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“Richard Löwy, un ebreo a Moena”

Giorgio Jellici, Richard Löwy, un ebreo a Moena. Vigo di Fassa-Moena, Istitut Cultural Ladin, 2004, pp. 202, 16.

"La fontana è ancora gelata". Così scrive Martha, da Soraga, nel gennaio 1941, al fratello Richard, internato dal fascismo nel campo di concentramento di Petrella Tiberina, in Molise. A Martha la dittatura, ("benigna", direbbe il capo del governo italiano di oggi) ha concesso di restare in Val di Fassa ad assistere la vecchia madre malata, mentre internati ("in villeggiatura"), lontani, sono il marito, il fratello, la cognata. Sono mesi di separazione, di impazienza, di inquietudine. Ma "non importa che io debba portare l’acqua da lontano basterebbe che voi foste qui", aggiunge nell’attesa del ritorno.

Quella fontana gelata è invece la metafora di un destino crudele che si avvicina a grandi passi. Lo sappiamo noi che leggiamo, concentrata in un giorno, la storia di anni. I protagonisti che vivono, e scrivono lettere, oscillano fra speranza e disperazione. Ma la fontana gelata ci par di vederla già negli occhi di Richard e Martha, ragazzi. E’ uno sguardo che dal loro presente trapassa gli anni, e punta diritto alla meta di Auschwitz. Non sanno quale male li aspetta, ma vi è impresso il male immane a cui li prepara la storia. Perché proprio i fratellini Loewy, cresciuti, diventeranno un pericolo? Esseri inferiori? Contaminatori della "pura razza italiana"? "Ridicolo", commenta, oggi, l’autore.

Richard Löwy, ebreo, nasce in Boemia, in un borgo vicino a Praga, nel 1886. Cittadino dell’Impero Austro-Ungarico, studia a Vienna, dove si laurea in ingegneria civile, e si sposa con Johanna Liebgold, farmacista. Allo scoppio della prima guerra mondiale viene inviato, come ufficiale, sul fronte italiano. A Moena, comanda il reparto del genio militare, la "K.u.k. Bauleitung", dal 1914 al 1917. Si impegna a procurare cibo e lavoro agli uomini e alle donne della valle, per rendere meno pesanti quegli anni di guerra. Dalla popolazione è così benvoluto che, al momento della partenza, viene proclamato dal Consiglio Comunale cittadino onorario. A Moena è però costretto a tornare, con i parenti, da rifugiato, per sfuggire alle persecuzioni naziste, nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania.

Nel 1940, dopo l’approvazione delle leggi razziali fasciste, è internato per quattro mesi in Molise. Dopo l’8 settembre 1943 la macchina mortale della "soluzione finale" si mette in moto anche in Italia. A Someda, l’ultimo rifugio, l’ingegnere ebreo è scoperto e arrestato dai tedeschi il 4 gennaio del 1944, insieme con la moglie, la sorella Martha, il cognato Hermann Riesenfeld. Da Trento, un mese dopo, è trasferito al campo di Fossoli, e da lì, il 22 febbraio, con il convoglio 08, lo stesso di Primo Levi, è deportato ad Auschwitz, dove, con i familiari, è ingoiato nella Shoah.

La storia è raccontata da Giorgio Jellici con "l’entusiasmo e l’emozione" di chi, da bambino, ha conosciuto a Moena Richard Löwy. E oggi, cittadino del mondo, consulta archivi e lettere, ascolta memorie degli anziani, legge ponderosi volumi, per dare testimonianza. Il segreto della salvezza è "ricordare", scrisse Baal Shem Tov, fondatore dello Chassidismo, il movimento mistico ebraico del Settecento. E Giorgio Jellici racconta, documenta, si interroga su quanto è successo.

Colpisce la molteplicità delle lingue che incontriamo nel libro. L’italiano della narrazione. Il tedesco dei documenti d’archivio. Il boemo dei luoghi d’infanzia. L’ebraico dei nomi propri. Il ladino delle interviste agli anziani, e della presentazione a cura dell’Istitut Cultural Ladin da Moena. E le parole tedesche, francesi, inglesi, latine e ladine, che l’autore, Giorgio Jellici del Garber, inserisce, necessarie, nel raccontare questa storia straordinaria che si svolge fra Moena e l’Europa.

In uno scenario ampio e ristretto, lungo una storia breve e lunghissima. Le lingue, diverse, distinguono ciò che nella tragedia sembra unificato. E uniscono protagonisti che credono di recitare sul palco, diversi. Le lingue sono fili che legano, e fili che feriscono, tagliano.

Nella prima parte, quella in cui, nonostante la guerra, Richard Löwy può guardare con speranza al futuro, l’autore attorno alla lingua tedesca talvolta sorride, con ironia. L’acronimo K.u.k., Kaiserlich und koeniglich, significa imperiale e regio, dove "regio" si riferisce al Regno d’Ungheria, di cui l’Imperatore d’Austria è anche re, mentre nel più breve K.k., Kaiserlich koeniglich, cioè imperiale regio, il "regio" si riferisce ai Regni di Boemia, Galizia e Dalmazia. Quando invece si parla di "soluzione finale", Endloesung, la commozione pervade il racconto.

Richard e Martha bambini.

E come riassumere meglio che in latino la lunga storia di oppressione antiebraica, lo jus de non tolerando Judeos, quando le città impedivano l’accesso agli ebrei? Mentre le parole di Marcel Proust esprimono meglio di tutte il rimpianto per il mondo scomparso della Mitteleuropa: le vrai paradis c’est le paradis perdu. L’8 settembre è il rebalton.

Talvolta, per un tedesco, l’italiano è di ostacolo, ma Richard non si ritrae, perché sa quanto, a casa, a Moena, attendono sue notizie, prima dal campo di internamento in Molise, poi dalle carceri di Trento: "Se potessi scrivere in tedesco, scriverei di più, ma scrivere in italiano è troppo difficile per me di esprimere quello che vorrei dire." E la moglie Giovanna attende la "meraviglia" della liberazione, che è la traduzione graziosa del tedesco "Wunder", miracolo.

L’urgenza del comunicare spinge in un’occasione un operaio a protestare, per essere stato derubato della sua razione di formaggio proprio dal cane dell’ingegnere Löwy, e usa un buffo linguaggio misto di ladino e tedesco: "Herr Lewy! Vosc cagnoto Hund l me à robà fora de la giacheta halb kilo formai-Kes! Morghen e ibermorghen me tocia la magnar suta! Muss paiar!"

Noi non sappiamo se l’ingegner Loewy e i suoi parenti sono giunti ad Auschwitz. Qualcuno a Moena pensa che i quattro detenuti si siano suicidati durante il viaggio. Maria Felicetti, un’amica, racconta che Johanna le aveva mostrato un anello con l’occorrente per suicidarsi: "Chigiò è l velen. No voi -la disc- no voi ruar en Germania. Schichè i saeva la fin che i aesse fat! scì scì, i saeva, i saeva".

Giorgio Jellici racconta con emozione la solidarietà dimostrata dagli abitanti all’ing. Löwy e ai suoi familiari, negli anni che vissero a Moena da rifugiati. Era uno di noi, ripetono in molti. La protezione era la ricompensa per ciò che il giovane ufficiale austriaco aveva fatto di bene durante la grande guerra. L’autore esclude che qualcuno l’abbia denunciato in quanto ebreo ai tedeschi. I nomi degli ebrei erano segnalati da tempo al Ministero dell’Interno. I ladini, gente di montagna, piccola minoranza alle prese con italiani e tedeschi, praticano da tempo la "democrazia", l’autogoverno locale: c’è questa realtà storica dietro il rifiuto dei moenesi ad abbandonare gli ebrei, e dietro il rischio corso nell’aiutarli.

Ma, da storico serio, dà voce anche a chi dubita. E’ Giacomin Ganz che afferma: "Una domanda nasce a questo punto: Vi fu qualcuno che fece la spia?" Forse non era destino che l’ingegnere filosofo, e i suoi familiari, con quegli occhi, fin da bambini, fossero rapiti alla vita da quella morte. "Non so perché Dio ci castiga così duro. … Siamo in miseria senza colpa":sono le parole delle ultime lettere scritte dal carcere di Trento.