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Quant’era bello il Trentino che fu

Nove brevi racconti scritti con passione.

E’ un bel libro, quello di Giorgio Jellici. Nove brevi racconti, scritti con passione e con un’abilità linguistica, una padronanza piena e matura della scrittura, che francamente non ti aspetti da un dilettante, da un manager internazionale che si mette a scrivere un libro.

Invece Jellici supera con il massimo dei voti la prova, e con la lode. I suoi racconti rievocano il mondo contadino-alpestre di Pergine e soprattutto la Moena della sua infanzia, gli anni ’40 e ’50; con divagazioni indietro nel tempo, a parlare dei suoi avi, e in avanti, a proiettare le inquietudini della sua maturità. Sono sempre racconti minimali, con vivaci dialoghi talora in dialetto, di cui coglie le diverse sfumature locali, a descrivere scene di vita familiare, o personaggi di contorno sulla scena della vita, come il Destürbo con le sue castagne o il Mario con i perseghi destàca. Ed è proprio lì dove Jellici insiste: nella quotidianità, nell’apparente insignificanza degli eventi, nella sommessa umanità di personaggi che l’odierno efficientismo ha cancellato, e che anche allora da molti venivano compatiti come "poveri diavoli".

Dall’insieme di questi episodi, Jellici ricava un affresco: sulla civiltà contadina, sulle genti di montagna, su un’umanità in simbiosi con l’ambiente e in pace con se stessa. Il lettore viene condotto per mano, nelle baite, nelle cucine, tra i discorsi delle donne, la sollecitudine ruvida ed affettuosa degli uomini, i conflitti storici solo riecheggiati attraverso i discorsi di famiglia, come i batti/ribatti tra il padre austriacante e la madre battistiana.

E’ una esperienza piacevole e istruttiva.

Ma quanto di questo mondo è stato realtà, e quanto è ricordo trasfigurato? Nel leggere i "Nove racconti" mi sono trovato immerso, cullato nel dolce Trentino evocato da Jellici; per poi scuotermi, allo stridìo improvviso di alcune brevi, icastiche invettive. Contro la piana di Pergine oggi deturpata, Moena stravolta, la civiltà contemporanea, che tuttoha cambiato e travolto.

Tutte cose giuste, argomenti sacrosanti, su cui anche sulle pagine di questo giornale tanto dibattiamo.

Secondo dopoguerra: la pausa di mezzogiorno in galleria durante la costruzione di una centrale elettrica.

Però, calma: siamo sicuri che quella che ci siamo lasciati dietro fosse la società perfetta? Era l’Arcadia dei pastorelli felici? Ho pochi anni meno di Jellici, e alcune cose me le posso ricordare degli anni ’50 nelle nostre valli, ed altre le ho apprese, su quegli anni e sui precedenti. Così non posso non ricordare le contadine col gozzo, ributtante emblema di una miseria estrema; o la pellagra, autentico flagello delle nostre valli, dovuto a malnutrizione; o la piaga dolente dell’emigrazione; o i miei nonni paterni, morti di stenti; o i tanti, tristissimi ubriaconi. La somma di miseria e autoritarismo patriarcale poteva essere durissima sulle donne: ricordo una poveretta, gozzuta, che a volte nel campo smetteva di lavorare e si fermava, in piedi, a pensare a se stessa; e a piangere a dirotto. (Non sono solo miei ricordi: bensì memoria collettiva, spesso trasformata in spauracchi, agitati non a caso con successo da chi al contrario propugna una modernità arraffona e sregolata).

Di tutto questo invece Jellici non parla; sono cose che semplicemente non vede. La sua infanzia felice, in una famiglia serena, sobria ma benestante, gli fa rievocare un mondo solo idilliaco, pressoché perfetto.

E’ un bel ricordo; che può anche esserci utile, che dobbiamo tenere a mente. Perché rispecchia una parte, vera e positiva, del nostro passato, cui sarà bene riferirsi. Tenendo però presente che della nostra storia è solo una parte.