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La Cassazione e il “concorso esterno”

Un reato che andrebbe definito una volta per tutte.

Non esiste nel nostro codice penale il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Eppure molte persone sono state indagate con questa accusa, alcune condannate, altre assolte. Un caso famoso è quello di Giulio Andreotti, che fu assolto dalla imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa perché le prove furono considerate insufficienti.

Il reato è una creazione della giurisprudenza che nel corso degli anni si è imbattuta nella figura di chi, estraneo alla mafia, procurava ad essa un vantaggio. Non potendo essere definito partecipe, e distinguendosi la sua attività dal favoreggiamento, fu qualificato come concorrente esterno. Un esempio concreto è il caso di chi, senza essere mafioso, promette e ottiene l’aggiustamento di un processo nei confronti del vertice dell’associazione stessa. E’ evidente la differenza tra colui che entra a far parte dell’associazione mafiosa condividendone scopi e metodi, e colui invece che non ne fa parte pur apportando un contributo rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento.

Questo orientamento giurisprudenziale stentò ad affermarsi, almeno in un primo periodo. La Cassazione lo contrastò ripetutamente, affermando che il dolo specifico era identico sia nel partecipe che nel concorrente, e che quindi quest’ultimo non poteva avere una configurabilità autonoma, l’unica figura giuridicamente ipotizzabile essendo quella del partecipe (Cassazione, sezione I penale, sentenze 18 maggio 1994 n° 2342 e n° 2348, e sentenza 5 giugno 1994 n°2669).

L’orientamento giurisprudenziale sopra indicato fu superato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 5 ottobre 1994, che ammise la figura del concorrente esterno, distinto dal partecipe proprio sulla base del dolo, che nel primo è sufficiente sia generico mentre nel secondo deve essere specifico.

Sembrava così che la questione fosse risolta quando nel 2001 venne rimessa in discussione dalla stessa Cassazione, sezione VI penale, con la sentenza n° 3299/2001. In sintesi i parametri stabiliti dalle Sezioni Unite vennero disattesi, sia in relazione agli elementi oggettivi e soggettivi del concorso che ai criteri distintivi tra partecipe e concorrente. Una recentissima sentenza della VI sezione penale (Cass., 3 novembre 2001) è sembrata tornare sulle orme delle Sezioni Unite accettandone i parametri, ma affermando al tempo stesso che "il concorso esterno nel reato associativo presuppone una situazione di emergenza o quanto meno di grave difficoltà nella vita dell’associazione, uno stato di fibrillazione del sodalizio criminale, cioè una situazione in cui la sopravvivenza del sodalizio versi in grave pericolo".Affermazione assai strana e che costituisce comunque un passo indietro. Non si vede infatti perché la mafia dovrebbe ricorrere all’aiuto esterno solo in momenti di crisi e non anche in quelli di floridezza, quando intende aprire nuovi campi di attività o accaparrarsi appalti vantaggiosi.

Dovrebbe essere chiaro a tutti, oltre ogni discussione teorica, che concorrente esterno è colui che non fa parte e non vuole far parte della mafia, ma che pone in essere per i motivi più vari condotte idonee a procurare un vantaggio alla mafia, quale che sia la situazione della medesima: favorevole o sfavorevole.

Le oscillazioni della giurisprudenza sono fisiologiche e comprensibili: prima nega la categoria del concorso esterno, poi l’ammette, e ora comincia nuovamente a dubitarne. La lotta alla mafia è una cosa troppo seria e drammatica per affidarsi al ritmo del pendolo. E’ necessario che l’assenza di una specifica definizione del concorso esterno in associazione mafiosa venga colmata al più presto dal Parlamento con una norma non equivoca.

Anche questo è un compito cui il centro sinistra non può sottrarsi, vista la latitanza del Governo e della maggioranza di centro-destra.

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