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QT n. 4, aprile 2016 L’editoriale

Perché il terrorismo?

Il terrorismo non è una guerra. È una cosa diversa e anche peggiore. In guerra due schieramenti si combattono per annientarsi. Ciascuno tende a eliminare l’altro e a sopravvivergli per conquistare le sue terre. Nel terrorismo è tutto diverso.

Il terrorista che si fa esplodere non ha come fine di uccidere il nemico. Fra coloro che ammazza può esserci persino qualche suo amico. La strage che provoca con la propria morte non è il suo fine, è un mezzo, una carneficina prodotta con la propria estinzione allo scopo di diffondere il terrore. Cioè la percezione di insicurezza, di un pericolo per la propria vita, diffusa fra le comunità oggetto degli attentati. Il terrorista non vuole sopravvivere a chi uccide. È preda di un fanatismo religioso che lo induce a sacrificare la vita per terrorizzare interi popoli.

Quale può essere il movente che induce un essere umano a tale comportamento? Ho accennato al fanatismo religioso. Ma non vi è competizione fra religioni.

L’Islam come religione non è minacciata dall’invadenza di altre religioni. Né vi sono sintomi che esso voglia sostituire le altre fedi. Esistono conflitti secolari entro l’Islam fra sunniti e sciiti, ma non si capisce perché tali tensioni debbano scaricarsi fuori dal mondo islamico. Quindi la motivazione religiosa non basta, anche se probabilmente è presente in qualche kamikaze. I motivi che possono indurre ad aderire a tali iniziative terroristiche possono essere immaginati: oltre al fanatismo religioso, la miseria, un disperato disagio sociale. Ma quali sono i motivi che muovono l’organizzazione che sta dietro a questi disperati, quali le cause e i fini del terrorismo? Questa è una domanda alla quale non so trovare risposta.

Il terrorismo lo abbiamo già conosciuto. Il primo clamoroso atto di terrorismo nella storia moderna fu il bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki deciso da Roosvelt. Il suo scopo non era la sconfitta del Giappone, ormai esausto. I centomila e più innocenti massacrati furono solo il mezzo per avvertire l’Unione Sovietica che gli USA disponevano dell’arma atomica. Stava cominciando la “guerra fredda” e Washington ritenne di dover terrorizzare Mosca. La quale rispose poco dopo facendo sapere che anch’essa era venuta in possesso dell’arma atomica, ed il reciproco terrore ci ha risparmiato la terza guerra mondiale.

Vi è poi il terrorismo che abbiamo conosciuto nella nostra Regione, a cavallo fra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso. Il primo Statuto di autonomia non era stato applicato, l’SVP proclama il “los von Trient” e alcuni gruppi estremisti mettono le bombe sotto i tralicci provocando morti innocenti. Il governo della Repubblica invade l’Alto Adige con polizia, carabinieri e persino esercito, col risultato di aumentare gli attentati e la simpatia dei sudtirolesi per i loro esecutori. Finché prevale la saggezza e si negozia la soluzione del problema concludendo il dramma con il nuovo Statuto. Gli atti di terrorismo anche in questo caso non tendevano a risolvere il problema, erano solo dei mezzi per costringere Roma ad affrontarlo.

Ebbene, oggi qual è il fine perseguito dai terroristi che si infiltrano in comunità umane, in Europa ma anche fuori dall’Occidente, per provocare vittime del tutto casuali? E soprattutto qual è il fine cui mira, con questi attentati, il Califfato Islamico che coordina, finanzia e stimola tali comportamenti?

Il fenomeno è terrificante. Non tanto per il numero delle vittime. Sono più numerose quelle provocate dalla circolazione stradale od originate da crisi familiari. Ma per gli effetti che provoca sulla società. La paura di trovarsi ad uno spettacolo, in una manifestazione sportiva, in un convegno nei quali può accadere un’esplosione omicida induce ad astenersi dal partecipare. Sopravviene l’inclinazione a isolarsi, a starsene a casa, a non esporsi al rischio. Un tale patema è destinato a mutare radicalmente la nostra società, addirittura la nostra civiltà. Quindi per evitare tale catastrofico effetto è necessario anzitutto non farsi terrificare, continuare a condurre la nostra esistenza.

Ma non basta. La prima reazione, quasi istintiva, è puntare su una polizia efficiente, unica per tutta l’Europa, capace di individuare i mestatori e gli esecutori degli attentati, prima che li abbiano compiuti. Ma anche questo non basta. Occorre intervenire sui meccanismi economici che sostengono il Califfato anche con la nostra complicità, come il traffico del petrolio e delle armi, e sull’ambigua politica di alcuni Stati, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi.

Ma non basta ancora. È necessario capire le cause che generano il terrorismo. È relativamente facile intuire quelle che operano sui singoli individui: la loro disperazione, il fanatismo religioso, forse anche una morbosità psichica. Più difficile, almeno per me, è scoprire le motivazioni che inducono il Califfato Islamico a organizzare un simile movimento. Motivazioni politiche, economiche, religiose? Volontà di vendetta verso l’Occidente per ciò che di inumano ha fatto nei secoli in quelle terre? Ma allora perché terrificare anche in Pakistan?

Finché non troveremo una risposta a queste domande non sarà possibile promuovere una adeguata azione politica che sola potrà porre fine a questa spaventoso fenomeno.