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QT n. 12, 14 giugno 2003 Servizi

I fogli dei folli

Viaggio nel mondo delle riviste underground italiane. Con un’intervista a Matteo Guarnaccia. Prima puntata.

Nel panorama letterario del Novecento, c’è una tipologia di testo - ma anche di genere - ancora poco studiato; parliamo delle riviste underground italiane, nate sull’onda lunga del fenomeno beat americano (che negli States prese il via a partire dal secondo dopoguerra) a cominciare dalla metà degli anni ‘60. Se è comprensibile il disinteresse da parte della cultura di massa, visti i difficili argomenti affrontati e una diffusione non certo commerciale, colpisce piuttosto che altrettanta poca attenzione sia stata dedicata all’argomento anche dalle numerose storie deglianni ribelli in Italia; eppure l’underground precedette e in parte preparò il terreno ai movimenti del ’68.

Senza modelli editoriali precisi (ma forse la libreria-casa editrice City Lights Books diretta da Ferlinghetti, ne era per molti un tacito esempio), l’arcipelago delle riviste under si espresse come uno splendido mosaico dalle più diverse tessere: da quelle più politicizzate (Re Nudo) a quelle squisitamente visionarie (Pianeta fresco), da quelle che si rifacevano ai provo olandesi (Gatti selvaggi) a quelle dei "capelloni" tout court (Mondo beat), dalle voci del situazionismo militante ("S") al negazionismo (Puzz), ai comix alternativi (Fallo!), all’omossessualità (Fuori!) ai semplici (ma non secondari) bollettini delle comuni.

Se il numero delle testate che presero vita è vasto, essendo prodotte da numerosissime realtà, non certo facile è l’approccio ad esse, visto che le tirature non erano, di solito, quantitativamente significative, e che la distribuzione, spesso svolta a cielo aperto, era destinata non certo a collezionisti e bibliofili. Queste premesse per dire che gli exempla sui quali ci soffermeremo nella scheda (vedi a pag. 27) saranno quelli che abbiamo potuto visionare direttamente, o dei quali abbiamo potuto reperire un sufficiente numero d’informazioni in quanto più noti per il loro contenuto, sia linguistico che grafico. Ai lettori, poi, il piacere d’approfondire, tramite testi come quello di Matteo Guarnaccia (tra i tanti, "Underground italiana", ed. Malatempora).

Venendo allo specifico di queste riviste, per quanto riguarda il contenuto - pur nella loro spesso accesa diversità - esse trattavano con candida innocenza (ma anche con anarchica irriverenza) temi poco meno che blasfemi per la morale comune del tempo: antimilitarismo, liberazione sessuale, anticlericalismo, stati modificati di coscienza indotti da droghe, gratuità della musica, antiautoritarismo in genere. Ed è forse quest’ultima connotazione, la sistematica allergia ad ogni forma di potere, a differenziare questi movimenti da quelli della sinistra extraparlamentare: compagni di vita e di gioco da una parte, compagni di lotta e di partito dall’altra, due binari che non esiteranno più volte ad incrociarsi, specie in alcune fasi del movimento del ’77.

Se sperimentali e pressoché inediti erano gli argomenti, l’apparato grafico, spesso ricchissimo, che le accompagnava non era da meno, a cominciare dall’impaginazione dei testi, costruiti con una libertà formale che ricorda la rivoluzione tipografica dei futuristi o le sperimentazioni dada, e non è forse un caso che non sia difficile trovare qualcuna di queste riviste tra le biblioteche dedicate all’arte contemporanea; del resto basti pensare che tra i designer di questi fogli underground ci sono artisti del calibro di Matteo Guarnaccia (Fallo!, Insekten Sekte), Ettore Sottsass (Pianeta Fresco) e Gastone Novelli (autore del fumetto beat I viaggi di Brek). Segni visionari, tracce di viaggi nell’altrove, siano essi il bianco e nero tra l’azteco e l’art nouveau di Insekten Sekte, i cromatismi iridescenti di Paria (storica rivista under della svizzera italiana), o il grottesco iperbolico e dissacratore dei comix americani (in primis i lavori di Crumb, Wilson e Shelton, papà dei celebri Freak brothers) pubblicati su Fallo!, che non tarderanno ad influenzare geni nostrani come Tamburini e Pazienza, nel loro magnifico sodalizio sulle pagine di Cannibale (1977), che proseguirà poi su Il Male e Frigidaire, termine ultimo del nostro filo rosso underground.

Sull’esperienza underground italiana abbiamo voluto sentire la testimonianza di uno degli artisti più attivi di allora, Matteo Guarnaccia, che a partire dal 1970 diede vita a una serie immemorabile di pubblicazioni, copertine di dischi, quadri, sculture, performances ed altro ancora, il tutto caratterizzato dal suo inconfondibile segno, che unisce la dolcezza al sogno, la psichedelia allo sciamanesimo, l’erotismo al divino, il tantrico al mostruoso; un fare visionario che si ricollega a grandi maestri come Bosch e Blake, ma anche all’arte popolare di civiltà perdute, passando per la grafica naïf dei prodotti industriali.

Matteo Guarnaccia.

Quando hai cominciato a dar vita a quel mondo incantato di dolcissimi freak che sono un po’ l’icona della tua arte?

Attorno ai 14/15 anni, con la frequentazione di un certa scena creativa, disegnare è diventato un bisogno biologico, oltre che un piacere. Andavo a cercarmi l’arte anche dove abitualmente non si dovrebbe; ovviamente gironzolavo per musei e divoravo monografie d’artisti (Bosch, Holbein, Maestro di Re Renato, Blake, Doré, Mucha, Klimt), ma ero irresistibilmente attratto dalla imagerie popolare, i fumetti (Tin Tin, Blake e Mortimer, Coccobill, Little Nemo, Quadratino, Dan Dare, Popeye), le etichette delle scatole di fiammiferi e dei pelati, le figurine dei chewing gum e dei formaggini, le sorpresine dei detersivi (i marzianini del Tide!), le immaginette sacre indù, i giocattoli di latta, i flipper. Era affascinante inventarsi un mondo visionario assolutamente personale, lontano da quello che ci veniva imposto dal sistema. Poi, quando mi sono trasferito ad Amsterdam la visione si è fatta ancor più chiara e mi sono piacevolmente dedicato a illustrare il mondo delle tribù in cui ero entrato come membro effettivo. Tribù colorate, gioiose con grandi occhi aperti al mondo, che vedevo intorno a me, e che incontravo lungo la strada: ragazzi di razza elfico-tibetano-rinascimental-pellirossa, che friggevano dalla voglia di camminare sull’arcobaleno.

Il giornale di bordo di quelle esperienze era la rivista-poster che producevo in quegli anni, Insekten Sekte, di cui recentemente ho curato un "Best of" per la Jubal di Trieste (jubaleditore@yahoo.it).

Come hai vissuto la Milano di quegli anni, e com’è iniziata la collaborazione con Angelo Quattrocchi?

La Milano che frequentavo, quando non ero in giro per il pianeta, per me si limitava essenzialmente al quartiere di Brera, attorno all’omonima Accademia di Belle Arti. Qualche stradina, alcune osterie, molte case di ringhiera e molte menti felici che tra il ‘70 e il ‘72 si erano coagulate in una repubblica popolare hippie, un’oasi creativa evolutiva in una città pesantemente grigia e poco disposta alla leggerezza. La via principale del quartiere aveva un nome tanto bello da parere inventato: via Fiori Chiari, un nome che dipinge perfettamente quegli anni. Tra i tanti personaggi che potevi incontrare c’era anche Angelo Quattrocchi, un agit-prop che si era messo in testa di coinvolgermi nella produzione di un giornale underground dal nome promettente di "Fallo!" (in tutti e due i sensi). Con lui ho collaborato a molte iniziative più o meno deliranti, dal partito ippi (una fortunata beffa mediatica) ai libri, volantini e riviste. Lui stava a Roma e ogni tanto le nostre strade si incrociavano.

Un disegno di Guarnaccia.

Se gli inizi della controcultura in Italia scaturivano da un vento nuovo fatto di voglia di stare insieme, giocosità, desiderio di uguaglianza, libertà e liberazione dall’uomo a una dimensione e perciò rappresentavano un milieu ideale per lo sviluppo di un’arte innocente, cosmica e psichedelica come la tua, come sei riuscito a resistere, ad avere una sorta di coerenza, su quel finire di anni ‘70 fatto di lotta armata, suicidio della pischedelia nell’eroina, misticismo spesso scaduto in dipendenza da guru improvvisati?

Naturalmente c’era chi di quella voglia di stare insieme, della giocosità, del desiderio di uguaglianza, della libertà e della liberazione non sapeva che farsene e che, passato il primo momento di sbandamento, ha messo in atto le contromisure necessarie. Eroina e terrorismo sono state le Scilla e Cariddi attraverso cui si è cercato di far passare i dissidenti come bestie al macello. Aggiungiamoci la citrullaggine dei vari guru e avremo un quadro completo delle armi schierate dalla controriforma.

Fortunatamente non sono mai stato attratto da una certa iconografia macho decadente (Velvet Underground) militarista (gruppuscoli estremisti) o mistico-imprenditoriale (ho avuto un padre molto autoritario e non sentivo alcun bisogno di un surrogato indù). Ho sempre pensato che la vera rivoluzione-evoluzione passasse per la bellezza e la creatività, inoltre avevo un delizioso figlioletto da crescere e quindi avevo di meglio da fare. Non è che non sentissi lo spirito del tempo (pesante e tossico) e non abbia patito pesanti batoste karmiche, ma in qualche modo sono andato avanti cocciutamente per la mia strada.

La tua arte è, e a ragione, associata al mondo della psichedelia, tanto che fra i tuoi più accesi ammiratori c’è nientemeno che Albert Hoffmann, padre della psichedelia. La simbologia, le forti evocazioni di riti sciamanici, di popolazioni precolombiane e tribali, in cui vita e visione sono un tutto indistinguibile, sono semplici invenzioni decorative nate dalla tua fantasia o c’è un rapporto d’incontro, di studio di queste remote civiltà?

Ci sono entrambe le cose. Quando sei giovane pensi con arroganza di essere stato il primo a fare certe cose, poi ti rendi conto che fai parte di una lunga fila di ricercatori, di una cospirazione evolutiva che è iniziata molto tempo prima che iniziassi a prendere in mano una matita. Per cui c’è molto "automatismo", molte esperienze personali, ma anche lo studio di culture diverse.

In un numero di Fallo! c’è una bellissima storia, "Minestrone again", in cui i dolcissimi abitanti di una comune ricevono la visita di un furgone di sballati che con i loro spinelli, acidi e anfetamine rappresentano la paranoia urbana, e per questo vengono cacciati, quasi a fucilate. Un richiamo a una modificazione dello stato di coscienza che sappia trovare anzitutto nella testa, nel pensiero creativo e immaginifico, la sua "sostanza" liberatrice?

La storia fa riferimento a un preciso momento in cui alla ricerca si è sostituito il concetto di sconvolgimento. Le sostanze sono diventate un prodotto di mercato autoconsolatorio, un avvitarsi su se stessi. Un aiuto alla robotizzazione, all’adeguamento a copioni scritti da altri, non al risveglio. Quindi le ritengo poco interessanti e decisamente fastidiose. Nel nostro cuore abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno; certo ci vuole disciplina, bisogna aver costanza, preparare il campo all’amore, che è la più alta forma di modificazione di coscienza.

Com’è la vita di chi, artista, continua ad inseguire la gioia della creazione più che i successi del mercato?

Non penso di fare cose particolarmente straordinarie. Mi limito a tenere aperto il sentiero del cuore.

Che senso ha la tua arte al tempo di Berlusconi?

Per prima cosa faccio arte (o come la vuoi chiamare) perché non ne posso fare a meno fisiologicamente. Certo è anche una forma di resistenza. Ha una funzione di risveglio, mi offre continuamente nuovi punti di vista sulla vita. Modifica il mio stato percettivo. C’é da meravigliarsi che in un mondo di proibizionismi l’arte non sia ancora stata dichiarata illegale. Anzi lo è se non fai l’impiegato dell’industria culturale, se non fai arte di consenso, se non fai merce. Da sempre è in atto una vera guerra tra artista e potere: qualunque potere, non solo quello che tu menzioni.