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Lettera da Gaza n°4

Fabrizio Bettini

Ci muoviamo verso Khan Yunis, destinazione Tufah, punta del campo profughi della città, senza dubbio uno dei posti più desolati di tutta la Palestina che abbia visitato. Vista da una cartina, Tufah, dove sono stipati più di 50.000 profughi, s’incunea nel "Blocco di Qatif", un fazzoletto di terra cinque volte più esteso di Tufah, illegalmente occupato da Israele sin dagli anni ‘70, dove vivono circa 4.000 coloni. All’interno del territorio occupato di Gush Qatif, che si estende per 15 km della costa sud della Striscia di Gaza, si trova l’area palestinese, divisa in tre sobborghi, di al-Mawasi, abitata da circa 4.000 palestinesi. Esistono due soli punti di passaggio dall’area di al-Mawasi al resto dei territori palestinesi, due check-point, situati a Rafah (estremo sud) e qui a Khan Yunis/Tufah: l’esercito israeliano ha posto ai due blocchi delle forti restrizioni di movimento, peggiorando le condizioni di vita degli abitanti di al-Mawasi, ancor più di quanto non lo siano per tutti i palestinesi e facendo di quest’area una prigione nella grande prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.. Le case demolite, le barricate, i fori di proiettili sui muri, i manifesti sbiaditi dei martiri, le torrette, il muro di cemento che separa Tufah dall’area occupata dagli insediamenti e il mare che si può solo guardare incutono un senso di silenziosa desolazione.

Oggi, come tante altre volte, il nostro taxi ci ha portati fino alle barricate di sacchi di sabbia e detriti di case distrutte; abbiamo camminato a piedi lungo la strada che proseguendo in salita gioca a mostrarci più vicino e più bello il mare, costeggiando il muro di cemento e una torrettasu cui si scorgono i segni di passati scontri; e poi gli scheletri di case sventrate dai tiri israeliani. Dopo la salita la strada prosegue in discesa rivelandoci il check-point israeliano. Camminando ci avviciniamo alla sbarra gialla, che è il primo blocco prima dei due avamposti militari. Siamo abituati a vedere decine di palestinesi in attesa di poter passare, ma oggi oggi c’è qualcosa di nuovo: in coda ci sono centinaia di persone. Da quanto ci dicono, il check-point a sud, quello di Rafah, è chiuso (forse definitivamente) e per questo l’unico punto di accesso per la gente di al-Mawasi è il check-point di Tufah.

Nella prigione di al-Mawasi non esistono infrastrutture sufficienti per soddisfare i bisogni delle migliaia di palestinesi che vi sono rinchiusi. Tutti i generi alimentari passano per questo check-point e talvolta sostano per giorni prima che sia concesso ai convogli (compresi quelli delle Nazioni Unite) di passare. Le piccole cliniche mediche non sono in grado di soddisfare le necessità sanitarie e lo stesso vale per le scuole; il che costringe la gente a muoversi continuamente al di fuori dell’area. A tutti i palestinesi che hanno una casa o un pezzo di terra da coltivare dall’altra parte del check-point gli israeliani han concesso una card magnetica con la quale vengono registrate le entrate e le uscite.

Quando arriviamo - sono le 10 - il sole, ancora molto caldo per ottobre, picchia. Più di 200 persone, per lo più donne cariche di bambini e grossi fagotti, sono in attesa. Ci spiegano che il passaggio avviene per gruppi di cinque persone alla volta. Lungo il corridoio fatto con blocchi di cemento la gente si muove lentamente, mentre i soldati urlano dal megafono intimando di tornare indietro, poi li richiamano e ancora li ricacciano, come se fosse un passatempo. Leggo nei visi della gente una muta rassegnazione. Ci sparano le loro storie confidando sul fatto che noi, essendo stranieri, possiamo fare qualcosa per sbloccare la situazione, ma l’esperienza ci ha insegnato che non è possibile. Solo Raffaella Carrà riesce a ricongiungere le famiglie separate, noi no. Quel che possiamo fare è stare lì e cercare di capire per poter poi raccontare cosa significa dover subire ogni giorno soprusi da un manipolo di pericolosi bambini-soldato che giocano a far la guerra al soldo di un criminale di guerra mascherato da primo ministro di uno stato democratico.

Intanto qui si aspetta. C’è chi da tre giorni non torna a casa, chi invece da più di venti. Provo a chiedere dove hanno dormito la notte passata: qualcuno a casa di parenti o amici, altri nella vicina moschea e altri ancora sulla sabbia, lì dove ancora aspettano. Allattano i figli e a tratti sale la tensione e delle donne finiscono per azzuffarsi, perché è difficile rimanere calmi e lucidi quando da due settimane non puoi tornare a casa e dormi per strada e non hai da lavarti e poco da mangiare. Ed è questo lo scopo principale dei check-point: stremare la gente, umiliarla. Una quotidiana umiliazione che dura da troppo tempo perché poi questa gente istintivamente non gioisca alla notizia di un attacco suicida in Israele.

Prima che noi arrivassimo, ci dicono, i soldati hanno sparato ferendo una donna palestinese in fila per passare. Ad alcuni uomini è concesso di attraversare il check-point per caricare e scaricare generi alimentari ed a loro è riservato il triste ruolo di "traghettatori di speranza": la gente si accalca e affida oro (o meglio, lancia o infila nelle tasche) le loro identity card, come se ci fosse una lista d’attesa, una interminabile lista d’attesa.

Alle 13 poco è cambiato: il sole picchia e la gente aspetta ancora. E’ l’ora del pranzo e i soldati annunciano la chiusura del check-point dal megafono: "Noi andiamo a mangiare, il check-point è chiuso. Andate anche voi a prendere un boccone". Tutto normale, fottutamente normale. Nessuno si muove e pure noi restiamo seduti sui blocchi di cemento, come se aspettassimo di passare; e difatti qualcuno ci chiede cosa ancora ci facciamo con loro; altri sorridono e ci ringraziano, e ai bambini che ci guardano rispondo con le boccacce, scatenando la loro ilarità. Di ciò che vediamo oggi, e di tutto quello che ogni giorno vediamo in questa terra occupata, vogliamo dare testimonianza per chi è lontano dalla reale percezione della condizione del popolo palestinese.

Alle 14,30 dalla postazione israeliana vicina al check-point, partono alcune raffiche di mitra contro le prime case di Tufah, disabitate e già abbondantemente crivellate. Cerchiamo di ripararci alla meglio mentre continuano i tiri. Poi il silenzio, e da più lontano sentiamo degli spari di armi diverse: forse è qualcuno che risponde al fuoco. Poco dopo cinque camionette giungono in supporto alla postazione da cui erano i partiti i primi colpi e dietro un tank. Gli scontri proseguono per più di mezz’ora, e noi non possiamo che fare da spettatori.

Dopo la prima mezz’ora di fuoco intenso lo scontro si affievolisce, ma nessuno osa muoversi. Solo due ragazzini risalgono la strada verso Tufah, e sono poco lontani da una casa sventrata quando parte una raffica di mitra e i bambini si gettano per terra. Alla fine di questi spari intimidatori si rialzano e proseguono lungo la strada finché si perdono dietro la salita. Un’ora dopo gli scontri sono terminati, il tank si ritira sfilandoci davanti e le camionette riportano i soldati al check-point, che però resta chiuso.

Mi siedo sulla sabbia vicino ad un gruppo di donne che ci chiamano, così, giusto per fare conversazione, come si fa quando aspetti il tram; il livello di conversazione è basso, visto che loro non parlano molto inglese ma soprattutto io parlo poco l’arabo. Ma qui più che le parole parlano le mani della donna seduta davanti a me, spesso alzate in cielo ad invocare Allah: "Inch’Allah! Inch’Allah!" (voglia Dio! Voglia Dio!).

Alle 17 non fa più tanto caldo, il sole comincia a calare, come cala la speranza di poter passare anche oggi questo maledetto check-point. Anche stanotte lontano da casa, e domani? Domani inch’Allah! Domani ci sarà da trattenere ancora la rabbia e aspettare, prima di poter riprendere il cammino, con i bambini per mano e pesanti bagagli sulle spalle. E davvero sono pesanti i loro fagotti: sacchi di farina e grandi buste nere piene di chissà quali importanti cianfrusaglie che aiutiamo a caricare sulle spalle e che ci carichiamo addosso, risalendo sulla strada in direzione di Tufah, con il check-point alle spalle. Portiamo a spalla i loro carichi fino a quello che sarà il tetto anche per questa notte per molti di loro: un grande locale al piano terra di una casa abbandonata e mitragliata, con qualche materasso in terra. Hanno gli occhi stanchi e appesantiti dalla giornata; li aiutiamo a sistemare i bagagli in un angolo della stanza e loro non smettono di ringraziarci. Qualcuno mi dice sorridendo: "Very good, very good"...