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QT n. 5, maggio 2013 Cover story

Ed era partito democratico

Cosa succede all’interno di un PD che ultimamente ha sbagliato quasi tutto, a Roma come a Trento. Cosa dicono i giovani, i dirigenti, l'outsider.

La battuta viene dall’interno dello stesso PD, “era partito democratico”, nel duplice senso che aveva iniziato il suo percorso esaltando la democraticità, con le primarie ecc, ed ora democratico non lo è più, perché ha fatto ciò che la stragrande maggioranza dei suoi elettori non voleva che facesse: un governo con Berlusconi. L’incredibile esito delle elezioni presidenziali, opposto a tutte le dichiarazioni elettorali e post-elettorali; il sistematico dire una cosa e praticarne il contrario (Bersani che assicura che l’elezione del Presidente rappresenta il livello istituzionale, e che quindi nulla c’entra con le alleanze di governo, quando invece era chiaro come ad ogni candidatura corrispondesse anche un’ipotesi sull’esecutivo: Marini/larghe intese, Prodi/no a Berlusconi, Rodotà/5 Stelle, Napolitano/ larghe intese); l’esito finale fragilissimo, appeso agli umori e convenienze del baldanzoso Berlusconi, completamente riabilitato; tutto questo pone domande di fondo sul senso di un partito. “Non possiamo che risalire – ci ha detto il Presidente del Consiglio provinciale Bruno Dorigatti – più a fondo di così non si può andare”. Noi non siamo sicuri di questi automatismi. Quando un organismo perde di senso, può anche sparire. Senza rimpianti, peraltro: un ceto di furbastri innamorati di mosse tattiche regolarmente controproducenti (fidarsi di Berlusconi, dopo vent’anni!), senza alcuna visione che non sia quella relativa al proprio spicchio di potere, può anche sciogliersi e svanire nel nulla. Dopo la Dc, dopo il Psi, anche il Pci-Ds-Pd. Per vedere come risponde il corpo del Pd trentino a questa situazione – e come parallelamente si prepara al proprio appuntamento cruciale, le provinciali di novembre – abbiamo posto queste questioni, a tre gruppi di militanti: alcuni giovani da cui teoricamente potrebbe venire un rinnovamento, alcuni dirigenti oggi non più in posizione di potere, l’outsider Donata Borgonovo Re.

I dirigenti

Da sinistra: Curzel, Chiodi, Pinter, Nicoletti

Sospirano i dirigenti ed ex-dirigenti del Pd quando poniamo il tema di fondo: le guerre interne per bande, di cosa sono figlie? Non è che con l’appannarsi delle ideologie, si siano perse anche le idealità? Non è forse che oggi, il collante che tiene insieme l’organizzazione è l’ambizione personale, la carriera? “L’ambizione c’è sempre stata, ed è anche giusto che ci sia – ci risponde Rino Sbop, ultimo segretario del Pci, che a suo tempo duramente innovò il partito, liberandolo da una congrega di funzionari che lo avevano sequestrato – Solo che una volta, per la maggioranza di noi, c’era grosso modo un 20% di ambizione e un 80% di idealità; oggi le proporzioni mi sembrano esattamente ribaltate”. Neanche tanto paradossalmente però, in Sbop, e ancor più in Dorigatti e nell’ex assessora provinciale Wanda Chiodi, accanto a questo scoramento di fronte a tale regressione ideale, convive un sotteso rimpianto del centralismo democratico, quando il partito decideva e tutti obbedivano; e una conseguente, anche se non dichiarata, allergia per le primarie. Che significano sì apertura, irruzione nel partito delle esigenze degli elettori, ma anche rottura degli schemi collaudati. Così le primarie “si fanno quando è necessario” “quando non ci si mette d’accordo”; e i disastri nelle elezioni presidenziali sono dovute soprattutto “a quei giovani che, eletti con le primarie, non rispondono più al partito, ma ai loro votanti, e allora bastano due commenti su twitter e cambiano linea”. Diversa è la riflessione di Maurizio Agostini, alcuni anni fa segretario del Pd, e Franco Grasselli, già assessore al Comune di Trento. “L’errore è presumere che esista ancora il centralismo democratico, con le direttive che partono dal vertice e arrivano dovunque, nei territori come ai grandi elettori. Con le primarie il referente non è a monte del grande elettore, nella struttura, ma a valle, nei votanti.” Il che non esclude, sul pasticcio delle presidenziali, altre spiegazioni "più misere: tipo calcoli di gretta convenienza, ovvero il centro destra è quello che mi garantisce più anni di legislatura; e invece i grillini, con la loro lotta ai la loro lotta ai costi della politica, minano la sopravvivenza della burocrazia di partito. Ricordo benissimo – sottolinea Agostini - come alle direzioni cui partecipano i segretari regionali, le riunioni sono convocate dall'oggi al domani, tagliando fuori chi come me ha un suo lavoro; in genere i segretari regionali sono deputati, chi vive del suo lavoro è un alieno che non viene considerato, mentre in primo piano sono le convenienze economiche della struttura”. Il fatto è che, alla disperata rielezione di Napolitano e al conseguente governo delle larghe intese, si è arrivati attraverso un percorso in più tappe: dichiarazioni di D’Alema, di Franceschini, la candidatura di Marini, i franchi tiratori con Prodi, il no pregiudiziale a Rodotà. Evidentemente una parte del Pd ha lavorato, e alacremente, a questa soluzione. “Oltre tutte le brutte astuzie sottobanco, c’è un problema di fondo – argomenta Agostini - Il Pd si trova cucito addosso il vestito del partito veltroniano a vocazione maggioritaria: regolamento, statuto, primarie, segretario-candidato premier, niente alleanze. Con Bersani invece si è affermata un'altra visione: tessitura di alleanze come nella prima repubblica, Pd partito di sinistra alleato con uno di centro (Monti, si pensava); però la vita interna è quella del partito veltroniano, che risponde malamente agli ordini tattici funzionali ai giochetti partitici. Di qui il ricorso a percorsi sotterranei, sotterfugi vari che ingenerano ancor più sfiducia”. Ne consegue, per Agostini e Grasselli, un giudizio severo: “Un partito così rischia di servire sempre meno, bisogna cambiarlo. Non deve più appiattirsi sulla gara per l'occupazione delle istituzioni, un comitato in vista delle elezioni, bensì un momento di dibattito, di dialettica anche con i propri uomini nelle istituzioni. Allora i tanti nuovi circoli hanno un senso, una funzione.” E per le candidature di novembre? “C’è l’opzione Pacher, che è forte, lui non vuole correre, se si va a chiedergli di farlo, non si può poi fargli sostenere le primarie”. Motivo per cui, a nostro avviso, non si capisce perché mai il Pd si dovrebbe genuflettere di fronte a un Presidente riottoso, e che una parte per di più non ritiene idoneo. “Se Pacher non ci sta, io proporrei primarie solo a livello di coalizione, ma non con un rappresentante per ogni partito, che rappresenta solo il suo partito, ma che invece si rivolge al consenso trasversale di tutti”. Intento difficile da raggiungere. A meno che i vari candidati non debbano sottostare al placet degli altri partiti, il che renderebbe le primarie una buffonata. Oppure farle libere, ma a doppio turno, come propone un gruppo di giovani del Pd. “Potrebbe essere una soluzione”.

I Giovani

Luca Pianesi

Abbiamo intervistato quattro giovani militanti del PD, Stefano Picchetti, Giulia Merlo, Pasquale Mormile e Luca Pianesi, per chiedere la loro opinione sullo stato attuale del partito, ma soprattutto per capire quali sono, a loro avviso, le vie di uscita dalla situazione che si è creata.

L’elezione del Presidente della Repubblica

I 101 voti che sono venuti a mancare per l’elezione di Prodi hanno evidenziato conflitti con ogni probabilità di lunga data. Per farla breve, alla fin fine non è stato Renzi ad affondare il PD. Per Stefano Picchetti, se da un lato non sapremo forse mai con esattezza i nomi, dei 101 ci si può quantomeno arrivare per esclusione. "Ci sono alcune componenti che non hanno mai negato che non sgradivano un governo con il Pdl. D’Alema è tra questi, e tramite l’elezione del Presidente ha indirizzato il governo con il Pdl attraverso tanti piccoli passi." Ma a che pro? "Spero che l’intenzione sia stata quella di sdoganare la destra, normalizzando i rapporti con l’avversario, ma mi viene il dubbio che si volessero soltanto ingessare i propri ruoli nella politica, cosa che si può fare soltanto con una politica tutta accordi complessi, invece che aprire al nuovo, che fatalmente significa anche nuove persone". Per Pasquale Mormile, invece, il problema ruota attorno alla mancanza di una leadership salda. Ma la colpa non è tanto di Bersani, bensì il metodo stesso con cui Bersani è stato scelto. "Le primarie non servono solo a stabilire il leader, ma anche il programma e di conseguenza a costruire consenso, ovvero ad aumentare il tasso di fiducia presso l’elettorato. Noi abbiamo fatto le primarie, ma al secondo turno abbiamo mal pensato di restringere la base elettorale. Si aveva timore che una frotta di elettori di Berlusconi si recasse al seggio a votare Renzi. Questo di sicuro ha indebolito la forza delle primarie, con tutto quel che ne consegue, specie per quanto riguarda la legittimità del leader". Anche per Giulia Merlo, che ha sempre sostenuto Bersani, il nodo della questione è stata una carenza di leadership. "Le divisioni interne ci sono sempre e sempre ci saranno, ma questa volta la segreteria non ha saputo leggere la situazione, si è trovata nell’impossibilità di far convergere le correnti. Non si deve pensare che Bersani avesse saldamente in mano la situazione. Il partito era fuori controllo e si è tentato di rimediare in qualche modo". Luca Pianesi, invece, individua il problema nella frattura generazionale. "Il casino venuto fuori con l’elezione del Presidente nasce dal fatto che la classe dirigente è assolutamente di mediocri. Sono tutti le seconde linee dei vecchi partiti. Da Franceschini a Bersani. Sono tutte brave persone, per carità, ma non c’è nessuno che sappia essere un vero leader. È per questo che ritengo valido il discorso della rottamazione di Renzi: avere un ricambio di idee e di persone permette una nuova fase per il partito".

Come se ne esce

Il PD non è comunque da buttare. Va riformato partendo dalle sue stesse basi, andando alla ricerca di quel collante che, in assenza di una precisa ideologia, possa tenere assieme un partito. Per Luca Pianesi, "serve una nuova base comune. Per esempio, ciò che ci distingue e sempre ci distinguerà dal centrodestra è l’attenzione sui diritti civili. Il tema degli omosessuali, dei diritti di cittadinanza, da qui si parte. Cosa che certo non potremo fare se continueremo a muoverci sui vecchi ideali, comunisti o democristiani". "La forma partito del PD - dice invece Pasquale Mormile - è estremamente più complessa rispetto a quella del M5S, o del PDL. Questa complessità va conservata e curata, anche se ciò significa che per vincere si è costretti ad arrivare a sintesi di programma e di leadership difficili da raggiungere. Ma non dimentichiamo che per due volte questo è stato possibile, con Prodi. Che aveva capito cosa significhi essere un partito di sinistra: un partito inclusivo. Ora come ora il PD è un partito romano. Io invece credo molto nell’importanza della base territoriale. Dobbiamo riorganizzare la partecipazione, in modo tale che tutti possano mettere l’impegno che vogliono: più vai avanti più ti è richiesto impegno. Ti fermi quando vuoi. Invece il grande lavoro di campagna elettorale per tutta l’Italia che aveva fatto Prodi non l’ha fatto più nessuno". Anche per Stefano Picchetti la discussione deve par-tire dalle origini stesse del partito. "Dobbiamo riprendere le intenzioni iniziali, dando una nuova importanza ai circoli locali. E’ per questo che trovo interessante la proposta di Barca". Giulia Merlo è invece più fiduciosa. "Molto lavoro è già stato fatto. Per venire incontro anche ad un’esigenza da parte dell’elettorato di rinnovamento, una classe politica intera si è dimessa. Questa è un segnale già abbastanza forte. Il congresso sarà sufficiente a riprendere credibilità".

In Trentino chi sarà il candidato?

L’esigenza di scegliere il candidato di coalizione tramite primarie invece mette d’accordo tutti. "Non capisco perché se uno chiede le primarie perché, dopo 20 anni di Dellai, si vuole rilanciare l’azione politica di una coalizione che ha bisogno di essere verificata, qualcun altro risponde che le primarie sono un feticcio e da sole non risolvono niente - afferma Pasquale Mormile - Sono sicuro che se domani Pacher le domandasse, poi le cose andrebbero più o meno da sole in favore suo. Olivi a livello di consenso non esiste, ma non mi stupirei se lo stesso Zeni facesse un passo indietro. Rimarrebbe la Borgonovo Re, ma non si può avere paura di lei, quando si ha uno come Pacher che prenderebbe tutti i voti dell’Upt". Anche per la Merlo le primarie sono essenziali. "Chiedere all’elettore la direzione da prendere è un modo per aprirsi e non prendere decisioni nelle stanze. Noi abbiamo un nome molto autorevole, Pacher, che riscuote i favori della coalizione, ed è una persona di grande spessore morale e culturale. Ma anche Pacher non va imposto. Bisogna che anche lui si sottoponga al test delle primarie. Può solo ottenere più legittimazione di quel che ha ora". "Sono per le primarie a prescindere - incalza Picchetti - Sono uno strumento democratico, per di più contenute nello statuto. Dobbiamo però sempre ricordarci che sono uno strumento non solo per scegliere le persone, ma anche i programmi, e vorrei che nelle primarie i candidati portassero i programmi per il Trentino. Questo per il bene non solo del Pd, ma della politica". Per Luca Pianesi invece il Trentino rispecchierà in qualche modo le divisioni nazionali. "Veniamo da tre mesi di rospi mandati giù, sia a livello locale che nazionale. Anche qui ci sono le correnti personali. Pinteriani, zeniani, olivi. Non è vero che PD in parlamento e PD sul territorio sono due partiti diversi. Anche qui avverrà la stessa cosa, con protagonisti diversi".

Donata Borgonovo Re, l'outsider

Come valuta il disastro romano sul presidente della Repubblica?

È difficile fare ora una valutazione, non siamo ancora in grado di ragionarci con la dovuta freddezza. Pensavo che il Pd potesse costruire un percorso con M5S, non è avvenuto, non sono riuscita a capire perché; e a quel punto l’alternativa era obbligata, c’è stato un brusco richiamo alla realtà.

L’alternativa Napolitano presidente ossia larghe intese, era forse obbligata, ma solo dopo la bocciatura di Prodi. Ed è avvenuta attraverso un percorso in più tappe: dichiarazioni di D’Alema, di Franceschini, candidatura di Marini, franchi tiratori con Prodi. C’è poco di accidentale, molto di premeditato.

Questa lettura la danno in molti, io dall’esterno non riesco a giudicare. So comunque che nel Pd ci sono sia le persone che erano per Prodi sia quelle che lo hanno silurato. E per questo io penso che occorra, e si possa, lavorare all’interno. Io voglio vedere il lato positivo di questa vicenda, altrimenti ci condanniamo alle recriminazioni. Ora vediamo di capire se il governo riesce a fare qualcosa di buono.

L’assessore Olivi sostiene che l’errore più vistoso della campagna elettorale è stato seguire Berlusconi sui tagli dell’IMU, rincorrendolo in questa centralità del patrimonio, quando invece si doveva porre la centralità del lavoro. Ora Letta che subito vuol togliere l’IMU, non sancisce una clamorosa vittoria culturale di Berlusconi?

Anch’io ho pensato: in cambio dell’Imu, cosa porta a casa Letta? Che riesce a fare? Mi sembra che si sia al livello della contrattazione, di cui dovremo valutare i risultati.

Passiamo al livello locale, e al fatto che una parte consistente dei dirigenti del Pd non vogliano le primarie, specie in caso di candidatura di Pacher.

Prima di arrivare a dire che se c’è Pacher non si discute più, vorrei far presente che ci sono delle regole: occorrono i tre quinti dell’assemblea per non procedere alle primarie di coalizione e se non altro io e Luca Zeni siamo molto decisi a contrastare questa soluzione, e contro di essa pensiamo di poter convincere, mobilitare. Perché innanzitutto c’è un problema delle regole della democrazia, le procedure sono sostanza, se la maggioranza del partito teme di verificare se è maggioranza anche presso gli elettori, che maggioranza è? Come considera, che rispetto ha degli elettori? Dire che le primarie non si fanno, vuol dire che 38 persone vogliono sostituirsi a una platea di migliaia: cari iscritti, cari elettori, non vogliamo fare decidere a voi.

C’è anche una questione di merito nella candidatura Pacher?

Sì, perché si farebbe questo strappo per mantenere l’esistente, fare una scelta di conservazione. C’è una sorta di paura di misurarsi on il cambiamento, che invece sappiamo è nelle cose. C’è il problema di una riduzione forte delle risorse, e ne consegue un nuovo quadro, inedito, la Pat deve elaborare un programma di lavoro nuovo. Quali le priorità oggi, non quelle di ieri. Su quali aspetti punto, da quali mi ritiro? Se in famiglia ho una forte contrazione di reddito, non faccio tagliettini qui o la, metto tutto sul tavolo e ridisegno con la famiglia le nostre spese e la nostra vita. Per questo la conservazione di Pacher a prescindere, mi sembra una scelta del tutto inadeguata rispetto alla realtà. E dal punto di vista umano mi sembra poco dignitoso piagnucolargli dietro perchè ci ripensi. A che scopo?

Perché è un candidato condiviso dall’insieme della coalizione, si dice. Mentre lei no, sarebbe “divisiva”.

Ma non abbiamo mai avuto l’occasione di dialogare tra di noi, non sono state esplicitate le ragioni per cui io sarei “divisiva”!

Le rimproverano la sua gestione della carica di difensore civico, in particolare quando aveva detto che nelle istituzioni ci sono comportamenti mafiosi…

Mi sembra parziale e scorretto trasportare giudizi espressi in certi contesti per trarne conclusioni generali. E poi, pensano forse che questi giudizi non siano condivisi dai cittadini? Credo che invece si debba seguire la razionalità: io sarei contro la coalizione, perché dico che essa non deve essere un mito in sé, bensì un mezzo per realizzare delle finalità, dei progetti. E quello che io sostengo è che l’attuale pratica politica della coalizione, nella nuova situazione va rivista.

Forse sono contro una revisione delle attuali politiche?

Forse. Che lo dicano.

Dall'assemblea

Un'assemblea estenuante, da chiedersi da dove accidenti emergesse tutta l'energia necessaria a spingere ottanta persone a seguire una riunione iniziata alle 14.30 e finita alle 19.30, cinque ore filate, senza pause né particolari momenti di distensione. Faticosa però è stata soprattutto la prima parte, quella dedicata all'analisi degli sviluppi politici nazionali, che sembrava pensata per ritardare il più possibile il momento delle decisioni. Fosse o meno nelle intenzioni di qualcuno, di certo il tergiversare iniziale ha contribuito a spossare più d'uno tra i presenti. Due cose mi sembrano fotografare bene quanto fosse lontana dalla realtà l'analisi del segretario Nicoletti: nel - lungo - intervento ha chiamato in causa il M5S una volta soltanto, quasi en passant, ma è stato ben attento a ricordare di quando il Parlamento votò su Ruby nipote di Mubarak. Come se nelle ultime settimane non fosse successo niente. Prendono la parola i membri dell'assemblea. La situazione, un intervento dopo l'altro, inizia a delinearsi abbastanza chiaramente. Tensione e attenzione aumentano, ed emergono due posizioni distinte. Da una parte ci sono quelli che nel partito osteggiano strenuamente le primarie, anche adducendo argomenti un po' risibili (uno su tutti, Dorigatti: "Bersani ha vinto le primarie, è forse al governo? A momenti ci finiva Renzi! E guardate invece la Serracchiani e Zingaretti... hanno forse fatto le primarie loro?") Dall'altra ci sono quelli le cui motivazioni l'Adige ha derubricato a "ambizioni personali" e "pedissequo rispetto dello statuto" (28 aprile, Daniele Battistel), che invece invocano le primarie di partito. C'è poi una terza posizione, un po' finta però, in pratica un mascheramento della prima. Primarie sì ma solo di coalizione. E con un candidato per partito. E il nostro è Pacher. La questione sembra proprio girare intorno a questa mitica coalizione. La verità è che gli anti-primarie sembra abbiano preso paura dopo aver fatto due conti: se vince qualcuno come la Borgonovo, la coalizione potrebbe smettere di esistere, e il Pd dovrebbe presentarsi da solo. Un ragionamento tutto incentrato sulle burocrazie: proprio un candidato come Borgonovo sarebbe invisa ai mammasantissima, ma dal forte appeal verso l'intera base elettorale del centro-sinistra. Ma forse è proprio questo che spaventa. E allora perché le primarie? Al di là del segnale positivo che un partito dà al proprio elettorato (e viceversa, come si è visto nelle ultime primarie nazionali) ci sono altri due punti. Pacher ha dichiarato mesi fa di non trovarsi a suo agio nel Pd trentino per questioni 'politiche'. La situazione quindi è - almeno formalmente - assai strana: no alle primarie, che magari lo convinciamo, o ci proviamo. Secondo: Pacher è il presente/passato, l'immobilità, il modo migliore che ha il Pd Trentino di seguire a ruota quello nazionale verso il burrone. "Le primarie non sono il fine, ma soltanto un mezzo", hanno ripetuto in diversi durante l'assemblea. A quanto pare, però, lo stesso discorso non si può fare per la coalizione Pd-Patt-Upt.

Alberto Gianera