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QT n. 19, 12 novembre 2005 Monitor

Un Amleto kubrickiano

Un continuo, intrigante, talora eccessivo rimando a Stanley Kubrick l'"Amleto in farsa tragedia" di Ugo Chiti. Grande talento del regista e della compagnia, in un lavoro che sarebbe esemplare se non fosse sovraccarico.

Amleto, il personaggio tragico per eccellenza, riscritto da Ugo Chiti in chiave noir e grottesca. Un approccio leggero che, dietro la cupezza, mette alla berlina solo per capriccio?

No. La farsa, sotto l’aspetto innocuo, ha il preciso intento di pungolare il senso critico nello spettatore in modo più grossolano, meno sottile della satira. Chiti ha voluto svestire "Amleto" dei suoi panni shakespeariani per dargli una fisionomia nuova, una dignità diversa da quella tragica. Da eroi (più o meno negativi), i personaggi tornano uomini e donne con le loro piccolezze e bassezze. Il contesto diviene novecentesco, popolar-borghese e inserito nella cornice linguistica del toscano. Le vicende ci appaiono più vicine, sullo sfondo di un castello appena accennato – o duplicato dalla sua stessa impalpabile ombra – e di una stazione balneare. Questo è Shakespeare? Sì e no: la riduzione a farsa è, infatti, solo un aspetto della messa in scena.

Parole-chiavi dell’allestimento sono "metateatro" e "citazione". Spesso i personaggi si scambiano ruoli e battute; le scene si fondono e sovrappongono, cambiano significato e prospettiva, ma sempre guardando al modello di riferimento con un costante contrappunto. Ofelia prova col padre il discorso da fare ad Amleto; Polonio finge di essere sua figlia; al cimitero, l’episodio di Yorick diviene di Polonio; al castello, la ricostruzione teatrale dell’assassinio è inglobata nel dialogo delle nuvole. Ma, soprattutto, Orazio è il narratore e testimone della memoria di Amleto, come suggerito da Shakespeare nell’epilogo del testo originale, mentre Polonio si accorge di essere su un palcoscenico (con tanto di luci che si accendono in platea) proprio mentre rammenta alla figlia che "Questa è la vita, non il teatro!"; dopo di che, sentendo la battuta della figlia, esclama "«Amleto», atto II, scena I".

"Barry Lyndon" di Kubrick.

Il filo rosso della pièce è però la colonna sonora, mutuata per intero da "Barry Lyndon" di Kubrick. "Sarabande" di Händel (nell’arrangiamento di Leonard Rosenman per tamburo e archi, per la scena del duello) apre il sipario, preannunciando lo scontro mortale; il tema, nella versione originaria, torna poi come leit-motiv a sottolineare le parti drammatiche insieme al "Piano trio n. 2 in MI bemolle" di Schubert; "Women of Ireland" tratteggia le scene romantiche, tra cui l’episodio inventato del sogno di Laerte, che riproduce la sequenza iniziale del film in cui il protagonista viene bendato; l’adagio del "Concerto per due clavicembali e orchestra in DO minore" di Bach è usato per momenti più farseschi; la marcia "British Grenadiers" da militare diviene funebre, sebbene in qualche modo avesse tale sfumatura (come anticipazione della morte) anche per Kubrick.

Ma perché intrecciare in tal modo le due opere? Semplice: Kubrick, nell’adattare il romanzo di Thackeray, si era ispirato a sua volta ad "Amleto". In entrambe le vicende vi è un padre morto, subito sostituito nei favori della madre da un altro uomo di dubbia moralità; per il conflitto interiore del figlio, il triangolo edipico sfocia in un duello finale, dove l’usurpatore viene rimosso. Lo scambio di battute "[Regina:] Amleto, tu hai gravemente offeso tuo padre. [Amleto:] Madre, voi avete gravemente offeso mio padre" è identico a "[Lady Lyndon:] Lord Bullingdon, avete insultato vostro padre. [Lord Bullingdon:] Milady, voi avete insultato mio padre".

I rimandi di Chiti sono dunque tutt’altro che gratuiti… raffinati, anche sotto la veste della farsa, e portati avanti in un gioco di specchi che rimanda continuamente dal "Barry Lyndon" kubrickiano ad "Amleto" e da "Amleto" al "Barry Lyndon" kubrickiano. "Siamo tutti portate della stessa tavola", cibo per i vermi a sentire Orazio, non è diverso dal dire "Fu sotto il regno di Giorgio III che i personaggi sopra nominati vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali", come recita l’epigrafe del narratore nel film.

Il pessimismo è radicale, ma vede uno spiraglio nella "compassione" che, sola, sa portare alla "comprensione" del dolore fra i "calcoli della mente" e le "titubanze del cuore". Almeno due dei tre temi forti di Kubrick tornano nell’allestimento di Chiti dandogli unità e senso: il rapporto tra violenza e libero arbitrio, il Settecento e, molto velatamente, gli scacchi (ovvero il mondo come scacchiera).

Stanley Kubrick

La vendetta non è dolce, è mortale, mentre la passione cova sotto le ceneri della ragione, come nel secolo dei Lumi.

L’azione è prima pensiero e parola: "Il territorio della mente mi è più congeniale della sala delle armi" afferma Orazio. Il mondo e l’anima sono come un uovo: perfezione e armonia usciti dal "buco di culo" di una gallina; la stessa onestà non può essere bella poiché sarebbe un ossimoro. Inoltre, l’uomo è in dubbio se rinunciare a Dio svuotando il cielo, diviso tra l’horror vacui della fede e il "pieno" della razionalità.

Un discorso a parte va fatto per il linguaggio scelto. Metaforico, denso di doppi sensi, ha davanti tre modelli: l’eufuismo elisabettiano, derivato direttamente dall’originale shakespeariano; il colorito toscano; l’arzigogolato gergo dei drughi, che rimanda ad "Arancia meccanica" e al romanzo di Burgess da cui il film è tratto. Per di più, la tirata militaresca dello spettro del padre scimmiotta il sergente Hartman di "Full Metal Jacket", mentre la teoria secondo cui la corruzione è trasmessa dai liquami ha evidenti ascendenze da "Il dottor Stranamore". Ancora Kubrick, dunque, tanto che inizialmente avevamo pensato di intitolare la recensione "Kubrick o Amleto: questo è il problema"; ma sarebbe stato fuorviante oltre che ad effetto. Il punto non è se la bilancia penda più verso l’uno o verso l’altro, né dove finisca "Amleto" o dove cominci "Barry Lyndon"; il nodo centrale è come i due mondi s’integrino e compenetrino fra loro in un’operazione che va al di là di un semplice crossover. Il ricorso alla farsa, del resto, rimanda anche a "Ubu re" di Alfred Jarry, ispirato in tono grottesco a "Macbeth" e incentrato sul regicidio e l’usurpazione di un trono. In tal modo, il legame con Shakespeare si rafforza a livello intertestuale.

Non tutto torna, però… gli abiti novecenteschi fanno a pugni col Settecento delle musiche e col Medioevo di Amleto, ma in una farsa ciò è anche lecito. Peccato invece che Chiti non applichi fino in fondo la regola aurea che consiglia di "rendere naturale, spontaneo ed immediato ciò che è massimo artificio". A volte, il gioco delle citazioni mostra la corda, apparendo troppo scoperto e insistito. L’esperimento è riuscito a metà: aggiunge qualcosa di nuovo e lo fa in modo interessante e intelligente, ma il risultato non è memorabile. Se le scene e la recitazione convincono appieno, non altrettanto avviene per l’accumulo dei rimandi; in particolare, abbiamo trovato fastidiosa la scena-flash in cui Amleto, dopo aver ucciso Polonio, compare vestito di bianco e con un cappello nero, davanti a un fondale rosso da fumetto, come in "Arancia meccanica". Una strizzatina d’occhio superflua.

"Arancia meccanica"

Per il resto, "Amleto in farsa tragedia" conferma il talento del regista e della compagnia, capace di reinventare i personaggi shakespeariani senza mai ridurli a macchietta. Persino il servo Rinaldo – e stiamo parlando di una parodia – conserva una sua identità e dignità (viene da dire tenerezza) al pari dei protagonisti; così come lo spettro del padre è un misto d’autorità e dolcezza, vendetta e nostalgia che lo rendono più complesso di quanto sembri. L’unica vera pecca, che invitiamo Chiti a eliminare, è il sovraccarico di immagini, quel "di più" che va oltre lo scopo e il messaggio dell’opera. Perfezione e cultura, come l’eleganza, non si devono notare ma devono passare inosservate.

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