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QT n. 10, 20 maggio 2006 Servizi

I saperi danno forza

Com’è nata l’alleanza fra Val di Susa e Torino nella vicenda TAV.

Questo è un brano di una più lunga intervista realizzata con Giuseppe Sergi, docente di Storia medievale all’Università di Torino, e co-fondatore del Laboratorio per la Democrazia di Torino per "Una Città", rivista di Forlì. Parla di democrazia e grandi opere, del ruolo degli intellettuali al servizio della società, di informazione "riflessiva".

Come è avvenuto l’incontro fra il movimento NOTAV e il Laboratorio per la Democrazia di Torino?

"Il Laboratorio per la Democrazia di Torino era nato come altri movimenti subito dopo la famosa invocazione di Nanni Moretti, sui temi della giustizia, delle leggi ad personam del governo Berlusconi, sulla tutela della Costituzione, sulla sanità. Oltre ai girotondi, destinati a sparire in poco tempo, i Laboratori hanno lasciato traccia e permesso aggregazioni di persone e saperi.

A differenza di quello di Firenze, dove il Laboratorio per la Democrazia è entrato in politica, qui a Torino non c’è stata una scelta di impegno politico diretto. C’è stata una svolta nella primavera del 2005, quando hanno cominciato a circolare le copie del ‘Progetto Torino’, il piano di sviluppo della città del dopo-FIAT, nel quale due persone che erano state piuttosto attive nel Laboratorio, Marco Revelli e io, abbiamo sentito un’aria che non ci piaceva, di rassegnazione estrema perché la città non può più essere la città industriale di prima.

Abbiamo individuato nel progetto due difetti. Il primo è quella di puntare moltissimo sulle grandi opere, quindi allora le Olimpiadi, il rifacimento della città, un grosso impegno sulla ristrutturazione delle cosiddette spine, che sono le aree dove correva la ferrovia o grandi complessi industriali, che vengono rasi al suolo e su cui si fa edilizia privata, quindi molto ‘sviluppista’, molto cemento. Dall’altra parte, in contraddizione, c’era il compiacimento di avere complessi rock o punk, quelli dei Murazzi, diventati famosi in tutta Italia, puntando insomma sulla leggerezza, sull’idea che una città così possa vivere per la sua capacità di attrarre anche sul piano turistico per cose legate ad eventi che con la pesantezza e il cemento non c’entrano nulla. Nell’aria si respirava la somma di questi due fattori che apparivano in realtà molto affaristici tutti e due. L’apparente contraddizione si sanava nel fatto che dello sviluppo del cemento e delle grandi opere non interessa tanto l’esito ma il denaro che mette in circolo.

Sulla base di quanto era emerso nel corso di una serie di incontri, Revelli e io abbiamo fatto un documento decisamente ‘antichiampariniano’ (Chiamparino è il sindaco di Torino, n. d. R.), antisviluppista: noi, dicevamo, dobbiamo progettare per i nostri discendenti una buona vita come alternativa a questo sviluppo acritico. Questo documento è stato mandato a circa 200 destinatari. Pochi (tre o quattro) hanno risposto in modo ostile, soprattutto quelli che erano interni ad alcuni partiti, soprattutto ai DS, e questo mi dà l’occasione di dire che il Laboratorio è tutto fuori dai partiti. Molti tacquero e una settantina di persone risposero dicendo che andava bene. Avendo preso noi questa strada, o c’è stata una coincidenza fortunata o era politicamente nell’aria, ma i collegamenti con i movimenti antiTAV sono partiti subito, perché ovviamente i due obiettivi si sposavano troppo bene. E’ stato un felice incontro: per i valsusini è stato un aiuto non essere isolati e avere un appoggio torinese, per noi è stata una fortuna avere sul campo degli esempi di democrazia partecipata, anzi partecipatissima, che era quella che noi predicavamo in modo un po’ solo teorico. Abbiamo messo a disposizione quanto sapevamo, ognuno nel suo campo di lavoro e di studio. La gente lavora, non può documentarsi, leggersi centinaia di pagine ogni giorno. Nei diversi settori ci sono degli esperti, l’economista, il trasportista, l’ingegnere, perfino lo storico e questo non deve fare propaganda, né lanciare delle parole d’ordine, ma distillare delle cose, dell’informazione breve, facilmente digeribile da chi non può dedicare la propria vita né alla politica né a informarsi. Effettivamente questo è quello che ci siamo proposti, e non dico che ci sia riuscito appieno, però delle tante cose che sono state tentate negli ultimi anni, è stata la cosa più riuscita.

L’ha raccontato bene Revelli su Carta. A Venaus ci sono state due serate memorabili: una è quella più famosa della riconquista del presidio, l’altra è stata quella del convegno, che è stata impressionante. C’era piena mobilitazione, si aspettava l’attacco delle forze dell’ordine da un momento all’altro e noi con ombrelli e impermeabili pronti a tutto, forse pazzi, proponiamo un convegno. Il convegno che ricalcava il programma del volume oggi pubblicato (‘Travolti dall’Alta Voracità’). La cosa impressionante è che quando siamo arrivati là eravamo convinti che avremmo fatto una sorta di rappresentazione che non coinvolgeva la valle. Poi la gente è incominciata ad arrivare e c’erano duemila persone, la sala strapiena e fuori, sotto una nevicata incredibile, sventolavano le bandiere NOTAV e le facce e i nasi schiacciati contro i vetri di coloro che non riuscivano ad entrare.

All’inizio alcuni hanno detto che avremmo dovuto cambiare tono, non fare un convegno, ma parlar male di Chiamparino e Bresso (presidente DS della Regione, n.d.r.), ma la maggioranza di noi ha invece pensato che la gente era venuta perché aveva letto un programma, con quei titoli. Ci siamo detti: dobbiamo dargli le informazioni. Ed è stata una serata riuscitissima, con gli esperti che spiegavano con numeri e ragionamenti scientifici, ognuno nel suo settore, le ragioni della propria critica verso il progetto. Era come se stessimo dicendo: non vi parlo perché sono più bravo a parlare o perché sono un intellettuale generico, ma perché è tutta la vita che studio queste cose e sono in grado di mettere a disposizione un’informazione, che servirà a tutti noi. E’ stato commovente. E ho capito, con sorpresa, da che parte sta l’ideologia in questa vicenda; ecco il principale insegnamento che ho tratto da questa vicenda."

Il movimento NOTAV costituisce un esempio di popolo che partecipa, si informa, si prende cura del bene comune: eppure si trova di fronte una politica tutta ostile, di destra e di sinistra. Perché?

"Ce lo siamo chiesto anche noi. Dalle nostre riunioni e da analisi che in qualche caso godevano anche di informazioni parecchio dettagliate all’interno dei partiti emergevano due giudizi diversi. Un giudizio vedeva i DS troppo coinvolti nella progettazione. Storia vecchia. Chi conosce la Toscana sa che ci sono parecchi studi professionali che sarebbero morti se non avessero avuto gli studi di impatto ambientale da fare. Se questo si unisce al fatto che una delle imprese più coinvolte nel progetto TAV è la CMC, cooperativa ravennate, appaiono credibili le voci che da due anni dicono che la campagna dei DS sarebbe stata pagata proprio dagli introiti della TAV, non dell’opera ma dei sondaggi. E’ per questo che pare di capire che di sicuro non si mollerà sui sondaggi, perché quei soldi servono, mentre è poi possibile che ci sia una maggiore morbidezza per quanto riguarda la vera realizzazione. Quindi purtroppo, è triste dirlo, ma per quanto riguarda il fronte DS non riusciamo a farci venire in mente altro che non sia tutto sommato un profilo di tipo affaristico. Per quanto riguarda Rifondazione e i Comunisti italiani il discorso è un po’ diverso. Adesso sono contrarissimi, ma quando incominciò la vicenda, erano molto favorevoli. Quelli sono partiti in cui l’ideologia della pesantezza e l’ideologia antiambientale è molto radicata: si può immaginare di sostituire il profilo di una città e del territorio intorno a una città in crisi industriale con altre cose che siano molto simili, ma non si riesce a pensare a un futuro che non abbia le stesse caratteristiche. Il grande vantaggio del movimento noTAV e, in piccolo, del lavoro che ha fatto il Laboratorio a Torino e cintura, è di avere contribuito a modificare questo pensiero.

La politica professionalizzata e inquadrata nei partiti ha tempi inconciliabili con la comprensione di tempi lunghi. E proprio i tempi brevi escludono l’idea di progetto, ma anche di programma in cui si riesca a pensare a un futuro che vada oltre i sei mesi. I discorsi che emergono dal movimento antiTAV, quelli di orizzonte complessivo, non solo quelli localistici, di resistenza, non possono essere recepiti: chi vuole l’alta velocità dice di pensare a fra vent’anni, ma in realtà pensa alle commesse del mese prossimo."

E il vostro libro collettivo ("Travolti dall’Alta Voracità", ediz. Odradek) come nasce?

"Il libro l’abbiamo fatto perché ognuno di noi conosceva almeno dieci persone che non riusciva a persuadere. Il libro serviva a noi dunque per convincere persone che parevano irremovibili e poteva essere utile anche per un pubblico più largo.

Un’altra ragione è la convinzione che i veri saperi danno forza. Fa accapponar la pelle che qualcuno dica che andrà a parlare con sindaci e persone, ma costruirà ‘comunque’ la TAV. Per creare connubio fra la logica della vita buona di un futuro progettato e non di uno sviluppo conservatore è stato fondamentale documentarmi, e ho scoperto che gli altri non dicono mai: perché sì. Per me è stato una grande sorpresa, non immaginavo che fossimo a questi livelli. Lo posso dire da lettore naif, lievemente condizionato dal mio mestiere, nel senso che io voglio prove, documenti, e non li trovavo.

In questo momento tutta l’ideologia è dall’altra parte: il partito pro-TAV ragiona a priori. Quando dicono che l’opera è strategica, pensano di ‘aver detto’. Impugnano aggettivi come ‘strategico’, così come forse in anni lontani si diceva ‘egualitarismo’, e nient’altro".