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QT n. 6, giugno 2010 Servizi

Ci scippano l’acqua!

Successo di adesioni al referendum contro la privatizzazione dell’acqua

In meno di un mese (ma la raccolta continua fino a luglio) ha già raccolto 680.000 firme (6.500 in Trentino), ben oltre le 500.000 necessarie per l’indizione di un referendum la campagna Acqua pubblica ci metto la firma, indetta dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, per cancellare non solo l’ultimo passaggio legislativo sull’argomento (quel decreto Ronchi convertito in legge nel novembre 2009, che obbliga ad una privatizzazione diciamo pure “violenta” dei servizi idrici tra il 2011 e il 2015), ma anche passi fondamentali precedenti di quel lungo e strisciante percorso (bipartisan) verso la privatizzazione dell’acqua che prende le mosse dalla legge Galli del 1994.

L’ondata straripante delle adesioni, che fa sì che basti mettere in strada banchetti di raccolta-firme per avere le code dei cittadini che vogliono firmare, ha superato addirittura quelle degli storici referendum su divorzio ed aborto, che sono rimasti più a lungo di questa volta con il fiato sospeso sul raggiungimento del numero di firme necessarie, nonostante allora ci fossero in campo solide organizzazioni sociali e politiche, mentre oggi solo un coordinamento di comitati praticamente sconosciuto dai mezzi di comunicazione - che difatti non se ne occupano per niente - ma evidentemente non ignoti ai cittadini, che usano questa proposta referendaria per esprimere il loro scarso gradimento per le attuali modalità di gestione dei servizi collettivi, e sulla “moda” di caricare sempre più i costi che gravano sulle spalle degli utenti, aprendo invece la strada a chi vuol fare profitti (sempre più difficili da realizzare, a causa della crisi, sul mercato delle merci da bisogni indotti) su necessità primarie come l’acqua, un elemento essenziale alla vita di ognuno (noi umani siamo acqua al 70% al momento della nascita, e senza acqua non duriamo più di qualche giorno, quindi gli affari una volta privatizzato questo monopolio naturale sarebbero in prospettiva garantiti e stratosferici, ben oltre quelli storici del petrolio).

Un decennio di privatizzazioni

In Italia sono più di quindici anni che qualcuno prova a gestire i servizi idrici mettendo sul mercato al miglior offerente la gestione dell’acqua - la prima prova di “privatizzazione” dell’acqua è l’affidamento sul mercato dell’Ambito idrico di Arezzo, quattro anni dopo l’approvazione della legge Galli - secondo un processo che possiamo sintetizzare schematicamente (semplificando la molteplicità dei percorsi, ma per coglierne la sostanza) nel passaggio dalle vecchie Aziende municipalizzate (perfettamente trasparenti dal punto amministrativo, tanto da collocare il proprio bilancio all’interno di quello comunale), a delle Spa inizialmente a capitale totalmente pubblico (che però spostano la questione dal campo del diritto pubblico a quello commerciale privato, garantendo in questo modo la trasformazione del bene comune acqua in bene economico mercificato), per poi aprire al capitale privato (il decreto Ronchi impone che sia “almeno” il 40% e che abbia compiti operativi, e la trentina Dolomiti Reti, che gestisce il 40% delle utenze provinciali, è già molto prossima a questi standard, avendo il capitale privato al 38%), per poi portare infine queste Spa in borsa, dove qualunque controllo diverso da quello del mercato è puramente illusorio, perché l’acqua finisce nelle mani della speculazione finanziaria, ed aprendo la via ad ulteriori processi di vendita e fusione che allontanano sempre più i servizi idrici dal possibile controllo del cittadino. A tutto ciò si aggiunga che, secondo alcune indiscrezioni, si vorrebbe impedire ai Comuni di partecipare alle società pubbliche erogatrici di servizi.

Gli effetti di questo quindicennio di sperimentazione privatistica nel nostro paese non sono per niente felici. La principale motivazione dell’apertura al capitale privato è stata che questo avrebbe portato capitali freschi per gli ammodernamenti e le manutenzioni, ma è avvenuto esattamente il contrario: nel periodo 1986-1995 (quando l’ingresso nel settore del capitale privato non era ancora iniziato) gli investimenti sono stati 2 miliardi di euro, mentre nel periodo successivo 1996-2005 (con le multinazionali dell’acqua che vincevano le assegnazioni dei servizi idrici intrecciandosi, secondo le modalità del pubblico/privato, alle Spa di origini pubbliche) sono scesi ai 700 milioni (dati ISTAT e Coviri, citati anche nell’articolo di Andrea Greco su La Repubblica del 6.2.2010). Mentre crescevano i costi dell’acqua per gli utenti, del 68% - ben oltre l’inflazione - nel 1998-2008 secondo una indagine di Federconsumatori (illustrati anche sul periodico della cooperazione trentina Cooperazione tra consumatori del 17 marzo 2010, p.11).

La situazione in Trentino

Ma se questa è la situazione italiana, come siamo messi in Trentino? La PAT ha competenza primaria sull’acqua, ed un contraddittorio ordine del giorno del Consiglio Provinciale, il n.105 del 17 dicembre 2009, impegnava la giunta ad “impugnare, se necessario o utile, dinanzi alla Corte costituzionale la disciplina contenuta nel decreto-legge... a difesa delle competenze provinciali, sancite dallo Statuto di Autonomia”. Ma come valutare il “necessario o utile”, e utile per cosa?

In realtà il percorso di privatizzazione dei servizi idrici in Trentino non ha differenze sostanziali da quello del resto d’Italia. La gestione dei servizi idrici (come degli altri servizi pubblici locali) da noi è stata regolata prima da una legge regionale sull’ordinamento degli enti locali, la n.1/1993, poi dalla legge provinciale n.6/2004. Per entrambe è possibile la gestione dei servizi idrici in forma diretta, tramite azienda pubblica/ente economico, tramite soggetti terzi (privati) individuati con gara pubblica, o tramite Spa totalmente pubbliche, ma per le gestioni miste pubblico/privato nella legge provinciale del 2004 è significativamente saltato il vincolo della “influenza pubblica dominante”, dimostrando la volontà politica provinciale di privatizzazione, e se questa volontà non si è ancora completamente realizzata è solo perché la legge provinciale del 2004 non è ancora stata applicata per mancanza del regolamento attuativo.

Concretamente, in questo momento, in Trentino il 54% degli utenti dei servizi idrici civili sono serviti da gestioni dirette in economia dei comuni, mentre gli altri sono serviti da Spa o totalmente pubbliche (Piana Rotaliana, Tione, Valsugana) o miste pubblico/privato (Alto Garda Servizi e soprattutto Dolomiti Reti, la meglio piazzata servendo già ora il 40% delle utenze trentine).

Per effetto del decreto Ronchi dovrebbero sparire rapidamente, anche in Trentino, tutte le gestioni dirette, e le Spa totalmente pubbliche dovrebbero cedere almeno il 40% delle loro quote societarie (assieme a ruoli operativi) a privati. Teoricamente quindi avrebbe avuto senso l’impugnazione dinnanzi alla Corte Costituzionale del decreto - effettuata da 5 regioni - per difendere lo stato attuale dei servizi idrici trentini. Non averla decisa nei termini suggerisce che il governo provinciale accoglie volentieri gli effetti della norma nazionale, forse riservandosi di aggiustare qualcosa in sede di recepimento.

C’è infatti un altro passaggio cruciale che riguarderà a breve i servizi idrici trentini, quello della partenza delle Comunità di Valle. Per la legge istitutiva del 2006 le Comunità di Valle sono proprio strumenti per la gestione associata dei servizi da parte dei comuni, anche di quelli idrici. Questa potrebbe essere l’occasione per eliminare le gestioni dirette dei comuni, ed a quel punto ci sarebbero pronte le Spa, soprattutto Dolomiti Reti, a fare alle comunità offerte appositamente confezionate, che difficilmente le Comunità di Valle sarebbero in grado di rifiutare. Il quadro che si verrebbe a creare a quel punto in Trentino sarebbe parallelo a quello disegnato dal decreto Ronchi (rimarrebbero solo da aprire a capitali privati le Spa totalmente pubbliche).

Gli enti locali sono in tutt’Italia molto impoveriti da una sistematica sottrazione di risorse e con le mani legate dall’impossibilità di sostituire anche il personale che va in pensione (blocco del turn-over). In simili condizioni molto difficile rischia di diventare qualunque resistenza ed irresistibile la spinta a cedere i servizi idrici a qualcuno che s’arrangi da solo, facendoci anche cassa. Non si tratta evidentemente di difendere il “piccolo è bello”, perché una gestione adeguatamente industriale dell’acqua richiede comunque dimensioni adeguate e ricerca di soluzioni comuni. Ma la soluzione delle Spa è il cavallo di Troia di una sottrazione ai cittadini del bene comune acqua, ed una sua appropriazione a soli scopi di profitto, facendola diventare l’oro blu del futuro. I cittadini questo lo capiscono, sono preoccupati, e stanno facendo del referendum uno strumento di resistenza contro lo scippo del XXI secolo.