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San Michele: il Museo nel deserto

Giovanni Kezich

Musei, musei: oggigiorno, sembrerebbe, non si parla che di musei. E chissà come mai? Prima o dopo, credo, varrebbe la pena di chiederselo…

Comunque sia, anche in questo settore, divenuto improvvisamente così caldo, il Trentino ha fatto e sta facendo le sue scelte, qualificate, ambiziose, puntando alto, e probabilmente non a torto, sulla propria antica e robusta vocazione umanistica e quindi, con il Mart, sulla piccola Atene roveretana di Rosmini e degli Agiati. Poi, ed è notizia recente, con il nuovo qualificatissimo "Centro della Scienza" che sorgerà a Trento nell’ex-area Michelin, fino ad inglobare, a quanto pare, lo stesso Palazzo delle Albere.

Benissimo: con beneficio d’inventario, s’intende, ma benissimo.

Andiamo ora a vedere che cosa accade al polo opposto, lungo la cosiddetta Asta dell’Adige, e cioè sulla Piana Rotaliana: proprio lì dove, una quarantina di anni fa, venivano fatte delle scelte museali altrettanto importanti, e per l’epoca, crediamo, altrettanto innovative di quelle di oggi.

Tra i blasoni meno noti eppure certamente più distinti della Piana Rotaliana vi è infatti quello di dare albergo, sopra un basso rialzo roccioso che direttamente vi si affaccia subito al di là dell’Adige, al maggiore museo etnografico italiano di ambito locale: il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, fondato nel 1968 da Giuseppe Šebesta nella vecchia sede del monastero di San Michele.

"Nella sua specializzazione - scriveva benissimo Aldo Gorfer già nel 1977 - il Museo è il più vasto e complesso in linea assoluta, d’Italia": un primato che a distanza di trent’anni resiste ancora in campo nazionale e non solo, per mole delle collezioni, per importanza d’impianto, per attività. Il Museo, infatti, è anche, da sempre e a pieno titolo, casa editrice (di libri, dischi, filmati e CD-ROM), nonché centro di ricerca e di studi volto all’intera area alpina.

Concepito in un’epoca di grandi rivolgimenti politici e sociali, che avevano riportato alla ribalta la vicenda delle classi popolari e subalterne e dunque, di necessità, anche quella del mondo contadino, della cosiddetta "civiltà" contadina, il Museo di San Michele rompe di netto con la precedente tradizione dei musei italiani del folklore, volti alla rappresentazione del "bello" dell’arte popolare e dei fasti del ciclo festivo, per concentrarsi piuttosto sulla cultura del lavoro, quella che impegna il contadino, il boscaiolo, il pastore, l’artigiano, dall’alba al tramonto e dal lunedì al sabato, piuttosto che nelle veglie, nei filò, nelle feste comandate.

In questa prospettiva di fondo, il progetto di Šebesta si inserisce con una originalità sua propria: "le interessantissime collezioni - scrive ancora Gorfer - sono esposte con criteri museistici moderni onde porre il visitatore a immediato agio e dargli una sintesi visiva guidata dell’evoluzione della tecnologia umana, pel tramite di raffronti, dalla preistoria ai nostri tempi, e del racconto storico-operativo dei vari utensili, e dei loro prodotti, che accompagnano la vita delle genti alpine". Ecco quindi un progetto museografico articolato in una serie di "canali chiusi" (molinologia, alpeggio, filatura/tessitura, metallurgia, ecc.) che corrispondono ad altrettante filiere tecnologiche del mondo tradizionale, ovvero ai vari aspetti del sistema agrosilvopastorale tradizionale della montagna trentina e alla minuta tecnologia artigiana che lo supportava: legno, pietra, tessuti, ceramica, rame, ferro… All’interno di ciascun settore, gli oggetti/testimoni sono disposti nell’ordine in cui compaiono all’interno della filiera di riferimento, secondo una sequenza precisa, del genere falce, rastrello, gerla, ovvero filatoio, aspo, arcolaio, orditoio, telaio… I settori stessi, a loro volta, sono ordinati secondo uno schema che colloca alla base - ovvero ai piani bassi - l’agricoltura e i processi della trasformazione agrosilvopastorale, al livello intermedio le attività artigiane di supporto, e a quello sommitale la socialità e il simbolico: costumi, folklore, musica, riti, devozione… Il tutto è collocato all’interno di una struttura elicoidale, quella dell’antico convento, in cui il visitatore percorre su piani diversi per ben quattro volte lo stesso perimetro senza mai, come in ogni viaggio che si rispetti, dover tornare sui propri passi3 .

Fu certamente una coincidenza fortunata quella che, proprio nell’imminenza del trasloco dell’Istituto Agrario nella sua nuova, splendidissima sede, ha fatto incontrare a San Michele, verso la metà degli anni ’60, l’intuito geniale ed eclettico di un Šebesta con la disponibilità anche temeraria di un politico a tutto campo come il senatore Bruno Kessler .

Così, con l’irruenza tipica del mago Šebesta, il Museo sarebbe venuto a occupare fin dall’indomani dello sgombero i locali della vecchia scuola e, nell’idea di Kessler, Museo e Istituto, insieme, avrebbero presto costituito un formidabile polo culturale tanto per il progresso agrozootecnico quanto per la memoria storica del Trentino delle valli, del Trentino contadino. Una prospettiva che la stessa collocazione decentrata del polo di S. Michele, affacciato direttamente sul "più bel giardino vitato d’Europa", avrebbe contribuito a valorizzare. Erano quelli gli anni, naturalmente, della sperimentazione socio-territoriale a tutto campo: quelli stessi del varo, nel Trentino, della nuova autonomia provinciale, e quindi del Piano Urbanistico, dei Comprensori, dell’Università, degli Istituti di cultura...

Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il geografo (o l’antropogeografo, secondo la dicitura cara a Gorfer, nella tradizione di Cesare Battisti) potrà forse trarre un bilancio di quella stagione, tanto importante per la modernizzazione del Trentino, cogliendone sul paesaggio i lasciti e le impronte ma anche gli esiti imprevisti, le contraddizioni, gli interrogativi ancora aperti e qualche non piccola bruttura.

Pensiamo per esempio al nostro Museo, ben visibile con il candore delle sue mura da tutto il Piano Rotaliano, di cui costituisce a pari merito, con la grotta di San Gottardo e la Toresèla, il terzo vertice di un triangolo storico grandioso. Eppure, non si può certo dire che il Piano o "la Piana", come vuole piuttosto il vernacolo (ma sarà davvero quella di Paolo Diacono?), penalizzata fra l’altro da un’urbanizzazione aggressiva e caotica, da periferia suburbana, abbia in quest’ultimo trentennio adottato il Museo, o l’abbia in qualche modo fatto proprio.

Avviciniamoci dunque, da turisti qualsiasi, a S. Michele: naturalmente in macchina, perché a piedi o in bicicletta, dagli altri centri della Piana, o dalla stazione di Mezzocorona, non si può più, si rischia la pelle. Al massimo, si potrà prendere la Trento-Malé, e scendere a Grumo. Di qui, per un dedalo inconsueto e silenzioso di orti e di stradine, dove però è facile perdersi, raggiungiamo la sponda dell’Adige dove, presso il ponte, ritroviamo lo smog e il frastuono. Dalla parte di S. Michele, il ponte sbocca su una specie di lunga diga sopraelevata in cemento armato su cui viene fatta passare la statale del Brennero, proprio davanti alla fila di case affacciate sul fiume, di cui toglie la vista per un buon terzo. Così, della lunga romantica teoria di casette colorate ed eleganti, che sorgono direttamente dal greto, come in un paese di pescatori, non si vede e neppure si indovina più niente: peccato, perché si tratta di un assetto raro a vedersi in Italia, soprattutto nel caso di paesi così piccoli e nondimeno, insieme all’antica vocazione fluviale del paese, violentato irrimediabilmente, per sempre.

L'accesso al paese ed al Museo dalla stazione ferroviaria.
L'accesso al paese ed al Museo dalla stazione ferroviaria.

A ogni buon conto, per superare ponte e strada statale sono a disposizione del pedone un paio di anguste, improbabili sottovie, e finalmente entriamo in paese: da quella che, praticamente, è una fogna. Facciamo due passi: dai libri, abbiamo appreso che il Convento agostiniano è stato per secoli il sito più meridionale del monachesimo d’alto bordo di lingua tedesca, pur già in terra italiana: Welschmichl, non a caso, era detto il paese. Quindi, la "frontiera nascosta" tra le due nazioni passava probabilmente per di qua, qualche chilometro più a sud di dove corre adesso. E infatti scritti in gotico sono i "fumetti" dei personaggi affrescati sul muro dell’Aquila nera verso il 1400 o forse anche prima: ma li si intravede appena, perché di restaurare questo storico edificio nessuno si è mai curato. Chi ha in mente il fresco lindore, fiorito e anche un po’ asettico, dei paesini appena un po’ più a nord - Caldaro, Termeno, Cortaccia… - di quella stessa Strada del Vino che in teoria passerebbe anche di qui, vedrà subito che qui siamo già in un altro mondo, quello dell’incuria un po’ iconoclasta, del caos italiota più pretto.

Arriviamo al Museo, che è sempre aperto (tranne il lunedì e magari il giorno di Natale) anche se - perché nasconderlo? - i visitatori sono pochi, rari nantes, meno di 20.000 all’anno nel centro preciso di un comprensorio turistico - il Trentino! - che vanta milioni di presenze. Come mai?

Ci guardiamo in giro. In meno di cinquanta metri, su un unico fronte, ci sono tre grandi portoni d’ingresso: al Museo, alla Chiesa parrocchiale, e alla Cantina storica dell’Istituto. Ma la Chiesa, fatte salve le meste necessità dei funerali, durante la settimana è sempre chiusa, con l’interno ben celato dietro una grata come ai tempi della monaca di Monza, mentre la Cantina storica è da anni del tutto inaccessibile al visitatore comune.

Dell’antica dignità di questo luogo, che per secoli è stato un tutt’uno, un complesso monumentale unico, con ai suoi piedi un borgo minuto ma non disprezzabile, visto il buon tono dei palazzotti affrescati di via Roma che si affacciano sul fiume, non è dato capire più niente.

Non importa: la visita al Museo, che si snoda lungo un percorso ben strutturato e anche molto vario di 43 sale, non mancherà di sorprendere a fondo ("e chi se l’aspettava?") e di interessare, forse anche entusiasmerà. E non è un caso, visto che ci troviamo nel cuore del più riuscito esperimento, in Italia, di dare una visibilità, uno spessore propriamente museale, alle memorie minute, all’identità collettiva di una comunità provinciale. Infatti, nel resto d’Italia, nel pur affollato settore dei musei etnografici di nuova generazione (più di 1.000, secondo alcuni!), non esiste niente del genere.

Ma qualche cosa non torna. Šebesta stesso, ci rendiamo conto, ha lavorato in un guscio vuoto, allestendo uno spazio già completamente svuotato: e infatti, a forza di spoliazioni, restauri e riconversioni, dell’anima del vecchio monastero, disciolto nel 1807 e del grande, importante Istituto che ne ha preso il posto dal 1874 al 1968, non è rimasto più nulla, non un arredo, non un archivio, nulla. Curioso, per un tempio della memoria, per un Museo, l’albergare in un luogo che ha saputo con tanta determinazione cancellare la memoria di sé...

San Michele come era.

Usciamo. Se è aperto il baretto, riusciremo a prendere qualcosa, magari un caffè. Ma chi ha in mente l’idea di un turismo culturale integrato, quello che ormai si pratica un po’ ovunque, con bottegucce di artigianato tipico, agriturismi ammiccanti, e proposte di itinerari tra cui scegliere, capirà subito che qui ha sbagliato indirizzo, perché, usciti dal Museo, non c’è più nulla. Così, la visita risulta per lo più un’esperienza solitaria e in qualche modo anche eroica, di chi decida, con la caparbietà un po’ eccentrica dei turisti di una volta, di recarsi un po’ a caso in un luogo strampalato, per cavarne, se si può, qualche impressione, qualche emozione di prima mano.

E così andiamo via. La fortuna del Museo, al di là dei suoi meriti indubbi, sembra essere davvero tutt’uno con il declino del luogo che lo ospita, che è decaduto, nel giro di mezzo secolo, da importante baricentro di una comunità regionale italotedesca, luogo obbligato di formazione e di scambio, a estrema periferia settentrionale della conurbazione trentina di fondovalle, in un contesto dove la Regione, di fatto, non esiste più.

Né esistono più, completamente obliterati dal tempo, il secolare tropismo volto a nord, che collegava l’antica Welschmichl, via i conti di Eppan, al mondo nobiliare tedesco, o il contesto novecentesco, ormai del tutto sbiadito, di un Trentino umile, semplicemente rurale, quello dell’Almanacco Agrario, del baco da seta, della lotta alla fillossera e della battaglia del grano, che proprio qui a San Michele ebbe la sua piccola capitale regionale. Un Trentino di fondovalle, pieno di afa d’estate e senza neve all’inverno, anni luce lontano dalle scintillanti vette della promozione turistica patinata, e di cui nessuno oggi, sembrerebbe, sa più bene che cosa fare.

Così, al di là delle formulazioni sempre piuttosto retoriche del cosiddetto "marketing territoriale" oggi in gran voga, l’antropogeografo diligente non potrà esimersi dall’osservare come l’attuale riconfigurazione degli orientamenti, delle tensioni significanti e delle linee di faglia del contesto geopolitico locale, secondo processi inesorabili di cui siamo testimoni in qualche modo compartecipi, si ripercuote in maniera sotterranea, sorda ma del tutto determinante, su tutto il complesso delle attività locali, ivi inclusa quella del Museo etnografico.

Considerazioni, queste ultime, amare anche se difficilmente prescindibili, che gravano in modo importante sul presente e sul futuro di quello che, grazie all’intuito originario del fondatore Šebesta e un po’ anche ai decenni di lavoro successivi, rimane pur sempre, per ammissione generale, seppure un po’ paradossalmente, il più monumentale, il meglio strutturato e il più bello, ovunque ammirato e invidiato, dei musei italiani di tradizioni popolari.

Sarebbe comunque un bene, che la società civile, gli amministratori, il ceto politico, non si dimentichino del tutto di quello che, da sempre, a S. Michele all’Adige è un polo museale bell’e fatto: accanto alle recenti realizzazioni museali di Rovereto, e a quelle in procinto di essere avviate a Trento, si avrebbe così in modo del tutto naturale, nella Piana Rotaliana, la terza punta di un ideale "tridente" di proposta culturale.

E così, lasciando a Rovereto il primato per quanto riguarda l’espressione artistica contemporanea nella sua accezione più vasta, a Trento quello della storia e, prossimamente, della scienza, ecco che S. Michele, forte del suo formidabile binomio Museo/Istituto Agrario, potrebbe rappresentare nel modo più degno il territorio antropico, le sue attività primarie, la sua cultura e le sue tradizioni, materiali come immateriali.

Un progetto che è di fatto già perfettamente realizzato, e che necessiterebbe solo di un po’ di attenzione consapevole in più, per emergere pienamente alla luce.