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Lo sgombero

L’arrivo in classe di alcuni ragazzi rom: la diffidenza, poi la curiosità e il desiderio di dare una mano. Dal trauma degli sgomberi alla solidarietà. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Joan Haim, Anna Maria Burgnich

Assunta Vincenti e Flaviana Robbiati sono state tra le promotrici di un gruppo di mamme e maestre che sostengono i rom più volte sgomberati dal campo di Rubattino, a Milano. Cominciamo l’intervista chiedendo com’è nato l’incontro con le famiglie rom.

Assunta Vincenti. Sono una mamma della zona di Lambrate e mio figlio frequentava una delle scuole in cui erano iscritti i bambini dell’ex-campo di Rubattino. Ho conosciuto le famiglie rom davanti a scuola. All’inizio ignoravo cosa ci fosse dietro questa etichetta di rom, sono stati gli sgomberi a darci la scossa: insieme ad altre mamme e alle maestre ci siamo conosciute lì. In questi anni ho assistito a tanti sgomberi, quasi sempre delle stesse persone. Nel primo campo di Rubattino vivevano in 300, nel secondo erano diventati 200, poi sempre di meno. Nell’ultimo sgombero erano solo 5 famiglie, ma l’impatto è ugualmente brutto: i bambini e le donne coi loro valigioni, le carrozzine, lo strazio di vedere gran parte dei propri beni distrutti... Infatti, anche se cerchiamo di aiutarli caricando il più possibile sulle nostre macchine, quello che rimane viene mandato direttamente all’azienda municipale dei rifiuti.

Flaviana Robbiati. Io faccio la maestra e insegno nella scuola vicino a Rubattino: è una mia scelta, perché non è sotto casa. È sempre stato un quartiere particolare: una volta avevamo i bambini dei Martinitt (lo storico orfanotrofio di Milano), poi i bimbi stranieri della comunità di prima accoglienza, poi i bambini stranieri che arrivavano a Milano e che ormai sono diventati una presenza normale, e infine rom; non me li sono scelti, me li sono trovati a scuola. L’incontro con loro risale a tre anni fa. Quando i volontari della Comunità di S. Egidio ci annunciarono l’arrivo di bambini rom a scuola, la prima nostra reazione fu: ‘Teniamoci strette le borse’. Nel settembre 2008 nove rom cominciarono a frequentare la scuola. Mi incuriosivano, non avevo mai conosciuto uno zingaro, così mi sono messa a studiare; ma è stato l’incontro con loro che mi ha aperto gli occhi sulle violazioni a cui erano sottoposti; e quando le violazioni sono arrivate troppo vicine a noi, ci siamo rifiutati di stare zitti: abbiamo pensato a chi vedeva partire le colonne di ebrei senza reagire... La Comunità di S. Egidio seguiva queste famiglie da qualche anno: per primi si erano presentati i padri, che spesso lavoravano nell’edilizia e quindi, in seguito alla crisi, erano rimasti disoccupati. Il primo campo di Rubattino era stato costruito in un’ex-centrale elettrica, una struttura in muratura che garantiva una certa stabilità, era diventato un po’ un villaggio. Grazie alla presenza di questi primi 9 bambini, abbiamo iniziato a conoscerci, a frequentarci, tra maestre, genitori italiani e rumeni.

Assunta. In qualche modo abbiamo rotto il ghiaccio: ci fermavamo a parlare fuori dalla scuola, andavamo assieme al bar... Gli altri genitori all’inizio erano meravigliati, poi pian piano hanno riconosciuto che forse era una cosa che si poteva fare.

La diaspora

Dicevate che la svolta è arrivata col primo sgombero...

Flaviana. Nel settembre 2009 è stato annunciato lo sgombero, che è arrivato due mesi dopo. I bambini nel frattempo erano diventati 36. L’esperienza dell’anno prima era stata positiva e a noi è parso inaccettabile che i bambini rom non potessero più frequentare, che scomparissero così... Abbiamo chiesto al Comune di rispettare questo loro diritto, che per queste famiglie venissero pensati dei percorsi alternativi che non fossero lo sgombero e basta. Abbiamo raccolto delle firme e questo ha fatto rumore in città, poi abbiamo organizzato una fiaccolata. Quando c’è stato lo sgombero, eravamo lì come insegnanti e genitori italiani. È stato un brutto sgombero: erano le 7.15, faceva ancora buio, ed è arrivata una quantità di polizia, carabinieri, vigili... Il campo era in fermento dalle cinque e mezza, le famiglie avevano preparato le loro cose, sapendo che quando arrivano le forze dell’ordine devi subito lasciare libero il campo e poi le ruspe distruggono tutto.

Cos’è successo dopo lo sgombero?

Flaviana. Al primo sgombero, pochissime donne sono finite in comunità. Secondo la legge i bambini sopra i 6 anni non potevano seguirle, dovevano andare in altri istituti, ma le madri hanno respinto questa ‘accoglienza’ offerta dal Comune. Nessuna donna accetterebbe di andare in un posto senza il marito e i figli. Noi abbiamo cercato di collocare almeno le famiglie che conoscevamo: telefonate frenetiche alle parrocchie, a gruppi scout, a cascine, per cercare un riparo, perché era il 19 novembre, con giornate nebbiose e fredde. Siamo riusciti a sistemarne alcune: una parrocchia ha ospitato una famiglia di 10 persone per dieci mesi, altre ospitalità sono state più brevi. Però alla fine avanzavano delle famiglie. Quel giorno ci siamo trovati alle 6.30 di sera senza sapere dove metterle; intanto i genitori italiani avevano portato a scuola coperte, viveri, vestiti, scarpe... Finché una maestra ha detto: ‘Questi ce li portiamo a casa noi’. La prima bomba scoppiata in città era stata la raccolta firme: di solito la si faceva per mandarli via, non per tenerli! La seconda è stata: i milanesi aprono la casa agli zingari, se li portano a dormire, a fare la doccia, a mangiare allo stesso tavolo. Dopo due giorni dal primo grande sgombero, 80-100 persone si sono rifugiate sotto un altro capannone, sempre in via Rubattino, di fronte all’insediamento precedente. La polizia, nonostante la garanzia del Prefetto che per qualche giorno non sarebbe accaduto niente, ha fatto un nuovo sgombero. Le famiglie erano disperate: ‘E adesso dove andiamo?’. Abbiamo pensato: l’unico posto caldo dove c’è da sedersi e c’è un bagno è una chiesa. È stato un vero esodo, con i carrelli, le borse, i passeggini; donne e bambini hanno invaso le strade e sono arrivati alla parrocchia di S. Ignazio. Il prete si è così ritrovato questa tegola. Avevamo citofonato a tutti i preti dicendo che avremmo fatto questa cosa, ma nessuno ci aveva risposto. Ma avevamo deciso di entrare in chiesa comunque, perché faceva freddo. Siamo rimasti lì tutto il giorno, finché nel pomeriggio sono arrivati il portavoce dell’Arcivescovo e lo stato maggiore del Comune e della Curia, e con dei pullman li hanno portati al dormitorio comunale.

Assunta. Arrivò gente che non conoscevamo con vassoi di panini; qualcuno era andato in farmacia a comprare medicine; il vicino di casa medico visitava i bambini: una grande solidarietà in un quartiere oltre tutto considerato ostile. Per quella notte alcuni sono stati ospitati dal prete, però la mattina dopo erano di nuovo fuori sotto la pioggia.

Flaviana. Poi sono cominciati gli sgomberi a raffica, per tutto l’inverno e la primavera. Una delle nostre bambine ha vissuto venti sgomberi in un anno! Alcuni bambini hanno continuato a venire a scuola anche da luoghi lontani. Ricordo un diciassettenne che portava la sorella alle medie alle otto e poi stava coi due piccoli sulla panchina al freddo fino alle otto e mezza; poi veniva a riprendere la sorella all’una alle medie, poi il fratellino e il cugino e nel frattempo lui stesso andava a una scuola di formazione.

Assunta. Ai primi di settembre avevamo iniziato un prescuola sperando di recuperare il tempo perso; invece il 7 settembre c’è stato un nuovo sgombero. Le 20 famiglie rimaste sono state praticamente braccate.

Dicevate che vi siete mobilitate a livello di aiuti concreti...

Assunta. Io mi occupo dei bambini della mia classe, permettiamo loro di fare la doccia, procuriamo i vestiti e la tessera per i trasporti pubblici.

Flaviana. Abbiamo lavorato sempre sull’aiuto concreto, ma anche sul versante culturale, andando nelle scuole per raccontare, e anche la stampa è stata molto attenta. Poi abbiamo messo in piedi dei progetti come le borse lavoro, le borse di studio, i finanziamenti tramite il vino rom. Una donna del nostro gruppo produce vino di alta qualità (‘Rosso di Origine Migrante’). che ci vende a prezzo di costo e noi utilizziamo il margine di guadagno per i nostri progetti. Abbiamo anche aperto una scuola di alfabetizzazione per gli adulti, organizzata da alcuni genitori, che si svolgono tutti i sabati in una parrocchia. Durante queste lezioni noi ci occupiamo dei bambini.

Assunta. Alcuni insegnanti di un istituto tecnico superiore si sono appassionati a un quindicenne analfabeta, col quale scrivono un diario quotidiano per valorizzare la sua storia e, contemporaneamente, insegnargli l’italiano. Questo ragazzo, Marius, è uno di quelli sgomberati più volte. Lui, che non sapeva nemmeno una parola d’italiano, adesso parla, scrive, legge. Insomma l’impegno di tutte queste persone rappresenta una svolta nella storia della comunità rom a Milano. Attualmente siamo più di cento coinvolti.

Flaviana. Alcuni hanno cominciato per caso: si sono fatti carico di una famiglia alla quale si sono poi affezionati. Alcune mamme contribuiscono anche a pagare l’affitto delle abitazioni di queste famiglie; un paio si sono addirittura intestate il contratto d’affitto perché i proprietari diffidano di questi inquilini.

Avete parlato di mamme e bambini. E gli uomini?

Assunta. È un tasto dolente. Molti potrebbero lavorare come muratori, facchini o autisti, ma se trovano lavoro, è sempre in nero.

Flaviana. Sono gli ultimi fra gli stranieri nella classifica degli stipendi (esistono tariffe destinate ai marocchini, altre agli albanesi...), prendono sui tre euro l’ora lavorando a giornata. Per questo abbiamo istituito delle borse lavoro: quando troviamo qualcuno disposto a farli lavorare, per un po’ paghiamo noi lo stipendio. In cambio il datore di lavoro offre una piccola formazione e si impegna a regolarizzare il contratto.

Assunta. Ci sono anche degli esempi positivi: Flora lavora in un centro riabilitativo per anziani, ha una buona manualità, sa fare i massaggi; Alina lavora in una cascina agricola e vende i prodotti al mercato: sa attirare la gente, è molto vivace. Ci ha mandato un sms: ‘È il mio primo giorno di lavoro onesto da quando sono in Italia, dopo dieci anni di elemosina”.

Avete riscontrato qualche cambiamento nell’atteggiamento verso i rom?

Flaviana. Avevo un’alunna, Giulia, che frequentava la scuola nonostante la distanza enorme che doveva percorrere. Sua madre da anni chiedeva l’elemosina. Un giorno sono stata contattata da un signore che mi ha detto di voler aiutare questa famiglia offrendosi di comprargli non solo una casa in Romania, ma anche un piccolo terreno da coltivare. Un altro signore ha preso l’iniziativa di mandare in Romania duecento euro al mese come borsa di studio perché la ragazzina continui la scuola. Un’altra famiglia italiana si porta in vacanza la bambina rom insieme ai propri figli. Ma gli aiuti non vanno in un’unica direzione: un’anziana che vive sola è stata ‘adottata’ dalla vicina rom che le fa compagnia.

Imparare a pianificareil futuro

Quali le problematiche più evidenti?

Flaviana. In genere hanno bisogno di un ‘accompagnamento’: vivere in un condominio, anche se modesto, presuppone di seguire delle regole, dalla raccolta differenziata alle spese condominiali; e poi devono imparare ad andare alla posta, rispettare le scadenze delle vaccinazioni, prenotare una visita medica; c’è anche il problema degli anticoncezionali e dell’educazione sessuale. Un altro punto debole è che, non avendo quasi mai avuto uno stipendio, non sono abituati a gestire i soldi. La loro vita è all’insegna della precarietà, dovrebbero imparare a pianificare il futuro, ma è un lavoro mentale al quale non sono abituati. Paradossalmente chi vive nelle case ha più bisogno di aiuto.