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La guerra infinita

Iraq-USA cinque anni dopo.

Rodrigo A. Rivas

Il 23 marzo 2008 sono trascorsi cinque anni dall’invasione e occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e dai "volenterosi" integrati in una coalizione improvvisata formata da una ventina di Paesi, la cui partecipazione, a eccezione del Regno Unito e, secondariamente, dell’Italia, è stata piuttosto "discreta", per non dire simbolica.

La fase iniziale dell’intenso attacco militare è durata poco meno di otto settimane. Nel maggio 2003, in seguito alla presa di Baghdad, a bordo di una portaerei, con le braccia alzate in stile profetico e con un sorriso a 42 denti, il presidente Bush dichiarava: "La missione è stata compiuta". Tuttavia, se l’invasione era stata facile, l’occupazione è diventata un incubo come dimostra, a cinque anni di distanza, il saldo di questa avventura.

Domenica 23 marzo 2008, esattamente 5 anni dopo, sono morti altri quattro soldati statunitensi e il loro numero è arrivato a quota 4.000. Nel frattempo, l’Inghilterra ne ha persi 175, il resto della coalizione 173. Per quanto riguarda le perdite statunitensi, il 97% sono avvenute dopo che Bush aveva proclamato la vittoria. Lo stesso vale per gli altri Paesi coinvolti.

Nel contempo, secondo le stime delle autorità statunitensi, sono morti circa 100.000 civili iracheni. Non disponiamo di altre, più credibili fonti di informazione. Tuttavia, secondo un rapporto elaborato dai medici distaccati in Iraq, in collaborazione con esperti di salute pubblica dell’università John Hopkins di Baltimora e del Massachussets Institute of Technology (Mit) di Boston, pubblicato il 14 ottobre 2006 dalla rivista britannica The Lancet, una tra le più prestigiose pubblicazioni mediche del mondo, già a quella data i morti iracheni erano ben 654.965. La contabilità si fermava al luglio 2006, quando i morti provocati solo dalla violenza diretta - pallottole, bombe e bombardamenti aerei - erano stati oltre 601.000. Date queste cifre, non sembra azzardato il milione di vittime irachene indicato da diverse associazioni che operano in Iraq.

Tuttavia, la contabilità non si ferma ai morti e agli scomparsi. Bisogna, infatti, sommare gli iracheni espulsi dalle loro abitazioni. In questo caso, disponiamo di cifre più precise: nel 2003 l’Iraq aveva una popolazione di quasi 26 milioni di persone. Di queste, un quinto, ossia oltre 5 milioni di persone, è stato costretto a scappare, rifugiandosi all’interno del Paese o all’estero, soprattutto in Siria e Giordania. Si tratta del maggiore movimento di persone nel dopoguerra (il secondo è quello derivato dalla guerra civile colombiana, con oltre 3,5 milioni di persone costrette alla fuga, ma in un lasso di tempo maggiore).

Quanto costa la guerra in Iraq? Secondo le fonti ufficiali statunitensi, si spendono circa 100 miliardi di dollari annui. Si tratta di una cifra imponente, quasi tre volte l’ultima finanziaria italiana, ma la somma reale è assai superiore.

Subito prima dell’inizio della guerra, l’allora Segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, dichiarò che la guerra sarebbe costata tra i 50 e i 60 miliardi di dollari. Quindi, la prima constatazione è che cinque anni dopo Washington afferma ufficialmente di avere speso 10 volte quella cifra. Tuttavia, una cosa sono le spese dichiarate nei budget che la Casa Bianca sottopone periodicamente all’approvazione del Congresso e un’altra, molto diversa, risulta dal considerare le spese nascoste o invisibili, che non compaiono nei conti ufficiali. Quest’ultima contabilità è stata analizzata da Joseph E. Stiglitz e Linda J. Bilmes in un loro libro appena pubblicato: "The three trillion dollar war: the true cost of the Iraq conflict". Ovvero, "La guerra dei tre mila miliardi di dollari: il vero costo della guerra in Iraq".

Scrive Stiglitz, già premio Nobel per l’Economia, statunitense, ex consulente di Bill Clinton, ex vicepresidente della Banca Mondiale, attuale consulente di Sarkhozy: "L’avventura del presidente Bush costerà agli Stati Uniti una quantità di denaro che, al ribasso si può calcolare in tre milioni di miliardi di dollari… Per il resto del mondo rappresenterà altri tre milioni di miliardi di dollari. Questo calcolo considera non soltanto il budget giornaliero, mensile e annuo, dell’occupazione statunitense dell’Iraq, ma anche la spesa che deriverà dal pensionamento dei soldati, dalle pensioni ai familiari dei militari uccisi e dai servizi medici per i feriti di guerra durante i prossimi 50 anni… Ad esempio, sia le spese per retribuire le truppe di appoggio alle unità di combattimento, sia le spese per le guardie private, arrivano a 400.000 dollari annui pro capite, contro i 40.000 dollari percepiti, in media, dai soldati… Il finanziamento dei Paesi terzi deriva dal deficit con cui opera Washington che fa sì che gli Usa ricorrano al credito esterno che li costringerà a una spesa per interessi che si aggirerà attorno a un milione di miliardi di dollari fino al 2017".

Poiché, comunque, a qualcuno potrebbe ancora sembrare che siano calcoli troppo di parte, conviene ricordare che, commentando il già citato articolo di The Lancet, il Washington Post aveva scritto il 16 ottobre 2006: "Oltre 20.000 soldati statunitensi sono stati feriti in combattimento dall’inizio della guerra".E lo stesso giornol’Agenzia Reuters (inglese) aveva reso noto che "a questa data, sono morti in Iraq almeno 647 persone con contratti civili (cioè mercenari, n.d.r.), che lavorano in appoggio alle operazioni militari statunitensi". E il National Security Archive (statunitense) precisava il 17 ottobre 2006: "Uno ogni quattro veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan ha richiesto di entrare a far parte dei programmi di assistenza federale per disabili".

Nonostante tutto ciò, il tema Iraq ha inciso relativamente poco nella campagna presidenziale statunitense, poiché gli elettori sono più preoccupati della crisi economico-finanziaria in corso. Tuttavia, i candidati hanno definito quale sarebbe la loro politica al riguardo (il condizionale è d’obbligo poiché bisogna considerare che le loro dichiarazioni non necessariamente saranno di fatto attuate).

Nel corso di una sua visita nella regione ai primi di marzo 2008, il senatore John McCain ha dichiarato che era molto soddisfatto dalla posizione che aveva assunto un anno fa, quando tutti consideravano morta la sua candidatura. Nel 2007 McCain aveva appoggiato un importante incremento del numero di soldati statunitensi per meglio controllare determinate regioni e quartieri di Baghdad e per convincere la popolazione sulla bontà della presenza militare statunitense. Secondo Bush e l’artefice di questo piano, il generale David Petraeus, la situazione in Iraq è notevolmente migliorata nell’ultimo anno. Sempre secondo loro (nonché secondo alcuni "analisti" italiani), le bombe sono molto diminuite. Sarebbero diminuiti anche i morti, pur se ancora esistono luoghi dove questi benefici effetti sono meno visibili. Ciononostante, nell’ultima settimana di marzo 2008 gli scontri fra le truppe del governo e le milizie sciite di Al-Sadr hanno provocato, ufficialmente, 580 morti e un migliaio di feriti in combattimenti. Qualcosa non quadra.

I candidati democratici si pronunciano, invece, per un ritiro delle truppe dall’Iraq. Il senatore Barak Obama, che si è opposto alla guerra fin dall’inizio, ha detto che, se arriva alla Casa Bianca, ordinerà l’immediato ritiro delle truppe. Questa posizione è appoggiata dalla maggioranza dei democratici; e quando la senatrice Hillary Clinton se n’è resa conto, ha modificato la sua posizione. Inizialmente aveva proposto un ritiro a scaglioni, che doveva realizzarsi in diverse tappe e che avrebbe avuto inizio diversi mesi dopo aver assunto la presidenza. Ora, la sua posizione è quasi identica a quella del senatore dell’Illinois.

Per quanto riguarda l’amministrazione Bush, nell’ultimo anno sono state dibattute due ipotesi: la prima - marginale - è stata quella del ritiro delle forze della coalizione dall’Iraq; la seconda - assai più consistente - quella di un possibile attacco aereo all’Iran "per distruggere le sue installazioni nucleari". La prevalenza dell’ipotesi del possibile attacco all’Iran ha costretto l’ammiraglio William J. Fallon, comandante delle forze statunitensi nel Medioriente, a rinunciare al suo incarico l’11 marzo 2008 perché "in disaccordo con i politici che insistono nel voler bombardare l’Iran". Uno di questi politici è il vicepresidente Dick Cheney. Durante un suo viaggio in Medioriente, domenica 23 marzo 2008, Cheney ha incontrato diversi dirigenti israeliani e, a quanto riferisce la stampa israeliana, nella sua colazione col leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu, non si parlò affatto della deplorevole situazione dei palestinesi nei territori occupati: il tema dominante della conversazione è stato, per l’appunto, quello del possibile attacco all’Iran.

Come abbiamo detto, in quest’anno di campagne presidenziali gli elettori statunitensi sono interessati soprattutto ai problemi interni. Cercano un candidato che migliori la situazione economica. Vogliono anche che il nuovo presidente diminuisca le spese sanitarie personali (aumentando quelle pubbliche), protegga l’ambiente, diminuisca il costo dell’energia e riformi il sistema educativo, tutti capitoli sui quali l’amministrazione Bush si conclude con fallimenti clamorosi.
Tuttavia, dovrebbero bastare i pochi dati accennati per concludere che, se alla crisi economica in corso si aggiungono i costi, economici e politici, della situazione in Iraq, si può prevedere che il nuovo presidente degli Usa avrà un difficile, per non dire impossibile, inizio di gestione.

Ovvero: se mandare a casa Bush è una necessaria operazione sanitaria, il più sarà ancora da fare.