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QT n. 9, 7 maggio 2005 Servizi

La mentalità del 1813

Nel 1813, spirato il principato vescovile ed esaurite le turbolenze napoleoniche, i cittadini di Trento – ci spiegano gli storici – speravano in un nuovo rigoglioso sviluppo della città: iniziarono ad abbattere le mura, per dar vita a nuovi anni di apertura culturale ed espansione economica e territoriale. Ma si sbagliavano: quaranta anni dopo la città era passata da 11.500 abitanti a soli 13.000.

Questo handycap, l’insufficiente ruolo propulsivo ed attrattivo della città, sarebbe stato pesante per tutto il secolo, e per buona parte di quello successivo. Ma oggi esso si è ribaltato: nella conca tra le montagne vivono 110.000 persone ed altre decine di migliaia vi gravitano giornalmente: il problema vitale non è più attrarre, ma decentrare.

Questa premessa può forse aiutare a capire i problemi odierni della città: e perché, proprio in quanto opposti a quelli secolari, siano affrontati con timidezze, contraddizioni e ritardi. Oggi non si tratta più di favorire uno sviluppo urbano purchessia, che avrebbe i piedi d’argilla; ma di frenarlo, o meglio, di indirizzarlo; quando invece le dinamiche, le consuetudini, gli interessi consolidati puntano ancora verso l’espansione più o meno selvaggia.

Trento Nord.

Anche perché ben due ricerche demografiche, confermate dai dati successivi, prevedono per i prossimi decenni, all’interno di un’Italia demograficamente ferma, un Trentino da 600.000 abitanti e un capoluogo da 150.000. Di fronte a questo prevedibile e previsto aumento della popolazione (di per sé positivo, in quanto indice di forza economica e qualità della vita) come ci si comporta? La città in mezzo ai monti non rischia di venirne soffocata, e compromettere la propria vivibilità? Per di più, al di là delle parole, la prassi nel Comune è rimasta quella dei decenni scorsi: favorire l’espansione.

Questo spiega alcune decisioni altrimenti insensate: quando si è dismesso l’Ospedalino, lo si è ristrutturato duplicandone la cubatura, ed ora ci si trova con un mostro attrezzato e vuoto in cima a una collina, servito da una mulattiera, e ci si vanno a ficcare gli anziani. E così per l’area di edilizia agevolata in cima a via Cappuccini. O ancora per attività economiche come l’Interporto, che da scalo per le merci regionali si vuole trasformare in centro sovraregionale, con iniezioni di pubblico denaro per attività dequalificate, che mangiano territorio, attirano manodopera di basso livello, generano inquinamento e ulteriore traffico.

"Intanto lasciamo costruire, poi si vedrà" è sempre stato lo slogan negli uffici comunali. E così prima si costruiscono nuovi, informi quartieri (Clarina, Gardolo, Trento Nord, per non parlare delle caotiche aree artigianali) e poi si interviene per "riqualificare" e "risanare", spendendo molto per mettere qualche pezza.

Che senso ha?