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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Servizi

Iraq: donne e prigionieri fantasma

C’è voluto il sequestro delle due Simone perché emergesse il problema delle detenzioni illegali nelle carceri irakene...

Federica Fortunato

"Liberate tutte le prigioniere musulmane in Iraq". La condizione per avere "qualche informazione" su Simona Torretta e Simona Pari ha avuto una risposta secca da parte della coalizione angloamericana: al di fuori delle non negabili due specialiste già note per lo squallido gioco del "mazzo di carte" e identificate con soprannomi che le schiacciano in una macabra mitologia, "non ci sono in Iraq donne detenute".

Ma la richiesta specifica ha aperto una provvida breccia nella curiosità umanitaria di chi vorrebbe saperne di più su questo e altri aspetti dell’occupazione "alleata". Quanti sono i detenuti nelle carceri irachene, quante sono le donne, di chi e per cosa sono prigionieri e, soprattutto, come vengono trattati?

Qualche giorno fa ("Ballarò" di martedì 21 settembre), il presidente della sezione italiana di Amnesty International, Marco Bertotto, ha fornito numeri impressionanti sulle violazioni nei confronti delle donne, confermando che di detenute musulmane in Iraq ce ne sono effettivamente, e non poche. Quantificarle è difficile nonostante il lavoro di diverse organizzazioni non governative, internazionali e irachene; Amnesty ha compiuto due missioni in Iraq nel 2003, indagando su violazioni dei diritti umani del passato e attuali; i suoi delegati hanno incontrato ex detenuti trattenuti dalle forze della Coalizione, ONG, gruppi politici, rappresentanti del governo provvisorio. Ma l’accesso ai centri di detenzione amministrati dalla Coalizione è stato loro negato.

Secondo un rapporto del 13 giugno 2004 dell’ ufficiale americano Barry Johnson, almeno 6.400 sono le persone fatte prigioniere dalle forze della coalizione; in gennaio un’altra fonte ufficiale parlava di 8.500 detenuti. Ma l’esercito americano rifiuta di tenere una contabilità dei prigionieri nelle carceri dell’intero paese; non essendoci dati precisi sui detenuti, non è possibile avere risposte chiare in merito alle donne prigioniere. In ogni caso, secondo Amnesty le cifre ufficiali sono calcolate con terribile difetto; un’organizzazione irachena per i diritti umani ha stimato in 15.000 il numero dei detenuti che, nella maggior parte dei casi, sono tali "per motivi di sicurezza", cioè persone coinvolte, o presunte coinvolte, in attività contro la Coalizione.

Il Governo transitorio iracheno ha competenza solo sulle carceri criminali, mentre gli arrestati per motivi di "sicurezza" restano sotto la giurisdizione della Forza Multinazionale (in sostanza gli Stati Uniti).

A Baghdad ci sono due prigioni di "sicurezza" controllate dagli USA in cui sarebbero recluse delle donne: circa quaranta risiederebbero nella prigione di Abu Graib. Nella prigione presso l’aeroporto internazionale di Baghdad, riservata ai cosiddetti "high value detainees", ci sarebbero due donne. Sempre a Baghdad, altre donne sarebbero custodite in due prigioni sotto il controllo del Governo transitorio; una è ad Abu Graib stesso, dove un ramo della prigione è passato nelle mani del governo. C’è infine una prigione che sarebbe esclusivamente femminile, Al Salihiye con circa una ventina di donne. Di altre prigioni nella zona nord del paese non si hanno precise notizie.

In un’intervista rilasciata il 10 settembre, Marco Bertotto aveva parlato delle anomalie delle carceri irachene: "Ci sono quattro categorie di detenuti in Iraq: chi sconta una condanna già emessa; chi è in attesa di giudizio ed è accusato di un reato; chi è in attesa di giudizio da troppo tempo e la cui detenzione preventiva non è necessaria; chi è in stato di detenzione ‘amministrativa’, cioè persone in carcere per motivi di sicurezza, arrestate senza accusa né processo, e comunque non in relazione all’accertamento di un reato’’. E c’è una quinta categoria, ampiamente denunciata da Amnesty, quella dei detenuti ‘fantasma’, "persone catturate dalle forze della coalizione nel corso di raid notturni e mai registrate negli elenchi dei prigionieri’’.

Queste persone ‘’vengono nascoste alle ispezioni del Comitato internazionale della Croce Rossa e in questo modo la loro cattura sfugge ai controlli, nessuno sa dove sono’’.

Si sa della loro esistenza solo grazie alla denuncia di scomparsa da parte dei parenti e per i racconti di chi viene rilasciato. Di prigionieri fantasma parlano diverse altre fonti: Human Rights Watch ha denunciato la pericolosità di questa pratica di "ghost prisoners"; Human Rights First ha stilato un rapporto, "Ending Secret Detentions", in cui si documenta come migliaia di persone siano detenute in più di una dozzina di carceri in Iraq, alcune ufficialmente off limits. Ovviamente questa tipologia di detenzioni contribuisce a rendere estremamente incerto il numero dei prigionieri e delle prigioniere in Iraq.

Un ulteriore ostacolo a questa contabilità è che per molte donne irachene il solo fatto di essere state in carcere rappresenta una vergogna; questo limita le denunce da parte delle famiglie e delle prigioniere una volta liberate.

La maggior parte delle migliaia di persone, tra cui molti bambini, catturate arbitrariamente in Iraq, sono state imprigionate per mesi, molto spesso senza nessuna ragione, senza che le loro famiglie fossero informate di dove erano. Le madri e le mogli in primo luogo hanno provato quella forma di tortura caratteristica delle dittature e delle occupazioni: la ricerca estenuante dei loro cari di ufficio in ufficio, di carcere in carcere. Quante persone possono essere sparite in questa precarietà?

Se sono incerti i numeri, certi sono invece, gli abusi su uomini e donne in carcere.

"Le donne irachene ci hanno detto che le donne sono in prigione per essere interrogate e torturate perché rivelino informazioni sugli uomini loro parenti. Per le donne la tortura comincia quasi sempre con la tortura dello stupro, spesso stupro da più uomini. Un reporter americano ha detto che il mese scorso le prigioniere ad Abu Ghraib hanno fatto uscire dei volantini sostenendo di essere state stuprate." (Anne Garrels, National Public Radio, 4 maggio 2004).

Varie fonti confermano queste accuse, riportando anche le terribili condizioni di prigionia a cui le donne sono sottoposte. L’ex ministro iracheno per i diritti umani, Abdel Bassat Turki, aveva dichiarato di aver denunciato, già nel novembre 2003, il trattamento delle donne ad Abu Ghraib: "Venivano loro negate le cure mediche. Non avevano veri gabinetti. Ricevevano solo una coperta anche se era inverno. E le loro famiglie non potevano visitarle." (riportato dal Guardian del 10 maggio 2004)

In marzo un gruppo di donne avvocato irachene è stato autorizzato a incontrare nove detenute ad Abu Ghraib, quattro delle quali non erano state imputate di nessun reato. ‘’Non potevamo parlare liberamente; le donne erano devastate. Cominciarono a piangere’’.

Un altro avvocato ha riferito che la sua cliente, un’ex-prigioniera di Abu Ghraib, "svenne prima di fornire maggiori dettagli dello stupro e delle coltellate subite da parte dei soldati americani."

Altre cinque ex-detenute hanno dichiarato di essere state picchiate, senza parlare di stupro. "Si vergognavano moltissimo. Dicono: ‘Non ve lo possiamo dire. Abbiamo famiglia. Non possiamo parlare di quello che è successo’" (Los Angeles Times, 12 maggio 2004) . "Una mia collega è stata arrestata e portata [ad Abu Ghraib]. Quando, dopo che venne rilasciata, le chiesi che cosa era successo, si mise a piangere. E’ molto difficile parlare dello stupro. Ma penso che sia successo."

Alle violenze evidenti vanno poi aggiunte altre azioni che, neutre agli occhi dei soldati americani (come quella di levare loro il velo), sono percepite invece come offese profonde dalle donne musulmane.

Anche liberate, la maggior parte delle donne e delle ragazze vittime di violenza sessuale non possono parlare. In società dove il corpo della donna è legato al concetto di "onore familiare", l’ostilità nei confronti della vittima può essere estrema: le donne che sopravvivono allo stupro, "marchiate dal segno dell’impurità", possono non essere più maritabili, venire ostracizzate e perfino uccise.

Dovevamo aspettare che i volti di Simona Pari e di Simona Torretta diventassero icona per quelli ignorati delle donne prigioniere nell’Iraq "liberato"?