po’ insolente "Delicatessen", dice: "Il film non è una favola, racconta cose che potrebbero accadere. E che io spesso ho l’istinto di fare, solo che a me viene più facile raccontarle che metterle in atto". Dando forse con ciò ragione agli scettici di fronte al suo modo di mostrare il reale, con contrapposizione di eroi così semplici ad egoisti e malvagi che imperversano sugli schermi, perché vi leggono il pericolo di narrare la realtà non come è ma come si vorrebbe che fosse, un’illusione o un inganno, quindi. Del resto, anche la semplicità acqua e sapone di Amélie, che sta, come si legge, imponendosi nel cinema mondiale, è una semplicità illusoria, frutto di effetti speciali ed elaborazione digitale.

Comunque sia, se il film fa pensare ad un racconto fiabesco, per un certo décor tipico del mondo di fate e folletti, è invece proprio una storia possibile ma piena di poesia insolita che, rispetto alla tendenza postmoderna di narrazione frammentata, di violenze facili e sesso esibito, si snoda sui toni della leggerezza e sensibilità raffinate, pur affrontando tematiche vitali. Destreggiandosi tra realismo e fantasia, mette in scena con stile tutto francese piccole vicende di ogni giorno, con invenzioni narrative e visive originali e con una scrittura cinematografica ricca di dettagli e colori, che rimandano anche alla nouvelle vague; specie a Truffaut, citato con una sequenza da "Jules e Jim", rispetto ai contenuti sdrammatizzando con lieve tocco tensioni e durezze, rispetto al linguaggio con l’umorismo di una voce fuori campo dal tono saputo, con lo sguardo in macchina dei protagonisti a chiamare in causa lo spettatore, e con il fermo immagine a sottolineare momenti particolari.

Amélie, bambina dall’infanzia solitaria e senza amore, soffocata da genitori ansiosi che la privano di contatti e persino della scuola, restata orfana di madre e raggiunta la maggiore età, lascia il padre e la casa e se ne va a Parigi, cameriera in un bar di Montmartre, a intraprendere da sola e in autonomia la vita nel mondo. Nella ricerca di risorse cui attingere, Amélie fa emergere la parte migliore di sé, generosa e disponibile, specie con le persone meno fortunate, cui dedica energie e tempo per alleviarne dolori e problemi: anche un rifugio, questo, per lei che teme l’impatto con la vita, con l’amore e la felicità sempre negatale. Ma presto pure per lei ci sarà una svolta in questo senso.

Amélie entra discretamente nelle vite degli altri per dare il suo conforto in piccole contingenze negative: ripescare sogni perduti, far scoccare la scintilla dell’amore in cuori distratti e dolenti, ravvivare la fiducia in anziane solitudini, punire, al suo modo soft, prevaricazioni sui più deboli, punteggiando le giornate del suo quartiere, cariche di quotidiani fardelli, di qualche gratificazione e pausa serena. Sfugge così alla propria vita e alle intime difficoltà, gioca a rimpiattino con l’amore e con la gioia d’amore, che desidera e teme. Ma pur con paure, fughe e ritorni, giochi artificiosi e trucchi per non farsi scoprire, la parte forse più debole del film e a volte ripetitiva e lenta, Amélie riuscirà a comporre nel suo io questa parte refrattaria, quando sulla sua strada si mette un giovane bizzarro quanto lei; sa riconoscere, timidamente, l’amore, sostenuta e spronata nelle sue titubanze da un vecchio, suo beneficiato. Entra ora nel pieno della propria realtà, per assaporarne esperienze e sorprese.

Perché "Amélie" è piaciuto tanto? Nessuna ideologia, nessun buonismo, nessun grande tema sociale o intellettuale, solo un film girato con la mano d’autore, con la capacità di intrattenere il pubblico dal punto di vista di una possibile positività del vivere. E con il messaggio di migliorare la vita altrui (Amélie pare significhi "fare meglio") con gesti semplici e quotidiani, con parole gentili, e, conseguente, un miglior livello delle relazioni umane, più generose e piacevoli, un modo più creativo e costruttivo di porsi verso l’altro. La bontà come obiettivo della propria vita è in fondo rispetto del vicino e, secondo un’etica laica, pone l’uomo come fine e non come mezzo e proprio nel compimento dell’azione giusta trova la sua risonanza emotiva: un passo, questo, senz’altro in avanti se veramente recepito, specie dai giovani che sono più sensibili al tema della bontà individuale, base di partenza rigorosa ed etica per una solidarietà più allargata, forse perché posti ancora fuori dell’ambito della competizione adulta e della tensione al potere.

Per contrasto, possiamo ricordare il film "Da zero a dieci" di Luciano Ligabue, osannato da certa critica, che su un’idea magari interessante, l’ottica esistenziale di certe fasce giovanili, però già avanti con l’età, "nel mezzo del cammin di nostra vita" e mai maturate, costruisce una storia, piena di trovate ed esuberante, in cui quattro giovani uomini ritornano dopo 20 anni a Rimini per rivivere aggiornate, con le quattro allora ragazze, le esperienze di un weekend troncato bruscamente. Ben strutturato in due parti, dal tono gaglioffo la prima e funesto la seconda, con epilogo dal sapore amaro, il film si dilunga in chiacchiere spesso imbarazzanti per un che di stonato ed arrogante, pur se veicolo di sentimenti e assilli profondi, testimoni però anche dell’incapacità dei protagonisti di riconoscere e assumere le responsabilità individuali. E frastorna lo spettatore con uno scenario sfrenato e uno stile rumoroso, veloce e lampeggiante, che non coprono il senso di vuoto né la pochezza dei valori proposti per affrontare dolori e inquietudini della vita, legati all’esibizione e all’effimero, e a uno sguardo troppo esteriore.

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