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QT n. 16, 28 settembre 2002 Monitor

Un viaggio chiamato amore

Recensito il film di Michele Placido sull'amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana.

Un incipit mostra immagini d’epoca in bianco e nero (siamo nell’agosto del 1916), mentre una voce fuori campo recita i versi intensi del poeta Dino Campana, scelti dall’unica sua raccolta, "Canti Orfici", alternati alle frasi del carteggio che lui intrattenne con Sibilla Aleramo, scrittrice, che il regista Michele Placido descrive come "una donna così intrigante, una seduttrice (...) una donna che ha vissuto per amare e che non ha mai guardato alle convenzioni (...) s’infiamma di un talento e in questo caso era sempre lei la prima a farsi avanti".

Quindi ha inizio il viaggio verso l’amore che Sibilla intraprende in treno alla volta del Mugello per conoscere Dino, le cui poesie avevano acceso la sua fantasia erotica. E infatti l’amore sarà immediato ed esplosivo, e si svolgerà come un amour fou, dal flusso incandescente e tempestoso come le emozioni che si susseguono incontrollate, prima sublime ed appassionato, poi invischiante e distruttivo, incapace di placare i demoni che albergano in loro: ognuno dei due, pur nel reciproco folle desiderio, nel cercarsi con le parole poetiche che siano poesia e passione, e con i gesti ardenti o smarriti, resta serrato e schiavo di tale passione che isola e trascende in delirio, e infine dimentica l’altro mentre è sempre presente, in un’altalena di chiamate e rifiuti, di baci e amplessi, insulti e anche violenza.

A livello di impressione, il film si può dire deprimente e sconfortante, visti la discesa inarrestabile verso l’infelicità e l’alienazione, e il conseguente senso di amarezza suscitato. Pure riesce ad attrarre nella visione, conclusa tutta nella follia d’amore, merito questo dei modi della regia che, nell’azzardo della scelta del tema messo in scena, sa in genere mantenere salde le redini. Il regista dimostra infatti abilità nell’uso degli elementi cinematografici, rispondenti sempre ad una funzione espressiva che restituisce all’esaltato tema-guida una sua autenticità, escludendo così mistificazioni.

In una struttura narrativa puntata su un presente a tema unico dove i protagonisti sono sempre in primo piano, e intersecata da flashback che ricordano momenti significativi del passato, si evidenziano suggestive alcune appropriate ricercatezze linguistiche: le dissolvenze; la varietà cromatica e la fotografia raffinata; la luce, che si adegua agli umori dei due amanti, da una vividezza, anche paesaggistica, del primo incontro nei boschi e nel verde, all’opacità e lividezza delle crisi di follia e rifiuto, sino al silenzio d’amore finale, quando lo schermo si fa nero e rimanda solo la voce recitante le nitide parole delle poesie, toccante qui più che mai quella diletta a Sibilla, "... questo viaggio chiamavamo amore/ col nostro sangue e le nostre lacrime facevamo le rose...", coperto poi dai titoli di coda.

Pure la musica segue i moti della passione e varia, come i loro impulsi, da uno stato di esaltazione a uno di quiete, ad un improvviso doloroso rabbuiamento.

Assai incisivi, per quanto i due piani temporali presente-passato, sceneggiati l’uno sulle missive l’altro sul romanzo autobiografico della Aleramo "Una donna", non sempre riescano a ben integrarsi e ad evitare sfasature, sono poi i flashback sulla prima parte della vita di Sibilla (vita in famiglia, pazzia della madre, matrimonio sbagliato, maternità, abbandono del tetto coniugale senza più diritto al figlio): già da bambina e poi da giovinetta, col volto ingenuo e conturbante, bellezza e seduttivittà innata determinano il suo mondo interiore e relazionale, inquietudine intellettuale e ambivalenza psichica si conformano tra i problematici rapporti familiari.

Gli attori (i bravi Laura Morante e Stefano Accorsi) non hanno un compito facile nell’interpretare i due protagonisti, personaggi complessi, autori e cultori di letteratura, posseduti dal duplice amore per l’amore senza freni e per la parola poetica, che si sforzano di far rivivere al meglio, ma mentre lei, dotata di espressività sfaccettata, raggiunge momenti di intensità, lui, nonostante il prestigioso premio ricevuto a Venezia, non sempre vi riesce. Su di loro si ferma insistita la macchina da presa, sui loro volti, per lo più tesi e angosciati, e sui loro stati d’animo, volubili e drammatici.

Infatti, la scelta del regista è intesa a rappresentare, appunto, solo la storia di questo amore nel corso della sua durata (dall’agosto 1916 al gennaio 1918), che è insieme fisico e intellettuale, tra un poeta folle e una donna propensa a innamorarsi proprio di tale intreccio, lasciando sullo sfondo tutto ciò che vi è esterno, il contesto sia temporale che spaziale: i paesaggi solo contorno, la grande guerra solo di sfuggita, i costumi, gli stili di vita, lo spirito del tempo lasciati intuire, più che delineati, e sommersi dal fragore delle passioni scomposte, grevi nella loro assolutezza. Una scelta netta ed estrema che dà al film un tocco quasi fuori moda, data la consuetudine attuale a rifuggire da tale tematica, obsoleta, un amour fou, dove, dice la Morante, "si rinuncia al senso della misura e al pudore e ci si espone al ridicolo".

Piaccia o no la cifra stilistica cui il regista si è affidato, egli dimostra, come già nei suoi lavori precedenti ("Un eroe borghese", "Del perduto amore"), di saperli connotare di una nota assai personale, e di destreggiarsi, come regista, altrettanto, o forse meglio, che come attore.

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