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La musica popolare secondo gli Abies Alba

Un viaggio nella memoria musicale del Trentino, attraverso canti e musiche popolari. Solo che borghesi, preti, intellettuali, nel corso dei decenni hanno manomesso questo repertorio...

Quinto Antonelli

Ho qui davanti il cofanetto bianco degli Abies Alba, che si presenta con il nome del gruppo e con il sottotitolo “Musiche e canti dal Trentino”. E’ il terzo in quasi quindici anni di carriera e vuol giocare apertamente con quel suo nome arboreo (vulg. abete bianco) che rimanda al nostro territorio alpino in cui il gruppo di musicisti si sente saldamente radicato. Dentro l’involucro trovo un primo libretto ricco di immagini: alberi, strumenti musicali dovuti all’artigianato del legno, maschere fassane, opere d’artista. Quasi a sottolineare il reciproco legame e dipendenza. E poi trovo un secondo libretto dedicato alla diffusione dell’abete bianco in Trentino a cura del Servizio foreste e fauna della Provincia, ma che per ora non leggo.

Il tutto costituisce il palco e il fondale scenico dove sono collocati non solo idealmente i musicisti e la loro musica.

Ascolto il cd più volte e credo innanzitutto che dobbiamo essere grati agli Abies Alba per il fatto che di quando in quando ci ricordano che il canto popolare non è solo patrimonio dei cori di montagna e che esiste, per fortuna, un lascito di musiche strumentali della tradizione degno di essere riproposto e valorizzato (così come sono enfatizzati strumenti musicali della nostra e di altre tradizione, dalle cornamuse al corno delle alpi).

L’ascolto ripetuto, anche se non continuo, è produttivo. Mette in moto connessioni e digressioni; mi permette di compiere un itinerario.

Innanzitutto cerco di capire se posso definire in generale il carattere del disco, se c’è un senso complessivo, se nel repertorio che mi trovo ad ascoltare posso trovare un legame.

Se c’è, mi sembra stia tutto dentro l’intento antagonistico degli Abies Alba: antagonistico nei confronti di quella che Alan Lomax, in una citazione posta ad apertura di libretto, definisce come “la musica video elettronica distribuita in massa”. Così che l’operazione si realizza nell’amorevole raccolta, ripresa e cura degli scarti, di ciò che è rimasto ai margini della storia (politica, culturale e musicale) o messo da parte dalle mode di massa; di ciò che si è fossilizzato nei meandri della memoria popolare. Sono le melodie del folklore d’inizio Ottocento; manfrine, valzer, paris, balli tradizionali ripresi dai gruppi folkloristici; pezzi tratti dal repertorio mandolinistico della Compagnia del fil de fer di Meano; vecchie canzoni da cantastorie; canti antimilitaristi della prima guerra mondiale (come “Gorizia” o come “Povero disertore”, di certo antecedente, ma che in quella guerra ha avuto una sua riviviscenza.

Aggiungo, qui, una breve nota filologica. La versione degli Abies Alba, come molte altre del resto, fa dire al povero disertore sottoposto all’interrogatorio: “io mi trovavo in una foresta / ed un pensiero mi venne in testa / di non fare mai più l’alpin”. Un testo raccolto da Jahier tra i suoi soldati introduce invece attraverso una minima variante fonetica, una situazione geografica e storica del tutto diverse: “ero un giorno alla foresta”, cioè ero via, ero all’estero, ero emigrato. Introduce, in altre parole lo storico rapporto tra emigrazione e renitenza al servizio militare).

Ritornando al disco, possiamo anche sostenere che gli Abies Alba mettono insieme un repertorio di canti e musiche popolari: ma popolari “alla seconda”, di secondo livello. Popolari in quanto a destinazione, diffusione e consumo e permanenza nella memoria comune e restituzione.

Prendiamo, per capirci, una canzone come “La serva” (già apparsa sempre nell’esecuzione degli Abies Alba nel cd dedicato al Trentino - Alto Adige nella collana Tribù italiche). Presente anche nei repertori dei cori di montagna (grazie alla sua inclusione tra i “Canti popolari trentini” di Silvio Pedrotti), è il caso forse più tipico di una canzone scritta per il popolo. In altre parole è l’esito più riuscito di una pedagogia culturale rivolta al più vasto popolo trentino d’inizio novecento (per elevarlo, per civilizzarlo, per tirarlo fuori dalla sua sempre possibile e sempre pericolosa alterità, per immetterlo nella cultura comune, condivisa e, nel caso specifico, per renderlo più sensibile ai valori nazionali).

“La serva”, ovvero “I g’ho tuti ‘n tel zesto”, parole di Cesare Ravanelli e musica di Ezechiele Pontalt, viene presentata al concorso di “canzonette popolari” che si tiene a Trento il 26 giugno 1903. Giocando sul noto tema della serva-padrona (“Mi son bona; ma guai se i patroni / I se riscia tocarme en cavel; / G’ho ongie che ‘l par dei granfioni / E la lengua che ‘l par en cortel”), la canzonetta ottiene un clamoroso successo, vince il primo premio e trova una larga diffusione attraverso un foglio volante stampato dalla tipografia di Cesare Battisti.

Il concorso di canzonette popolari, ideato qualche anno prima dal Circolo mandolinistico trentino di Silvio Gottardi, era sorto con uno scopo oltremodo ambizioso: quello di creare ex novo un repertorio (dialettale, ma d’autore) capace di contrastare (quando di non soppiantare) il patrimonio musicale di quel popolo basso, composto di trivialità e di canzoni e musiche apprese nei luoghi dell’emigrazione o durante il servizio militare, tutt’altro che consono al carattere nazionale dei trentini. (Su questo e altro invito a leggere il bel libro di Mirko Saltori dedicato, nel 2003, al mandolinismo trentino).

Alla lunga l’autore più noto si rivelerà Carlo Nani con “Entorno al Sas”, “Mola zo la scaleta”, “El ven ben subit!” e tante altre canzonette popolari giustamente dimenticate.

Naturalmente l’operazione della élite borghese (liberale ed urbana) d’inizio secolo era destinata a fallire, ma “La serva”, per certa felicità e dei versi e della melodia, ha avuto il destino di popolarizzarsi per davvero, così da entrare a far parte del patrimonio tradizionale.

Tra i canti che appartengono a questo filone (popolari per destinazione, per mimetismo, per adozione, per precipitazione) metterei anche “El pù bel nom” di Pier Tomaso Scaramuzza (Cles, 1818-1883), poeta dialettale tra i più interessanti e potenti, per dirla con Guglielmo Bertagnolli che nel 1912 ne pubblicò le opere. Il canto, forse più noto come “Menegina”, che venne diffuso anche a mezzo di foglio volante, è una parodia plebea (facendo leva su similitudini e situazioni degradanti) del canto d’amore. E in questo Bertagnolli vide giustamente l’influenza della poesia di Carlo Porta (vi trovo anch’io qualche reminiscenza almeno della “Ninetta del Verzee”).

Ma la versione che troviamo nel disco è quella tremendamente scorciata (due sole strofe sulle dieci originali) presente nei repertori corali, a partire dai “Canti della montagna”, a cura della Sosat, stampato da Rizzoli nel 1935. E’ una modalità, questa, piuttosto tipica del mondo corale, che non rinuncia quasi mai a tagliare il testo secondo misure proprie e a ripulirlo da espressioni troppo crude o troppo imbarazzanti, o da riferimenti sessuali e fisiologici.

Non era quindi il caso, mi rivolgo agli Abies Alba, di recuperare (per la prima volta) il testo originale dello Scaramuzza? Con la sua “istintiva potenza poetica” e la sua antiretorica plebea? Troppo triviali (corporei) versi come questi: “An ce senti l’odor de na slofa / fumentarme sta napa acilina, / come ‘l ciagn che tra fuera la sbofa / von snasiand e cerciand se sest ti: / Meneggina! Meneggina! / una o l’aotra me ‘n mòlest aosì”? Se devo muovere un rimprovero (amichevole) al gruppo degli Abies Alba è proprio quello di costruire dischi un po’ troppo puliti (con tutto quello che un termine come questo può significare), escludendo dal proprio orizzonte il corpo popolare con i suoi desideri e i suoi bisogni fisiologici.

Nella prefazione al volume di Gianluigi Secco, dedicato alle Delizie della Passera e dell’Asparago officinale (insomma, alla sessualità così come si esprime nella cultura popolare del nord-est), Emilio Franzina nota la sconcertante povertà (apparente) delle testimonianze canore di sicura ascendenza trentina. E ne appunta la responsabilità, ancora una volta, all’egemonia delle versioni coreutiche alpine di Sosat e Sat. Forse è un’affermazione che andrebbe articolata, ma è certo che in molti si son messi a ripulire le espressioni culturali di questo nostro popolo: i liberali d’inizio secolo per educarlo all’italianità, i preti che lo volevano devoto, gli intellettuali che lo chiudevano entro gli schemi di un’etica alpina.

Eppure, a ricerche fatte, era ancor vivo anche nel Trentino (almeno fino a poco tempo fa) un rigoglioso immaginario sessuale non diverso da quello veneto. Possiamo sperare che in un prossimo futuro l’antagonismo degli Abies Alba si possa piegare a riprendere anche qualche canto d’osteria?

Per finire, il citato libro di Gianluigi Secco, edito da Soramair nel 2005, è una sorta di enciclopedia dedicata, come recita il lungo e riassuntivo sottotitolo, al “mondo della sessualità nelle espressioni orali della cultura popolare - proverbi, indovinelli, modi di dire, blasoni, frottole, racconti, poesie e canti - con particolare riferimento al nord-est ovvero alle Tre Venezie, Istria e zone di emigrazione”. Al volume è allegato un cd in formato Mp3 con le versioni sonore di 280 brani.