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QT n. 4, aprile 2009 Cover story

Quando il capo è straniero

I volti e le storie degli immigrati diventati imprenditori. In Trentino è boom d’imprese gestite da extracomunitari. Una scelta che facilita la loro integrazione sociale, con un vissuto che oscilla tra insicurezze e voglia di riscatto.

Il furgone di Pashk

“Da quando, sette anni fa, ho deciso di mettermi in proprio, mi sento più libero di organizzare la mia vita e mi sono fatto un bel giro di clientela trentina. E tutti mi danno le chiavi di casa in mano!”. Ha lo sguardo fiero, Pashk, mentre ci racconta la sua avventura. E’ un omone alto e massiccio, ha spalle muscolose e le sue mani grosse sono segnate dal lavoro. Lui si è buttato e ha messo su un’impresa. Gli affari gli vanno bene, quanto basta per mantenere moglie e figli senza tirare la cinghia. Gira con il suo furgone pieno di pennelli e colori per cambiare look a soffitti e pareti. Nessun lavoro spaventa Pashk, che parla molto bene l’italiano intercalando frasi in dialetto trentino. Solo i suoi zigomi ampi tradiscono le origini albanesi.

È un fenomeno in crescita quello delle aziende con un titolare straniero.

La vitalità di queste ditte è ben visibile per le vie della città. Basta mettere piede in questi esercizi commerciali per respirare un’aria metropolitana e connettersi con uno spicchio di mondo. Le botteghe colorate spargono profumi esotici che stuzzicano i sensi e la curiosità del passante. 

Una spinta imprenditoriale che è ben fotografata dai dati delle Camere di Commercio: in Trentino sono 2.106 le aziende gestite da extracomunitari, con un tasso di crescita annuale intorno al 10%.

Al timone di queste piccole imprese troviamo, per lo più, imprenditori giovani e di sesso maschile. Favoriti da una maggior anzianità migratoria, i più attivi sono i marocchini che prediligono il commercio, anche ambulante, seguiti da cinesi e pakistani. Gli immigrati dell’Europa dell’Est e i tunisini svettano invece nel settore delle costruzioni. La voglia di fare impresa contagia anche piccoli artigiani nel comparto manifatturiero, mentre nella ristorazione troviamo le etnie più disparate. Ma cosa si nasconde dietro i volti di questi nuovi imprenditori?

Siamo andati ad incontrarli sul campo, girando tra cantieri, ditte ed esercizi commerciali, dislocati in città e in valle. Un viaggio dentro le loro storie, per tracciare un profilo di questi immigrati e capire come si muovono nella realtà trentina.

Perché mettersi in proprio

Per l’immigrato non è facile sfidare l’opinione comune che appiccica allo straniero l’etichetta di operaio generico, uno che fa lavorare le braccia, buono a fare qualsiasi cosa. Ma soprattutto a “servire”. Insomma il salto verso l’occupazione autonoma, sebbene faccia lievitare la nostra ricchezza (gli stranieri contribuiscono per il 9% del Pil nazionale ), è visto con un occhio un po’ sinistro. Fa serpeggiare la paura di un’economia più aggressiva da parte degli immigrati, attratti dai facili guadagni.

In realtà l’autonomia lavorativa nasce spesso dal desiderio di mettere a frutto un fardello di conoscenze acquisite durante il lavoro dipendente che non sono valorizzate adeguatamente. Insoddisfazioni che a lungo andare pesano. Lo esprime in modo eloquente Pashk: “Sbarcato in Italia con la classica carretta del mare mi sono trasferito in Trentino, dove ho fatto la gavetta in un’impresa edile. Lì, anche se facevo bene il lavoro, la mia idea non contava niente. I primi sei mesi sono stati duri. Il capo mi sfruttava e basta”.

Ma c’è anche la voglia di riscattarsi da piccole discriminazioni subite: “Quando ero dipendente – aggiunge Pashk - mi è capitato che, entrando nelle case per fare dei lavori, dei clienti mi lasciassero dei soldi sul tavolo per vedere se li rubavo”.

Tuffarsi in un lavoro d’impresa significa anche rinnovare la propria immagine non solo agli occhi dei connazionali, ma anche degli italiani. Presentarsi con un ruolo che dimostri la propria capacità e creatività è una scorciatoia per superare gli scogli dell’integrazione. Perchè il riconoscimento sociale aiuta ad abbattere le diffidenze dei trentini. 

Questo vissuto affiora chiaramente nella storia di Mamdouh Mohamed, detto Mandù, che viene dal Marocco. In Valsugana il nome della sua impresa campeggia in vari cantieri. Da 12 anni lavora nell’edilizia e parla un dialetto trentino molto scorrevole. Lo incontriamo assieme ai suoi due figli, nati in Italia. Li ha voluti con sé durante l’intervista, perché sono il futuro della sua azienda: hanno intrapreso gli studi di geometra. Mandù, col suo sguardo profondo e il tono di voce robusto, ha il piglio dell’uomo sicuro di sé e procede spedito nel racconto: “All’inizio ho fatto un sacco di lavori, anche il ‘vucumprà’,  perché allora si guadagnava bene. Poi l’ambulante nei mercati, il posatore di marmo, il piastrellista e il capo cantiere. Quando sei straniero e ti metti in proprio la tua immagine cambia in positivo. Nella mia ditta ho avuto anche dipendenti italiani a cui ho insegnato il mestiere. Qualche episodio spiacevole l’ho subìto anch’io. Una volta feci un lavoro, con puntualità e qualità, ad un trentino, con un passato d’emigrazione in Svizzera. Mi pagò e disse che non voleva più vedermi, perché lui, da immigrato, aveva solo dovuto subire, mentre gli sembrava che io, come altri stranieri, qui volessi fare il padrone. Comunque avere un’impresa ti porta ad entrare direttamente in contatto con persone locali, clienti o fornitori, e questa cerchia ti protegge da forme di razzismo. Succede che sia magari il tuo medico o il vicino di casa a chiederti la prestazione. Con la mia ditta non sono diventato ricco, ma giro a testa alta perché, con la mia onestà, ho guadagnato la cosa più importante: la fiducia della gente”.

Convivenze difficili

Pashk col suo collaboratore Amarildo

Per alcuni imprenditori immigrati, che lavorano da anni in Trentino, le barriere culturali non destano più preoccupazione. E’ palpabile nella vivacità dei loro racconti il clima di amicizia ed integrazione che si è creato con la gente del posto. Spostano però subito l’attenzione su un altro nodo: quello di dover fare i conti con situazioni di marginalità di cui nessuno sembra curarsi. Aziz, giovane pakistano dai modi gentili e spigliati, in un chiosco sulla strada vende kebab: un gustoso spuntino “mordi e fuggi” farcito con carne di pollo, agnello o manzo, arrostita su uno spiedo verticale. Ci spiega senza giri di parole questo problema: “Non ho mai subìto alcun tipo di razzismo da parte della clientela trentina. Ma ho difficoltà nei rapporti  con persone, di varie nazionalità, che stanno sulle panchine e vivono in stato di disagio. Alcune volte ho cercato di aiutarli. Hanno problemi mentali, o sono disadattati; una volta uno di questi è uscito di testa e mi ha picchiato con un bastone. Certo, la polizia gira, fa controlli, ma mi chiedo se questa provincia, che ha tutto ed è così ricca, non possa fare di più per risolvere il problema”.

Anche Sohail, un pakistano corpulento con grandi occhi scuri e ciglia folte, che gestisce un kebab ambulante, esprime la sua rabbia e si lascia andare ad un pianto rotto dai singhiozzi, di cui ci chiede più volte scusa: “Fino a poco fa portavo il mio furgone in piazza Dante, dove lavoravo bene. Quel posto ho dovuto lasciarlo perché c’erano molti emarginati che inveivano contro il mio mezzo e più volte mi hanno rotto la vetrina. Ora il Comune ha deciso di spostarmi qui, ma gli affari vanno davvero male: non passa anima viva. Con la mia famiglia spesso mangio una volta al giorno. Io ho sudato per avere il mio lavoro, sono onesto, pago le tasse e ho le carte in regola. Possibile che nessuno mi tuteli facendosi carico di queste persone?”.

Non solo etnico

Molti esercizi commerciali gestiti da stranieri creano degli importanti punti d’aggregazione e ritrovo fra gli immigrati, dove si fa amicizia e ci si dà una mano. Se entri in un phone center, per dire, la vetrina appare poco appariscente, ma all’interno, fra le postazioni Internet e telefoniche, c’è un vociare d’etnie che discutono animatamente e l’aria è molto familiare.

Nelle botteghe che offrono sapori mediorientali, spesso situati in angoli defilati della città, fra spezie e salse di pesce, trovi gestori che t’intrattengono piacevolmente su qualità e proprietà d’ogni prodotto. Quando chiediamo a che clientela si rivolge la loro ditta, scatta un’espressione d’orgoglio e ci elencano i cibi che fanno breccia nei gusti dei trentini. Insomma, tutti badano a non farsi attribuire l’etichetta di “bottega etnica”, perché la paura della contaminazione culturale, in questo caso culinaria, si supera solo se questi esercizi sono visti come una preziosa opportunità, come ci spiega un’imprenditrice che vende alimenti asiatici. Attratta dal fascino di un uomo trentino, lo ha seguito fin qui e tre anni fa ha aperto i battenti del suo negozio: “Vedo la gente locale contenta, perché è il primo con prodotti thailandesi. Magari qualcuno rientra da un viaggio e ha nostalgia di questi sapori. Qui trovi tutti i cibi dell’Asia. Qualche trentino si ferma davanti alla vetrina ed io invito tutti a venirmi a trovare”.

Anche Afzal, un bel ragazzo pakistano molto socievole, che incontriamo nella sua bottega, si lancia nella promozione dei suoi prodotti: “La carne “halal” ha un gusto diverso. Secondo la tradizione islamica gli animali vengono sgozzati, così esce tutto il sangue. Ai trentini piace ed io sono contento di allargare la clientela. Quella nuova la tratto con un occhio di riguardo”.

Ostacoli e sogni

Pashk al lavoro

Mettere in piedi un’impresa significa maneggiare leggi e regolamenti, dialogare con consulenti e commercialisti che consigliano i passi giusti da fare. Per molti districarsi in questa giungla è difficile, specie se conosci poco la lingua, o manca il supporto dei connazionali. L’insicurezza del futuro, favorita dall’attuale congiuntura economica, traspare dallo sguardo teso di molti immigrati. Perché loro sono l’anello debole di questa crisi globale.

Sui bilanci delle aziende, in termini d’introiti, i più glissano. Afzal invece parla con franchezza. La crisi per lui non è più solo un fantasma. E’ una morsa che stritola i suoi progetti. Approdato in Trentino a 10 anni con il ricongiungimento famigliare, così ci racconta la sua storia: “Non avevamo niente e siamo orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto. Però ci stanno mettendo in ginocchio. Fino a due anni fa io e mio padre avevamo molti clienti trentini. Da quando la Lega ha preso piede, fomenta paure infondate che ci rovinano. La gente ha una percezione meno positiva delle nostre ditte. Senti che ti guardano con disprezzo, diventi lo straniero che ha pretese ed è troppo ricco, magari perché il negozio è tuo. Vedi clienti incuriositi che scrutano la vetrina, vorrebbero entrare, ma questo clima di sfiducia che bolla lo straniero come delinquente li blocca. Qualcuno un po’ alla volta sparisce. Alcuni preferiscono il supermercato che importa prodotti etnici a basso costo. Certe vie della città sono considerate pericolose e subiamo ripetuti controlli che interessano anche il cliente, che poi si scoccia. Infine c’è una concorrenza sleale fra gli stessi immigrati: siamo in troppi. Molti non sono disposti a rispettare i due giorni di chiusura per paura di perdere clienti. Per via di questo brutto clima, conosco imprenditori che hanno fatto tornare nei Paesi d’origine le loro famiglie e sono rimasti qui da soli”.

Invece ad alcuni gli affari vanno a gonfie vele. Ma non è tutto oro quel che luccica. E’percepibile un vissuto quasi sospeso: si vive alla giornata. La finestra temporale è spalancata sul presente: “Sono contento di come mi vanno le cose col  lavoro - ci dice Aziz -, ma la paura di non aver qualche carta in regola mi accompagna sempre. Vivi in un continuo stato d’insicurezza, certo fai qualche progetto per resistere, poi esce qualche nuova legge e ti torna  la paura”.

Dopo aver ascoltato le storie di questi immigrati ci togliamo dalla testa l’idea dell’imprenditore rampante che punta dritto ai quattrini e alla scalata sociale. Assorbiamo invece le frustrazioni che accompagnano il loro faticoso percorso. Per qualcuno, però, il sogno nel cassetto si avvera regalando spicchi di felicità. A noi non resta che augurare a tutti loro buona fortuna.

“Un’imprenditoria acerba nel contesto nazionale”

Il lavoro autonomo immerge gli immigrati nel vivere quotidiano della gente e li aiuta a sgretolare gli steccati culturali. Battono su questo tasto Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università di Milano e direttore della rivista “Mondi migranti”, e Paolo Boccagni, assegnista di ricerca all’Università di Trento. Autori di vari libri sull’integrazione socio- economica degli immigrati, hanno curato diverse ricerche anche in Trentino.

Col loro aiuto sonderemo la trama del tessuto di questa nuova imprenditoria per studiarne le sfaccettature rispetto al contesto nazionale.

Nell’attuale fase di stagnazione economica si registra un tasso di crescita positivo delle imprese con titolare immigrato, che è in controtendenza rispetto a quello degli autoctoni. Qual è il motivo?

Ambrosini: “Il trend positivo dipende da vari fattori. Molte ditte subentrano per un ricambio generazionale all’interno del mercato locale. Magari l’immigrato sostituisce il titolare autoctono che va in pensione ed ha figli, con studi elevati, che non vogliono proseguire l’attività. Si tratta in ogni caso di nicchie di mercato con lavori meno redditizi, faticosi ed esposti al rischio. In secondo luogo, gran parte delle ditte sono ‘para imprese’, ad esempio lavoratori edili spinti a mettersi in proprio dagli stessi datori di lavoro per motivi di convenienza. L’immigrato apre la partita Iva e si trova l’attività assegnata dall’ex datore che risparmia sui contributi. Infine c’è l’aspetto motivazionale. Nel lavoro dipendente l’immigrato fatica a fare carriera perché i suoi titoli non sono riconosciuti o non parla bene la lingua. In genere il lavoratore straniero autonomo è più istruito degli autoctoni che fanno la stessa attività. Spesso provengono da famiglie della piccola borghesia commerciale”.

Il ciclo di natalità/mortalità di queste aziende ha un trend diverso da quelle gestite dai locali?

Ambrosini: “Non vi sono dati precisi. Tuttavia, da alcune ricerche che abbiamo condotto risulta che le ‘nuove’ imprese, con titolari stranieri  hanno maggior tenuta rispetto a quelle italiane. Per spinta motivazionale, gli immigrati resistono meglio in situazioni difficili. Si accontentano di guadagnare meno pur di migliorare la loro posizione sociale”.

Ci sono delle specificità nell’imprenditoria immigrata trentina rispetto a quella nazionale?

Boccagni: “E’ senz’altro più ‘acerba’ se paragonata ai contesti metropolitani. Nelle grandi città c’è un’attività autonoma degli immigrati consolidata con sbocchi produttivi differenziati. Il che consente di creare un ponte coi Paesi d’origine garantendo maggior circolazione di beni e servizi, ma anche l’appoggio ai connazionali che vogliono mettersi in proprio. Sia in Italia che in Trentino gli imprenditori stranieri seguono i segmenti produttivi che rimangono scoperti, adattandosi al mercato”.

Quali sono i punti deboli nello sviluppo di queste imprese?

Boccagni: “C’è la difficoltà degli stranieri a rapportarsi con le associazioni di categoria. Uno dei nodi è la resistenza degli immigrati ad accedere a corsi di formazione, sulle competenze gestionali e burocratiche, per l’avvio d’imprese. Prevale l’idea di poter fare da soli, che sia sufficiente il proprio impegno. Inoltre c’è un’ampia fascia ‘grigia’ di stranieri che hanno la voglia e la potenzialità per creare una ditta, ma sono bloccati dalle difficoltà d’accesso al credito”.