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QT n. 10, 18 maggio 2002 Servizi

Ebrei e palestinesi: parliamone con pudore

Noi, europei e cristiani, portiamo la responsabilità storica della Shoah, e un interesse al petrolio che ci ha spesso accecati. Evitiamo, dunque, di usare parole troppo forti.

Alla disperazione succedono varchi di speranza. Io ho avuto la fortuna di visitare Israele tre anni fa, quando la "pace", in cammino, sembrava vicina alla meta. Atterrati a Tel Aviv, durante il viaggio in pullman, di notte, verso l’albergo di Tiberiade, la guida, Angela Polacco, un’israeliana d’origine italiana, formatasi in una scuola rabbinica, c’invita subito, con naturalezza, a non sprecare l’acqua in docce superflue, in quei giorni d’agosto, caldissimi. I suoi bambini si lavano i denti con l’acqua di un bicchiere, per non sprecare quella che scorre troppo abbondante dal rubinetto.

Mi colpisce quel valore moderno d’identità nazionale, di appartenenza allo Stato. In Israele la modernità ti viene incontro dovunque tu guardi. In un ambiente naturalmente desertico, vedi campi verdi di palme, di agrumi, di vigneti, di ulivi, terreni strappati all’arsura dalla tecnica e dal lavoro. Gli impianti d’irrigazione a goccia portano la poca acqua disponibile dalle riserve alle campagne e alle città. Città moderne, governate secondo le regole della democrazia.

Gli ebrei, mercanti e ingegneri, scienziati e politici, sono stati i protagonisti più attivi della modernità, per i contributi dati sia al "progresso" economico del capitalismo, sia a quello sociale e politico della democrazia e del socialismo. Il programma di annientamento da parte di Hitler si può spiegare con il fatto che il popolo ebraico era il più portato all’universalismo, sia nella variante capitalista, sia in quella comunista. L’antisemitismo nazista, la Shoah, viene quindi da un’opposizione radicale ai valori della modernità.

Ma di sabato, Angela, la nostra guida israeliana, efficiente e moderna, ci lascia. Lei è un’ebrea osservante, e noi restiamo abbandonati a noi stessi. Ma nessuno protesta, né si lamenta, per le perdite e le rinunce cui lo Shabbath ebraico di Angela ci costringe. In altri momenti, questa sospensione dal lavoro, brusca e totale, ci farebbe adirare, noi europei, laici, cristiani. In questa occasione, che ci penalizza, la accettiamo quasi con serenità. Avvertiamo che lo Shabbath è una diversità non solo da rispettare, ma che sa porre a noi, occidentali, degli interrogativi nuovi e profondi. E’ il valore della contemplazione contrapposta all’azione, della preghiera, degli affetti, della lentezza, rispetto al produrre, al guadagnare, al correre. Del giocare e del conversare, rispetto al lavorare e al gridare.

L’ebraismo ci dice, quasi un’anticipazione per tutti, che il filosofo vale più dell’ingegnere e del mercante. Che una minoranza al mondo, gli ebrei, facciano di questo segno la loro specificità, sentiamo di doverlo sopportare come un bene per tutti. La diversità delle minoranze crea problemi alle maggioranze, nei comportamenti, nelle regole, nei pensieri. Il popolo ebraico, l’unico dell’antichità, disperso per secoli in tutte le contrade del mondo, è sopravvissuto, nell’attesa della promessa divina, attraverso il legame dello Shabbath. Per portare a tutti, in passaggi della storia terribili, questo messaggio di diversità. Dobbiamo essergli grati per aver mantenuto acceso il lucignolo della contemplazione fin nel cuore dei frenetici tempi moderni.

C’è un’altra interpretazione delle persecuzioni cui gli ebrei sono andati soggetti ad opera di Hitler, di Stalin, i dittatori dei totalitarismi moderni: erano pericolosi, gli ebrei, in quanto anticipatori di ciò che è postmoderno, erano perseguitati perché critici della modernità. Rappresentavano non il progresso universale, organico, lineare, ma la leggerezza, la disintegrazione, la casualità di chi è particolare, diverso. Pensiamo a Kafka nella letteratura, a Schoenberg nella musica, a Benjamin nella critica storica, a Chagall nella pittura, forse ad Einstein nella scienza.

L’antinomia è probabilmente irresolubile: l’ebraismo è proprio questa dialettica fra particolare e universale, fra bisogno di un’identità forte e di un’identità debole, nella tensione fra unità e diversità. E’ una dialettica che non riguarda solo gli Ebrei, che l’hanno vissuta in una storia grandiosa e drammatica, ma riguarda tutti, sempre di più. L’ebraismo, se vogliamo sopravvivere come un’umanità costituita di cittadini eguali e diversi, abbiamo il dovere di coltivarlo, di farlo crescere, dentro di noi.

Dell’ebraismo mi sento debitore, di Israele sono ammiratore: lo sforzo dell’incontro fra popoli, che eviti il disprezzo della separazione e la pretesa dell’assimilazione, ci viene da lì. Il ricordo di Angela mi stimola a richiamare, con fermezza e serenità, il ragazzo che a scuola imbratta il muro dell’aula, o danneggia la poltroncina del treno, e ad educare i giovani al pluralismo, i cristiani, gli agnostici, i musulmani, gli atei.

Per questo sono imbarazzato, e sconvolto, da come il governo di Sharon si rivolge ai Palestinesi. La questione è tragicamente complessa. Che gli ebrei siano arrivati, e siano divenuti israeliani in uno Stato di cui noi, l’Onu di allora, abbiamo tracciato i confini, fu per i palestinesi un’ "ingiustizia". Che gli ebrei, in quel rifugio desiderato, dopo secoli di persecuzioni, abbiano trovato i palestinesi, e tutti gli arabi, in guerra, lo considerarono un’ "ingiustizia".

Ogni pace futura, per quanto equilibrata, sottoscritta, condivisa, non potrà cancellare quella doppia, originaria ingiustizia. Della quale noi, europei e cristiani, non siamo innocenti. Portiamo la responsabilità storica della Shoah, e un interesse al petrolio che ci ha spesso accecati. Perciò dobbiamo parlare con tremore e pudore, e prima riuscire credibili presso gli uni e gli altri.

Dalle pagine di Questotrentino (Moni Ovadia e la tragedia mediorientale), Moni Ovadia ci avverte: "Quando certi pontificano sugli ebrei farebbero bene a pensarci due volte. Per questo io accetto dai palestinesi molte cose, dagli occidentali nessuna. Gli occidentali devono stare zitti, compresa la sinistra. Zitti, oppure parlare con molta modestia." E’ facile per noi invocare la pace, e indicare la soluzione "due popoli, due Stati".

Sono imbarazzato e sconvolto quando un dirigente di Hamas, Mahmud al Zahar, giustifica gli attentati terroristici con queste parole: "Voi piangete le donne e i bambini israeliani, ma non c’è indignazione quando a morire sono donne e bambini palestinesi".

Come provargli che non è vero? Avrei dovuto, a Trento, nel Giorno della Memoria, interrompere il vicesindaco di Gerusalemme, e chiedergli conto, dalla sala affollata, dei bambini palestinesi? Ma con quale credibilità l’avrei fatto? Ero forse riuscito a portare lì, ad ascoltarlo, tutti i miei studenti trentini?

E ho forse trovato il coraggio di scrivere il mio dissenso alla Rete Radiè Resh quando, nel suo schierarsi con passione al fianco dei palestinesi, vede "continuità di obiettivi" fra gli israeliani di destra e di sinistra, fra Sharon e la donna, Angela, che mi ha guidato a Gerusalemme?

Alcuni anni fa organizzammo nella mia scuola un incontro, con studenti universitari israeliani e palestinesi. Erano giovani tesi sicuramente alla pace. Un israeliano, per paura, non era mai salito su un autobus a Gerusalemme, e quindi voleva che lì, davanti agli insegnanti e agli studenti, il collega palestinese dichiarasse terroristico il movimento di Hamas. Il palestinese, che condannava gli attentati, non era però disponibile a definire criminali gli attentatori, e noi, imbarazzati, tacemmo.

Il nostro più grande poeta del Novecento, Eugenio Montale, ci invita a sussurrare: "Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo."