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QT n. 9, 6 maggio 2006 Cover story

La Chiesa trentina dal Simonino a Ratzinger

Intervista a mons. Iginio Rogger, storico e già uomo chiave nella Curia trentina. I punti critici della storia della Chiesa trentina, da Adalpreto, all’eccidio degli ebrei, al vergognoso culto del Simonino, il Concilio, la nascita dell’Università, l’insegnamento della religione, l’odierno confronto con le altre fedi: visti con la cultura di un uomo che conserva la visione conciliare. Fino ai giorni nostri: “Questo papa non lo capisco, tutto quello che diciamo è relativo”.

E’ stato in questi giorni insignito della laurea honoris causa in Giurisprudenza mons. Iginio Rogger. E uomo di cultura lo è stato davvero e lo è tuttora, direttore ottuagenario del Museo Diocesano (che è proprio suggestivo, non lasciatevi scoraggiare dal nome, trovate il tempo di andarlo a visitare) e fondatore, presso l’Itc, dell’Istituto di Scienze Religiose. Ma oltre che studioso - in pratica lo storico ufficiale della Chiesa trentina - mons. Rogger è stato anche un interprete della Chiesa conciliare, e anche uomo di potere dentro la Curia, soprattutto ai tempi dell’arcivescovo Gottardi. Forse l’episodio che meglio esemplifica la sintesi tra queste vari aspetti e ruoli dell’uomo – lo storico, il prete conciliare, l’eminenza influente – è proprio l’abrogazione del culto – antisemita e basato su un falso storico – del San Simonino. Abrogazione di cui Rogger fu promotore nel 1965, e che oggi è stata oggetto della lectio magistralis nel giorno del conferimento della laurea: a buon diritto, in quanto sintetizza la capacità di un uomo di cultura e di potere, profondo e coraggioso innovatore, di ri-orientare i sentimenti popolari verso una visione ecumenica dei rapporti tra le fedi e tra i diversi. Una lectio, un’autentica lezione, che collega l’ieri all’oggi, e che difatti è stata mal digerita da qualcuno dei nostrani imprenditori dell’intolleranza (vedi Il consigliere Coradello e l’autopsia del Simonino).

Mons. Iginio Rogger a fianco del rettore Davide Bassi il giorno del conferimento della laurea honoris causa.

Mons. Rogger il giorno dopo, nella calma di una sala di Palazzo Pretorio, ci ha concesso una lunga intervista. Sugli snodi più controversi e illuminanti della storia della Chiesa trentina, fino a papa Ratzinger e ai giorni nostri.

Apriamo il nostro colloquio partendo appunto dal Simonino, riconoscendo alla comunità trentina, e in particolare allo stesso Rogger, l’onestà di aver saputo riconoscere proprie, pur antiche, colpe. Questo ci sembra un punto importante, oggi. In una situazione storica in cui le diverse culture rischiano di tornare ad affrontarsi con virulenza, riconoscere le proprie colpe invece di rinfacciare quelle altrui, ricordare i propri misfatti invece dei propri "martiri", è una saggia virtù. Per questo preferiremmo che, prima di celebrare i nostri morti nelle foibe, ricordassimo i nostri eccidi nella Slovenia o Dalmazia occupate, per non parlare di quelli in Libia o in Abissinia.

Sulla vicenda del Simonino invece la comunità si è interrogata, ha rivisitato una tremenda pagina della propria storia (per chi non lo sapesse, l’uccisione nel 1476 di 9 ebrei trentini a seguito della falsa accusa di aver assassinato in un omicidio rituale un bambino di 2 anni, Simone Unferdorben), ha abrogato il relativo culto, ha chiesto coralmente ammenda, rinominando anche la relativa via (da "San" Simonino a "del" Simonino) apponendovi una lapide a memoria di quella antica, orrenda colpa.

Riconosciuto tutto questo, rimane aperto il giudizio storico. Con Rogger discutiamo del concetto di "buona fede" che, nella sua lectio all’Università, aveva (troppo benevolmente?) attribuito ai protagonisti di un sì barbaro episodio di antisemitismo.

Raffigurazione dell'omicidio del Simonino ad opera degli ebrei di Trento.

"Buona fede" perché? Che senso ha? Anche del comandante di Auschwitz allora potremmo dire che era in buona fede...

"E’ un problema complesso. Dovessimo oggi pronunciare giudizi di condanna, dovremmo effettuare tutta una serie di distinguo e differenziazioni; bisogna tener conto dei tempi e della cultura di allora. Per esempio, sull’epigrafe della via Simonino, io avevo proposto di scrivere che il fatto era avvenuto in seguito a ‘comune pregiudizio’. Perché allora era normale la condanna e l’esecuzione. Se, per un’ipotesi di fantasia, il giudice di allora avesse assolto gli ebrei, avrebbe dovuto vedersela con i cittadini e le stesse autorità civili: per questo dico, si era di fronte a un ‘comune pregiudizio’. E’ su un piano diverso, ma secondo la stessa dinamica, la responsabilità di chi ha poi ‘montato’ la beatificazione: fenomeno anch’esso frutto del pregiudizio diffuso. E ancora, nella popolazione trentina dei secoli successivi: è stato un culto portato avanti a furor di popolo, anche contro Roma, che invece non ne voleva sapere".

Tutti responsabili, nessun responsabile? Eppure c’è stato chi l’odio lo fomentò, a iniziare dalle prediche di un francescano invasato...

"Bernardino da Feltre. Che allora i francescani fossero fomentatori di pregiudizi anti-ebraici è indubbio. Però quello che abbia detto Bernardino – ricordo che siamo nel Quattrocento – non lo sappiamo; né conosciamo la sua capacità come predicatore, né la sua autorevolezza. Sappiamo invece che il pregiudizio era già diffuso, e che bastava un niente per suscitare la scintilla e far scoppiare l’incendio.

Che fosse difficile operare contro il pregiudizio lo si vide anche durante il processo agli ebrei accusati del supposto omicidio rituale. A vigilare sul processo papa Sisto IV, per niente convinto della situazione, inviò il vescovo di Ventimiglia, Dei Giudici: persona indubbiamente retta e coraggiosa, che però venne osteggiata con tutte le forze dal vescovo trentino, tra l’altro geloso di difendere le proprie autonome prerogative. Il papa convenne che il giudizio spettava a Trento nell’ambito delle proprie competenze civili, su cui non poteva interferire; però fu categorico nel non ammettere il culto del martire Simonino. Culto che poi invece si sviluppò in seguito alle pressioni popolari".

Il tema oggi è come valutiamo il pregiudizio. Quello di allora, che forse ci parla dei pregiudizi odierni.

"Mi sento di lodare senza limiti la ragionevolezza dei trentini in questa vicenda. C’erano molti affezionati a questo piccolo santo. Ma, quando portammo i nostri ragionamenti scientifici, presentati nei termini opportuni, potemmo arrivare, nel 1985, a ricompilare il formulario dei santi trentini escludendo il Simonino; e senza suscitare alcuna reazione. E’ indice della capacità della nostra comunità di rivedere le proprie opinioni, se si portano argomenti seri. Ricordo che invece a Innsbruck, la rimozione da parte del vescovo Stecher di un culto analogo di un bambino, tal Andreino da Rinn della cui morte furono incolpati gli ebrei, incontrò un’opposizione durissima, nella popolazione e nel clero.

A me importava far emergere il nostro problema morale: oggi noi sappiamo che non fu ucciso dagli ebrei. A questo punto, se proseguiamo con questo culto, siamo in peccato mortale. La popolazione questo ragionamento lo ha capito, ed ha reagito positivamente. Per quanto riguarda i vescovi precedenti, se fossero in buona o male fede, non mi sento di giudicare".

Passiamo ad un’altra figura contestata della Chiesa trentina: il vescovo Adelpreto, ucciso in battaglia, eretto dal direttore dell’Arcivescovile don Giacometti, nell’apertura del nuovo liceo a Rovereto, a "martire", "santo", "patrono dell’arcidiocesi" (vedi L’Arcivescovile a Rovereto. Auspice Adelpreto?), quando il suo culto fu già duramente contestato nel ‘700 da Girolamo Tartarotti, visto che la sua morte nulla aveva a che vedere con la fede.

Lastra di rame dorato raffigurante lo scontro fra Adalpreto e Aldrighetto di Castelbarco (1172), che un tempo adornava il sarcofago del vescovo nel Duomo di Trento.

"Davvero don Giacometti ha ricordato in questi termini Adelpreto? La cosa mi era sfuggita".

E mons. Rogger sorride divertito. Poi si fa più serio: "Su Adelpreto ho specificamente condotto degli studi, ho individuato il suo scheletro, ho tenuto tra le mani il suo cranio, lesionato dai fendenti come descritti nelle cronache. L’altare maggiore del Duomo è in effetti dedicato ai santi Virgilio ed Adealpreto. Poi nel ‘700 ci furono le contestazioni del Tartarotti al supposto martirio, e dal 1909-10 il suo culto venne tacitamente messo in disparte. Ora è ritornato, in seguito ad una rivisitazione della sua figura. Siamo arrivati alla conclusione di conservare il culto di Adelpreto, ma derubricato a ‘memoria facoltativa’, con esplicita menzione che non va considerato un martire della fede (e in proposito mi sento di dire che andrei più cauto del cardinal Ruini nel classificare come martire il don Santoro recentemente ucciso in Turchia: in realtà non sappiamo i motivi della sua morte). Diciamo che, nel 1172 Adelpreto non fu martire della fede, ma vittima del suo dovere civile, un po’ come i carabinieri uccisi in uno scontro con la mafia, e lui nel contrastare la frammentazione del principato ad opera dei feudatari...".

‘Dovere civile’ mi sembra un termine opinabile. Io direi che Adelpreto è morto nel difendere le potestà del suo principato.

"Possiamo dire così. In effetti attorno a questo personaggio si è coagulata la discussione sul Medioevo trentino. E sugli uomini del passato è bene che gli storici indaghino: le problematiche sono ancora tutte aperte".

Veniamo alla storia recente. In un’intervista lei ha accennato a un ruolo, suo e della Curia, nella nascita dell’Università trentina. Può specificare?

"Sull’ipotesi di un’Università, si fronteggiavano due posizioni: da una parte il presidente della Regione Albertini che, in contatto con la Cattolica di Milano, ne ipotizzava una dependance a Trento attraverso una promessa facoltà di Forestale, che poi mai arrivava e che comunque era da tenere rigidamente nell’ambito cattolico; dall’altra Kessler, che puntava su una facoltà autonoma, in un ambito nuovo, e quindi unica in Italia, appunto Sociologia. Cosa che non si presentava certo come un’operazione clericale, e che comunque non risultava gradita né all’onorevole Flaminio Piccoli, né alla nostra Azione Cattolica. E così il progetto fu bloccato ventilando un’ostilità da parte dell’autorità ecclesiastica…".

Bruno Kessler

Ostilità reale?

"Era un argomento portato per corroborare la posizione di Piccoli. D’altronde, allora, cosa voleva dire ‘autorità ecclesiastica’? Credo che l’ultimo volume della ‘Storia del Trentino’ abbia già chiarito: ai tempi del vescovo de Ferrari c’era chi parlava per lui, chi governava per lui. Nel febbraio del ’61 papa Giovanni XXIII, che qualcosa sapeva della nostra situazione, intervenne, sospendendo de Ferrari, nominando amministratore apostolico mons. Gargitter di Bressanone e affiancando al vicario generale Bortolameotti il provicario Bruno Vielmetti, con la potestà nel settore amministrativo, dove evidentemente c’erano i problemi più acuti.

Fu in quella fase che Kessler mi chiese, di fronte agli ostacoli che aveva trovato, quale fosse la posizione di Gargitter. Il quale disse, ed io riferii, di essere assolutamente neutrale, e di riconoscere in merito la sola responsabilità delle autorità civili. Risposta che ancor oggi io ritengo ineccepibile.

Da allora Kessler andò avanti per la sua strada, e né io, né la Chiesa trentina avemmo più rapporti. E forse, al livello opportuno, avrei invece dovuto averne di più; con questa bella realtà dell’Università di Trento ci siamo visti solo ieri, in occasione della laurea".

A dire il vero il suo rapporto con il mondo accademico c’è stato attraverso l’Istituto di Scienze Religiose…

"No, l’Isr è un’istituzione diversa dall’Università. L’Istituto Trentino di Cultura (di cui l’Isr è un’articolazione. n.d.r.) ha avuto il suo ruolo nell’avviare l’Università; una volta che questa è decollata, ha ridefinito il suo autonomo ambito d’azione".

Approfondiamo il ruolo dell’Isr: non è diventato soprattutto una scuola per insegnanti di religione? Forse ci si aspettava qualcosa di più avanzato...

"Preparare gli insegnanti di religione non è un compito del tutto secondario. Però ci tengo a distinguere: una cosa è l’Isr, che è laico, secolare, dell’ente pubblico; e un’altra il corso per insegnanti di religione, svolto in collaborazione con la Curia".

Ma non è che quello che era un istituto di alto livello in Italia, è diventato uno dei tanti che prepara i catechisti?

"Non sono d’accordo. L’Isr, con la direzione di Autiero, mi sembra a un livello considerevole e riconosciuto. E poi vorrei verificare la qualità della preparazione degli insegnanti nelle altre Diocesi. Piuttosto ho visto tentativi dell’Ufficio Catechistico di influenzare l’Istituto; oppure di esautorarlo, facendo passare altrove la preparazione degli insegnanti.

Ma per capire i problemi di fondo: negli ultimi anni del vescovato di Sartori, il presidente della Provincia Andreotti e l’assessore alla cultura Valduga mi chiamarono per preparare un progetto di evoluzione dell’Isr verso una vera facoltà di teologia. Come a suo tempo con Kessler, io risposi: ‘Mi metto a disposizione. Però sia chiaro che non sono stato io a pregarvi per questo sviluppo, siete stati voi’. Io svolsi tutto un lavoro preparatorio, predisponendo programmi e tessendo rapporti con cattedrattici italiani ed esteri; ma furono loro a lasciar perdere, saputa l’ostilità del vescovo Sartori, che sollecitò prese di posizioni contrarie sia a livello civile come a livello ecclesiastico, dove peraltro non c’era molto bisogno".

Perché questa ostilità; forse perché rischiava di essere una presenza non facilmente controllabile?

"Ad Andreotti dissi ‘Pensavo che sapeste dove andavate’. Non è un caso che la facoltà cattolica del Sacro Cuore ancora oggi non ha una facoltà di teologia".

Veniamo a un discorso franco, crudo, ma che va al cuore del problema. Si parla tanto dell’Insegnamento religioso nelle scuole, ma sia i laici che i cattolici, la conoscono la realtà? La affrontano per quella che è? Chi vive in una scuola sa che, a parte casi eccezionali di insegnanti particolarmente carismatici, l’ora di religione è, quando va bene – ma molto bene – un’ora in cui si discute di droga, disagio giovanile, guerra; e altrimenti è semplicemente un’ora di gazzarra, di ricreazione in classe. A questo punto, a cosa e a chi serve?

"Forse dovremmo studiare meglio quello che si fa in altre nazioni…".

Forse si dovrebbe passare all’ "ora delle religioni", curriculare, svincolata dalla Chiesa. Così si affronterebbe anche il problema del rapporto, potenzialmente critico, con le altre fedi.

"Il punto è affrontare la religione sulla base della storia, senza paura di dibattere i punti critici, o di chiamare le cose con il loro nome. Credo che all’Isr questa impostazione ci sia: imparare a paragonare le religioni, i tempi storici, le categorie mentali, porsi interrogativi, cosa è oggi la realtà Chiesa, cosa è stato il Concilio, cosa è la liturgia… queste sono le domande che ci poniamo. Siamo in un tempo in cui i vecchi formulari servono a poco, la fede come complesso di formule chiuse in se stesse sono finiti. Dobbiamo ritrovare la strada in cui la liturgia ritorna ad essere un’esperienza. Anche correndo il rischio di confondersi.

Ma c’è timore ad affrontare tutto questo, ci si irrigidisce. Anche se il Vaticano II a questi temi aveva messo mano…".

L'aula di Giurisprudenza il giorno del conferimento della laurea honoris causa a mons. Rogger.

Ma è stato rimosso…

"Certo. La mia esperienza, con il prof. Pellegrino (poi cardinal Pellegrino) e il prof. Dossetti (poi monaco, ritiratosi da tutto) è stata di veder ispirato, praticato il Vaticano II, e sperimentato attraverso le innovazioni nella liturgia, capitolo tra i più delicati.

Poi il mondo bisogna guardarlo per come è fatto: la coscienza che ha battuto alle porte con il Vaticano II parla ancora oggi, è consegnata a coloro che sapranno recepirla, ricercando la parola di Dio. Ma all’interno di un dialogo più aperto, anche con gli ebrei e i musulmani. Ora, finalmente cattolici e protestanti sono usciti da una interpretazione solo letteraria delle Sacre scritture, che dovrebbero fare testo per così come sono scritte. In realtà Cristo non ha scritto una parola, né ha ordinato di scrivere, ma ha dato ordine di parlare e di ascoltare. E così le lettere di San Paolo sono interventi di quel momento di fronte a quell’uditorio; naturalmente contengono un indirizzo, che cento anni dopo si è visto che può essere utile e necessario, ma vanno considerate nel loro genere letterario e nei loro limiti.

D’altronde, riducendo la religione a pura esperienza, soprattutto se soggettiva, individuale, si può restare vittime di fantasie stravaganti: le fisime, le apparizioni, i miracoli, è tutto un contesto che anche i vescovi hanno difficoltà ad arginare. Per questo ascoltare la parola è complesso; e tuttavia la risposta tradizionale non è sufficiente".

Non c’è un problema, acuitosi in questi ultimissimi mesi, di rapporto tra cultura laica e religiosa? C’è una serie di prese di posizione di papa Ratzinger…

"Di lui non ho capito la forte, vibrante polemica contro il relativismo. Umanamente parlando, tutto è relativo, quello che stiamo dicendo è relativo. Ma lo diceva già San Paolo: ‘Ex parte enim cognoscimus, ex parte profetamus" - è parziale ogni nostra conoscenza. Il pericolo è che invece la gestiamo come se fosse totale, assoluta. Sicuramente l’ancoraggio a Dio ti dà sostegno, però quando sento vendere certezze da parte di coloro che professano la fede… Tutti siamo pronti a darci certezze, ne abbiamo bisogno, ma in fondo sentiamo che sono certezze autofabbricate".

E così siamo tornati alla Leggenda del Grande Inquisitore di Dostojevskij: il popolo che non può vivere senza la costrizione, che si smarrisce nella libertà; e il potere religioso che gli indica, coercitivamente, la strada (vedi Dio, Ratzinger e il Grande Inquisitore).

"Fa parte anche questo della storia umana. Dentro la quale peraltro è apparso quel tale che le ha subite tutte, pur dominandole…".

Intende Cristo…

"Sì, che rimane l’unico punto di riferimento. Qui sì posso dire di non averne trovati altri. Poi la storia dimostra come i cristiani siano pronti a crearsi certezze più forti, da usare contro gli altri. Voglio ricordare un pensiero di Agostino - ripreso recentemente da Ratzinger, il che mi permette di darne un giudizio più equilibrato: ‘Dove c’è il potere c’è il latrocinio’. E’ la sorte umana; e il cristianesimo dovrebbe aiutare a venirne fuori, aiutare un po’, non in maniera incontestabile, sbagliamo noi cristiani quando facciamo troppi discorsi assoluti. E proprio il Vangelo è questo che ci insegna".

Che Cristo fosse laico non c’è dubbio. Che fosse anticlericale nemmeno, al punto che sono stati i sacerdoti del Tempio a farlo ammazzare. Lei dice che Cristo era anche relativista?

"Relativista nel portare avanti una nozione di Dio che gli assolutisti non sanno nemmeno immaginare: il Dio del figliol prodigo, dell’amore (‘Non sono venuto per essere servito ma per servire’), che presenta una caricaturale descrizione degli scribi e farisei assisi nel Tempio, identici ai porporati in San Pietro, che raccomanda ‘Non fatevi chiamare maestri, non fatevi chiamare padri’. L’arcivescovo Sartori sosteneva che questi passi non fossero riferiti a noi, bensì ai soli Anna e Caifa: posizione falsa anche dal punto di vista esegetico, perché ai tempi dell’evangelista Matteo Anna e Caifa erano da gran tempo morti, e Matteo parlava di quello che vedeva nella comunità cristiana di allora.

E’ tutto un modo di intendere Dio: ed è lì che manchiamo. E’ più semplice portare avanti un simulacro del cristianesimo, che un tempo poteva forse bastare, ma oggi non più".