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QT n. 8, settembre 2009 Servizi

Porfido fra crisi e furberie

Una situazione difficile aggravata da inosservanza delle regole, conflitti d’interesse, sprechi e sfruttamento.

Sandro Gottardi

Com’è ovvio, in un mondo come il nostro dove tutto è collegato, anche il settore del porfido, in valle di Cembra, sembra essere colpito sempre più pesantemente dagli effetti della crisi economica mondiale.

Nella cronaca di agosto, la stampa locale ha riportato un susseguirsi di notizie piuttosto allarmanti per quanto riguarda le prospettive future del comparto. C’è stata la vicenda della “Laite porfido” di Albiano, che da un giorno all’altro ha licenziato i suoi 10 dipendenti lamentando insostenibili difficoltà di mercato. Per la stessa ragione, altre 13 ditte hanno richiesto due settimane di cassa integrazione straordinaria, prolungando le ferie ai propri dipendenti.

C’è stato, infine, l’intervento della Magistratura con il sequestro temporaneo di alcuni cantieri nei comuni di Lona Lases e Fornace, con conseguenze ancora da definire per decine di lavoratori. L’aspetto più preoccupante, tuttavia, è il lento stillicidio di licenziamenti con quasi 200 posti di lavoro persi, senza alcun clamore, in poco più di un anno. Vista la situazione si potrebbe pensare, un po’ cinicamente, che tutto questo sia quasi inevitabile e rappresenti il prezzo da pagare per tentare di ripartire.

Il settore del porfido è però caratterizzato da una sorta di peccato originale che lo accompagna fin dalla nascita e ne determina, in fasi come quella che attraversiamo, una grande fragilità e vulnerabilità.

La sua struttura produttiva si è sviluppata in maniera disordinata, senza una strategia globale ed una visione unitaria e d’insieme, favorita anche dall’assenza o dall’inefficacia di un quadro normativo di riferimento. Un contesto dove, molto spesso, la furberia è diventata il modus operandi preferito dall’imprenditoria locale, come dimostrano, per esempio, le gravi inadempienze che hanno determinato gli interventi della magistratura.

Esso è caratterizzato da un’estrema frammentazione, con un numero così elevato di piccole aziende da pregiudicare uno sviluppo efficace e razionale dell’attività estrattiva nel suo complesso. Una totale subordinazione agli interessi particolari ed immediati dei concessionari, che ha consentito loro enormi guadagni senza grandi preoccupazioni per i danni e gli effetti a medio e lungo termine.

Un piccolo passo in avanti, che permetterebbe una razionalizzazione notevole, potrebbe essere l’aggregazione delle attuali concessioni in macro-lotti da coltivare in maniera associata. Questo, oltre a ridurre il peso degli investimenti (per esempio pale meccaniche, camion, ecc.) darebbe finalmente la possibilità di progredire con gli scavi, coltivando i giacimenti nel modo più razionale possibile, al di là di come essi sono suddivisi tra i diversi affittuari. Inoltre, potrebbe consentire delle strategie di mercato e di vendita molto più incisive ed efficaci rispetto a quelle che le singole aziende possono adottare così come sono strutturate oggi. Tante volte (forse troppe) è stato annunciato un salto di qualità che però non è ancora arrivato.

Nemmeno l’approvazione della nuova legge provinciale del 2006, con la nascita del “Distretto del porfido e della pietra trentina”, ha minimamente influito rispetto a quello che rimane il problema di fondo che abbiamo evidenziato.

Le cave pubbliche sono state fin qui gestite come se fossero dei beni di famiglia e non, invece, come dei beni collettivi dati in concessione. I titolari sono gli stessi “dall’anno zero” e con molta probabilità saranno coloro che le gestiranno fino a quando scavare montagne sarà ancora conveniente.

I canoni di affitto sono decisamente sotto il valore di libero mercato, definiti attraverso coefficienti piuttosto che con aste pubbliche (forse nell’unico caso di lotto concesso con licitazione privata, la ditta vincitrice ha offerto ben il 211% dei canoni medi della zona).

Infine, le amministrazioni comunali, che hanno diverse funzioni importanti nella gestione delle cave, sono direttamente o indirettamente guidate da imprenditori del settore e questo, per quanto legittimo sul piano formale, appare discutibile su un piano sostanziale, rappresentando un palese conflitto di interessi che certamente non può essere risolto con l’uscita temporanea dall’aula consigliare per incompatibilità.

Gli avvenimenti citati in apertura sono emblematici proprio in questa chiave. Testimoniano cioè, come la mancanza di una visione d’insieme, accanto all’inefficacia di un sistema di regole e di vincoli precisi, determini una serie di squilibri tali da moltiplicare gli effetti, già di per sé pesanti, della crisi.

Questo sostanzialmente è successo nel caso della “Laite porfido” di Albiano, che il 27 luglio scorso comunicava ufficialmente e senza alcun preavviso la chiusura delle attività per crisi di mercato e quindi il licenziamento dei 10 dipendenti (in seguito rientrato dopo un accordo tra le parti).

Questa ditta opera nella zona estrattiva del monte Gorsa, circa a metà strada tra Lases e Albiano dove, da circa un anno, è entrato in vigore il nuovo piano cave pluriennale. Secondo i titolari, il lotto loro assegnato non era più economicamente appetibile per il modo nel quale erano stati coltivati i lotti cava contigui (vedi L’Adige del 7 agosto). Come questo sia possibile, vista la recente approvazione dello strumento che dovrebbe pianificare gli scavi per altri due decenni, si spiega solo nel quadro fin qui delineato.

Un secondo aspetto che accentua gli effetti della crisi, soprattutto sul piano occupazionale, è legato allo spostamento verso forme di lavoro autonomo in subappalto che ha caratterizzato il mondo del porfido negli ultimi anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di artigiani costretti ad acquistare il materiale grezzo da lavorare a prezzi e condizioni non trattabili e a rivendere il lavorato sostanzialmente con le stesse modalità, non avendo lotti cava in concessione, né una rete di vendita propria. Non di rado pagano l’affitto per il capannone e le macchine alle stesse aziende delle quali spesso, paradossalmente, erano stati dipendenti. Per avere dei margini di guadagno hanno dilatato notevolmente l’orario di lavoro, che si protrae sistematicamente per più di dieci ore, sabati compresi. Non creano problemi di sorta; non scioperano, non si lamentano e soprattutto non rappresentano più dei costi e dei vincoli per nessuno, se non per loro stessi.

Questa riorganizzazione ha avuto come primo effetto quello di vanificare gli sforzi per migliorare le condizioni di lavoro e per rendere meno pericolose e nocive molte lavorazioni anche attraverso l’adozione di macchinari e dispositivi di protezione innovativi. Inoltre, fatto più importante, questo ha reso possibile una sorta di disimpegno, per i concessionari, che li ha sottratti a qualsiasi responsabilità anche a livello sociale. Senza dipendenti direttamente assunti è certamente più agevole gestire la crisi scaricando tutti i problemi in basso sulla catena del subappalto.

A permettere tutto ciò contribuisce in maniera determinante l’inefficacia del divieto di vendita del materiale grezzo, il cosiddetto “tout venant”, vero motore di queste dinamiche perverse. Fino ad oggi, infatti, tale divieto è stato aggirato con facilità, anche perché i controlli hanno lasciato molto a desiderare. A questo proposito fa quasi sorridere che l’ASUC di Tressilla, proprietaria di alcuni lotti nella zona estrattiva di S. Mauro, abbia dovuto assumere un investigatore privato per documentarne la vendita illegale, nonostante le ripetute denunce ai servizi competenti.

Anche in questo caso, una soluzione piuttosto semplice e in grado di intervenire sia sulla tutela della manodopera e sia per impedire la vendita del materiale grezzo, potrebbe essere quella di vincolare in maniera precisa le volumetrie di scavo previste per ogni concessione ad un certo numero di dipendenti assunti regolarmente dal concessionario stesso. Ciò costringerebbe le imprese ad una giusta e doverosa responsabilità sociale ed imporrebbe al contempo una maggiore tutela per un bene comune non rinnovabile com’è quello che si scava in valle di Cembra.

In questa prospettiva è però necessario che un organo super partes (e non può che essere la Provincia per le ragioni accennate sopra) faccia finalmente prevalere l’interesse generale attraverso una seria pianificazione ed una gestione oculata e lungimirante dei giacimenti.

Un ruolo politico forte, quindi, capace di imporre il rispetto degli accordi sottoscritti e delle regole esistenti, in particolare per quanto riguarda la tutela dei posti di lavoro.

Forse ciò non basterà a garantire un futuro per il settore estrattivo; certo è che, proseguendo ancora sulla strada attuale, quanto succederà in futuro sarà esattamente identico a ciò che è successo in passato. Ognuno continuerà a fare un po’ ciò che gli pare ed anche la crisi sarà solo un’altra occasione per qualche furberia.