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QT n. 8, 17 aprile 2004 Servizi

L’amico che era una spia

Come il lato oscuro della storia invade il privato. Il racconto di un’amicizia giovanile inquinata dalla Guerra Fredda e dallo spionaggio.

La storia è rigorosamente raccontata come vissuta dal cronista, in due momenti, nell'estate del '63 e quindici giorni prima della data odierna.

In piazza Fiera, è seduto su una panchina; un sessantenne vigoroso, potrebbe essere lui. - E’ lei che… - chiedo esitante. "Ciao Ettore!" - risponde con un largo sorriso.

Un incontro strano. "Sono un professore universitario, vengo a Trento per una conferenza. Vorrei incontrarla" era stata l’insolita telefonata.

- Beh… d’accordo. Mi può dire il motivo? -

"E’ una sorpresa". E, di fronte al mio sconcerto: "Vedrà che le sarà gradita".

Ho controllato sul giornale: all’università, all’ora indicata, effettivamente c’è una conferenza; ma il nome del relatore non mi dice nulla.

Ora l’ho di fronte: "Ciao, sono Renato Fava" (nome di fantasia).

- Parente del Fava che con il giornale… -.

"Noo, no". E, scandendo le sillabe: "Cap d’Antibes, 1963...".

Il Relais de la Jeunesse a Cap d’Antibes, con pineta e, oltre la strada, spiaggia privata: lascito di una miliardaria francese perchè diventasse luogo di soggiorno per i giovani d’Europa.

Accidenti. Cap D’Antibes, lo splendido promontorio sulla Costa Azzurra, tra Antibes e Juan les Pins, ville da miliardari. E una di queste, con pineta e spiaggia privata, adibita a ostello dove soggiornavano giovani da tutta Europa. C’ero arrivato anch’io, durante un viaggio in autostop subito dopo la maturità. E lì, quarantun anni fa, ci eravamo conosciuti. Assieme eravamo poi partiti per Cannes, Saint Tropez, e poi la Corsica, la Sardegna, e infine a Roma, a casa sua. E poi ancora…

- Sei cambiato, com’è logico, ho fatto fatica a riconoscerti. D’altra parte sono cambiato anch’io -.

"Non così tanto, non così tanto" è un complimento, affettuoso.

Ricordiamo i nostri viaggi. Di quando lui, un mese dopo, era venuto a Trento, ed eravamo andati a Monaco all’Oktoberfest; e poi su, a Francoforte, ad Amburgo, e ancora più a nord, a trovare Rolf, l’amico tedesco che avevamo conosciuto al mare. E quella volta in Germania che in autostrada la macchina che ci seguiva tamponò quella che ci precedeva, e il nostro autista con un guizzo aveva cambiato corsia, e poi all’autogrill, euforico per la prodezza, continuava a offrirci nuove portate che noi, morti di fame, sbafavamo senza ritegno.

- E adesso, che fai? -

Aveva messo a frutto la sua passione per le genti e i viaggi; andando a fare studi e ricerche "tra l’Iran e l’Afghanistan". Di lì il successo professionale.

"Ti ricordi, nei nostri viaggi mi appoggiavo al tuo inglese. Io di mio pasticciavo qualche parola… E poi invece sono diventato professore ad Harvard; e poi ordinario in Italia, a 32 anni".

Sono contento. Di Renato mi piaceva la sua voglia di conoscere, di vedere cose nuove; aveva pochi soldi, e sopportava con allegria i disagi cui doveva andare incontro: come quando ad Aiaccio, dovevamo dormire col sacco a pelo in stazione, ma la chiudevano, e allora ci eravamo sdraiati nel parco su due panchine; ma si era messo a piovere, e allora ci eravamo rifugiati in un furgone Volkswagen. Mi piaceva meno la sua faciloneria, anzi una certa cialtroneria alla Alberto Sordi, simpatica se vogliamo, ma che mi metteva in imbarazzo, soprattutto con gli stranieri. Da lui a volte dovevo prendere le distanze; "Siete diversi, tu sei un italiano civilizzato" - aveva osservato, con gentilezza, una ragazza svedese.

Quarant’anni dopo devo dire che è stato bravo: nella vita ha saputo capitalizzare i propri lati positivi, la tenacia, l’amore per la conoscenza. E’ una bella cosa.

- Bene. Così i tuoi, anche se forse non ci sono più, si saranno resi conto di quanto vali - gli dico con la brutalità concessa dall’amicizia - Allora ti trattavano come una pezza da piedi -.

"Mio padre c’è ancora - risponde dopo un attimo di sconcerto - Sì, era una famiglia autoritaria. Ma poi ci siamo chiariti".

Il discorso sta per proseguire sui ricordi un po’ scontati. Lui lo ferma subito: "Ettore, sono qui soprattutto per scusarmi - mi dice con voce pacata e decisa - Devo chiederti perdono".

Sorrido: perdono dopo 41 anni? E per che cosa? Forse per qualche ragazza? Ma via…

"Il nostro viaggio in Germania, a casa di Rolf: ti ho strumentalizzato".

Non riesco a prenderlo sul serio: - Cosa mi vuoi dire: che tu e Rolf eravate innamorati? -

Fa un cenno con la mano: sono cose serie; e io non gli agevolo il compito. Poi, sempre con voce pacata: "Allora lavoravo per la Stasi."

Il servizio segreto della Germania comunista. Adesso non rido più.

Il padre di Rolf, alto ufficiale nell’esercito della Germania Ovest, stava per essere nominato comandante della difesa aerea e missilistica della Nato. La Stasi lo sapeva. Sapeva anche che il figlio diciannovenne sarebbe andato in vacanza in Francia, nella villa-ostello di Cap d’Antibes. Per questo inviò lì il coetaneo Renato: con il compito di stringere amicizia, farsi invitare in Germania, ed entrargli in casa.

"Dovevo tagliare una porzione della moquette del soggiorno. E consegnarla a uno di loro." Quando poi la madre di Rolf, visto il danno, cercò un artigiano, quello con la moquette identica era in realtà un agente della Stasi; che sotto la moquette mise una microspia. Tutto il nostro viaggio aveva questo scopo.

Cap d’Antibes, 1963. Da sinistra a destra: Peter (un amico olandese), e i tre protagonisti della storia: Ettore, Renato e Rolf (foto scattata da quest’ultimo e inviata con l’aggiunta della propria immagine).

- Allora, quando poi andammo al confine con la Danimarca… era perché…? -

"Non ti ricordi bene. Io andai al confine, da solo; apposta quel giorno avevo litigato con te, per essere libero. Subito di là, dovevo incontrare una persona cui consegnare la moquette; ma, senza soldi come sempre, non avevo di che pagare il visto. E così l’appuntamento andò a monte".

- Ecco perché quando tornasti avevi un diavolo per capello! -

"Certo. E allora incominciai a dire che non si poteva stare in Germania senza vedere Berlino, che dovevamo assolutamente andarci. Ma da Amburgo non si poteva (Berlino Ovest era un’enclave entro la Germania comunista, cui si poteva accedere attraverso passaggi rigorosissimamente controllati n.d.r.) Io insistei perché ci andassimo lo stesso, e così, come era logico, fummo bloccati al confine. Ma lì ci aspettava una persona, che ci offrì un passaggio di ritorno ad Amburgo: ci fece fare una tappa, se ti ricordi, in quella che diceva essere la sua fattoria. Lì, appartati tra le cassette di mele, gli consegnai la moquette".

- Ma allora… allora quel giovane in Volkswagen che ad Amburgo ci fermò per chiederci se facevamo l’autostop, e ci diede un passaggio addirittura fino a Monaco era anche lui un agente? -

"Non lo so di sicuro. Ma è molto probabile".

Mi trovo a disagio. Non è per i pericoli che ci potevano essere; è per i nostri rapporti. Di Rolf ero amico; un’amicizia tradita. Penso a sua madre, che ridendo ci preparava frittelle in quantità industriale per sfamare i due squattrinati amici del figlio: e intanto…

- Però… Eri un po’ un figlio di puttana -.

Renato deglutisce. "Sì - risponde con la sua bella voce piana - Però sia chiaro: non lo facevo per soldi; ma per fede."

- Fede politica? (Renato comunista è una novità) Ideologia? -

"Sì. Era stato a scuola, proprio il mio compagno di banco, a parlarmi di quegli ideali. Mi portò al partito, e lì trovai un ambiente che mi entusiasmò: si discuteva con passione, e le mie idee erano prese in considerazione. Immaginati: un diciottenne represso in famiglia, che trova chi discute con lui da pari a pari su come cambiare il mondo".

Poi ci fu chi gli chiese se era disposto a darsi da fare. Così la prima missione, da Cap d’Antibes alla casa di Rolf. "Ero insospettabile: un giovane della borghesia romana, padre fascistoide. Di queste cose ti posso parlare ora con tranquillità: gli archivi della Stasi non sono più segreti, è tutto pubblico".

- Comunque mission very easy (non mi passa la voglia di scherzare) In fin dei conti: tagliare un pezzetto di moquette -.

"Si. Ma poi ho fatto anche altro - scorgo una vena di tristezza - anche altro".

Poi prosegue: "Finì male. Dopo alcuni anni mi resi conto che non c’era più alcuna idealità, era solo una mafia". Mi fornisce una rapida visione delle vicende del comunismo negli anni ’60, da Krusciov in poi: "Con la morte di Che Guevara, che fu venduto dai nostri servizi, tutto precipitò: ormai era uno schifo". All’interno delle dinamiche di regime, fu presa la decisione di smantellare la Stasi, "il che implicava far fuori tutti quelli che sapevano troppo. Mi trovai in pericolo".

La Porta 336 di Brandeburgo, confine fra Berlino est e Berlino ovest e simbolo della Guerra Fredda.

- Perché avevi tagliato un pezzo di moquette? -

"Non per quello. Per altre cose - il racconto si fa più delicato - Alcune persone che conoscevo furono eliminate. Pensai di non avere scampo. Fui invece salvato dai servizi segreti inglesi".

Ascolto in silenzio. Se prima Renato mi rivelava l’insospettata altra faccia di una realtà che pur avevo vissuto, ora si addentra in territori sconosciuti, illuminati solo dalle inaffidabili conoscenze cinematografiche.

"Fu a Budapest, su una panchina in un parco. ‘Di che colore è l’erba?’ mi chiese l’agente inglese. ‘Boh, verde, verde scuro’ risposi indispettito da una domanda futile. ‘No. E’ il colore della moquette del soggiorno di Rolf’."

Così passò a lavorare per gli inglesi, venendone automaticamente protetto. "Poi anche per gli americani".

Dall’altra parte della barricata, penso. Ma non lo dico: è chiaro che per lui non c’era più nessuna barricata. E che pensava a salvarsi.

"Durò alcuni anni. Poi finì tutto, e potei dedicarmi alle mie ricerche e alla mia carriera. Iniziava una nuova vita".

Sono a disagio. Ho un nodo allo stomaco; mi sento tradito. - Mi hai fatto venire i brividi alla schiena - gli dico.

Non capisce appieno: "Eh, i brividi li ho avuti anch’io, a vivere queste cose". Lascio perdere.

Lo chiamano sul cellulare: è l’ora della sua conferenza. Lo accompagno verso l’università, e cambiamo discorso.

Mi ha rintracciato via Internet, sul sito di QT, del quale mi fa sentiti complimenti. Poi, guardando i palazzi, parliamo di Trento, che vedo sa apprezzare; poi di altre cose. E’ un uomo intelligente, che ha accumulato cultura ed esperienza: è piacevole parlargli.

All’università gli vengono incontro i suoi collaboratori ("C’è un problema, il Pc…" "Tranquilli, sistemiamo subito"). Entriamo assieme nell’aula della conferenza, dove già lo aspetta, deferente, il pubblico. Salutandomi ha un moto di affetto, mi abbraccia e mi bacia. Corrispondo.

Tra gli astanti c’è un certo sconcerto.

Il nodo allo stomaco non mi è passato. Mi torna in mente una discussione, a Cap d’Antibes, su quella splendida spiaggia. Tra me e Rolf, sulla guerra, il nazismo, il dovere di combattere per la libertà. Un discorso delicato con un tedesco - erano ferite appena rimarginate - che pure mi ascoltava con sincera attenzione. Parlavo di mio padre che era stato nella Resistenza. "E te ne vanti anche! Lo dice sempre mio padre che questi resistenti sono stati solo degli opportunisti magnoni! - era intervenuto Renato con brutale volgarità, rovinando la nostra bella intesa. Ed era solo una finta, un mascheramento per ingannare Rolf.

"Sono venuto a chiederti perdono" -mi ha appena detto. E in effetti…

La nostra amicizia si era esaurita malamente. Renato la utilizzava per avere una base di appoggio nei suoi frequenti (ora ne capisco il motivo) viaggi in Germania. Sempre senza soldi, una tappa a Trento, alcuni giorni di pasti abbondanti, gli erano utili. La cosa era troppo smaccata, e aveva finito con il dare fastidio a me e alla mia famiglia: - Fai qualche viaggio in meno - gli avevo detto con durezza - ma senza fare lo scroccone -

Ora, dopo oltre quarant’anni, è tornato a trovarmi. Ma non per vantare i successi della vita; non per dirmi "Hai visto, lo scroccone, il cialtroncello, come ha saputo cavarsela?". No, è venuto per raccontarmi una storia che mai avrei immaginato, al limite del credibile, in cui fa una parte - diciamolo - meschina.

E per chiedermi perdono.