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QT n. 9, 4 maggio 2002 Servizi

Il colonialismo è finito?

Come il mondo islamico percepisce la politica occidentale.

Le reazioni determinate dalla situazione afgana e da quella palestinese sull’opinione pubblica degli Stati a prevalenza islamica sono diverse, e andrebbero esaminate sia dal lato interno che da quello dei rapporti con l’occidente europeo e americano.

Cominciamo dal primo punto. La questione palestinese, che si trascina come è noto tra una guerra e l’altra dal 1948, ha finito per diventare per i paesi arabi e musulmani in generale una questione di bandiera. Nessun governo di questi paesi, neppure tra i più filo-occidentali e legati agli interessi euro-americani, può permettersi di ignorare - almeno nella retorica della comunicazione politica - il grido di protesta e la marea crescente di odio antiamericano e antiisraeliano. I movimenti estremisti operanti all’interno dei singoli paesi traggono spunto dal peggioramento della situazione in Palestina per rinvigorire le loro tesi sull’inemendabilità del "sistema di potere capitalista-cristiano-sionista" e per mobilitare uomini e coscienze contro i regimi interni presunti alleati di tale sistema.

Questi ultimi, in una specie di rincorsa (retorica) degli slogan dell’estremismo, sono costretti, almeno a parole, ad alzare il tono della polemica per non vedersi rivoltare contro le piazze. D’altronde, si può osservare che la mobilitazione ideologica contro nemici esterni, veri o presunti, come è inevitabile favorisce in qualche modo la "distrazione" delle masse dai problemi politici e sociali interni e, in qualche caso, ciò può persino permettere a qualche regime in difficoltà con l’opinione pubblica interna di rifarsi una verginità. Ecco un punto importante: da noi si fatica, e ancor più dopo l’11 settembre, a capire che il radicalismo islamico è stato ed è ancora soprattutto una questione di lotta di potere interna ai vari regimi dei paesi musulmani.

Difficile dare una valutazione sul prossimo futuro, che comunque andrebbe fatta caso per caso, paese per paese. Inoltre il fattore tempo diventa fondamentale: se la crisi dovesse cronicizzarsi, se la caccia al palestinese con i carri armati tra i villaggi e le macerie dei Territori dovesse divenire routine quotidiana, il tempo lavorerebbe senza dubbio a favore dei movimenti estremisti di ispirazione fondamentalista e diversi regimi moderati (a cominciare da quelli della penisola araba) correrebbero il rischio di essere destabilizzati. Una soluzione in tempi ragionevoli del conflitto configura ovviamente uno scenario opposto.

La guerra dell’Afghanistan ha avuto sull’opinione pubblica dei paesi musulmani un impatto emotivo assai inferiore. E’ un fatto che questa guerra è stata rapidamente rimossa dalle prime pagine e forse anche dalla memoria dell’opinione pubblica musulmana: l’oculata gestione della crisi da parte americana, che ha fatto sì che truppe locali musulmane (l’"Alleanza del Nord") risolvessero, almeno sul terreno e nelle trincee, la guerra, ha permesso di archiviare per il momento il capitolo Afghanistan. Le truppe straniere in fondo hanno "dato una mano" a una delle due fazioni, non hanno occupato militarmente il paese.

La Palestina, e qui abbordiamo il secondo lato della questione, è invece stabilmente "occupata" da truppe straniere, dall’odiato "governo sionista" appoggiato dagli americani.

Qui sta la fondamentale diversità delle due situazioni. I "sionisti" sono percepiti da sempre come i nuovi crociati, eredi di coloro che a suo tempo crearono regni cristiani tra il 1099 (presa di Gerusalemme) e il 1291 (caduta dell’ultimo bastione cristiano di S. Giovanni d’Acri). I palestinesi presidiano un pezzo piccolo ma importante - per l’identità musulmana - della Dar al-Islam ossia dello "spazio musulmano": su quel pezzetto di terra, com’è noto, si erge il terzo luogo santo dell’Islam, Gerusalemme e la sua celebre moschea di al-Aqsà, da dove, secondo la tradizione, Maometto iniziò il suo misterioso "viaggio al cielo" (mi’raj) per andare al cospetto di Dio. Ironia della storia, oggi l’Autorità Palestinese è retta da una élite dirigente che si rifà alle componenti più laiche dell’universo musulmano. Di certo, Arafat non è mai stato amato dagli "islamiyyun", i fondamentalisti islamici.

Ma, dicevamo, la Palestina e il suo leader sono una bandiera: per moderati e estremisti, per laici e religiosi, per i governi-regimi e per i movimenti che li contestano Arafat è diventato il simbolo per eccellenza di un Islam calpestato e umiliato dalle grandi potenze. Le quali - si noti bene - non per il fatto di non avere più colonie sono sentite meno "colonialiste" e "imperialiste". Israele stesso è sentito come un atto di "sopruso colonialista", una ferita e una offesa nella coscienza di un miliardo e duecento milioni di musulmani che non cessa di sanguinare.

Ecco, questo aspetto stenta ad essere realmente compreso in tutta la sua portata dall’opinione pubblica europea e americana, per la quale il colonialismo è in sostanza un capitolo chiuso, appartiene alla storia di ieri. Non è così per l’opinione pubblica araba e musulmana che a torto o a ragione ha visto e continua a vedere, dalla crisi di Suez degli anni Cinquanta alle varie guerre arabo-israeliane e sino alle recenti guerre contro l’Iraq e l’Afghanistan, una sequela ininterrotta di brutali "atti colonialistici", la prova tangibile di un dominio arrogante e "razzista" che si perpetua ben oltre la fine delle ultime colonie storiche.

Il predominio degli interessi euro-americani nei vari organismi internazionali deputati alla promozione dello sviluppo e al "controllo della pace" nelle aree calde, il presunto acritico appoggio euro-americano a Israele, la "potenza coloniale"del Medio Oriente, il moltiplicarsi, specie nei paesi anglosassoni, di episodi di razzismo e l’evidente criminalizzazione nei media euro-americani di tutto ciò che sa di "islamico" (tutti fenomeni in atto da tempo, e da ben prima dell’ 11 settembre) non fanno che alimentare senza tregua la deriva psicologica, la "secessione", del mondo musulmano da questo Occidente cui è stato sempre intimamente legato - attraverso commerci, confronti e scambi di ogni tipo - dal medioevo a oggi.

Ecco, questo è forse il rischio e insieme il pericolo più grave: una mancata soluzione all’incancrenito problema israelo-palestinese rischia di far saltare gli ultimi argini a questa "deriva secessionista", di far davvero realizzare il paventato "clash of civilizations", il conflitto tra civiltà.

La questione palestinese, soprattutto il modo scopertamente parziale e arrogante con cui il "mediatore" americano si è messo all’opera negli ultimi mesi, esaspera oltre ogni limite una opinione pubblica già da tempo ostile e convinta dell’esistenza di un "complotto cristiano-sionista" contro i musulmani. Qui è la radice di grossi rischi per tutti, che potrebbero fare impallidire il ricordo della tragedia delle Due Torri.