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QT n. 2, febbraio 2009 Monitor: Cinema

La schiena liscia della memoria

“Valzer con Bashir”

Un saggio sulla memoria, un film di guerra, una pellicola d’animazione, una riflessione sul documentario e sul suo stesso farsi, una denuncia dell’indifferenza che coinvolge il nostro sguardo e le nostre azioni. È tutto questo "Valzer con Bashir", documentario di animazione del regista israeliano Ari Folman. Il film racconta la storia di un cineasta che ha partecipato, da soldato, alla guerra in Libano nel 1982, ma ha perso la memoria. La sua esperienza del massacro di Sabra e Chatila è circondata dal vuoto.

I due termini, "documentario" e "animazione", sembrerebbero ossimorici. Ari Folman, invece, sceglie di combinarli. E con questo svela come la componente oggettiva della ricostruzione di ogni esperienza passi sempre attraverso una visione soggettiva, che spesso non si muove negli universi della logica ma in quelli del sogno, o dell’incubo. È in mezzo a queste due tensioni che va cercata l’anima del vissuto. La realtà e il sogno si mescolano persino nella mente di chi ha vissuto in prima persona un’esperienza bellica. Nessuna ambizione di oggettivazione narrativa o storica può quindi esimersi dall’assumere al suo interno questa contraddizione. Non c’è racconto senza il senso che gli attribuiamo.

Folman sceglie di enfatizzare questa impasse con la scelta di virare in figure animate i soldati, le persone intervistate. Il tentativo di ricostruire la realtà della guerra nel Libano consiste nel processo di un vistoso, faticoso lavorio visuale. Paradossalmente, l’animazione rende il racconto più realistico, più vero. Non vediamo Beirut ricostruita chissà dove, non vediamo attori che recitano la parte di soldati. Vediamo delle figure, animate a volte con tecnica tradizionale, a volte in flash, mettendo in movimento dei fotogrammi girati dal vivo. L’effetto è iperrealista. La realtà emerge squarciante e scandalosa. La guerra non passa attraverso un set. È tutta lì, in quei contrasti tra nero e campi di colore pieno. La perdita del referente realistico rafforza un segno che non deve relazionarsi ad altro se non se stesso.

Un intervistato, un commilitone, fragile intellettuale, pensa di poter dimostrare di essere un vero uomo solo lanciandosi in guerra insieme al suo esercito. Il film lo mostra mentre si dirige verso il Libano su di una nave che ricorda per solitudine e gioia non-sense quella di "Apocalypse now". Durante il viaggio, il soldato viene rapito da una grande venere nuda, che lo porta in mare, gli offre riparo tra le sue cosce, in una sequenza dove eros e morte si abbracciano – come da tradizione, ma in modo inedito. Questa scena, come diverse altre, è caratterizzata da una totale piattezza dei volumi. Non c’è profondità. Le figure, bidimensionali, sembrano muoversi su una pellicola liscia. Come se la storia, e la Storia, potesse lasciarsi scivolare dalla schiena, senza nemmeno accorgersene, i personaggi che la abitano. Come se la memoria si estendesse non in profondità ma in superficie. La Terra è piatta: ai bordi di questa crosta enorme c’è la caduta libera, vuoto, il nulla.

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