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QT n. 4, aprile 2016 Seconda cover

Buona scuola... e buon lavoro?

Alternanza scuola-lavoro tra favorevoli e contrari. Ma di sicuro è una riforma raffazzonata.

Accade il 26 febbraio 2016: la Provincia emette una delibera che recepisce quanto previsto dalla “Buona Scuola” – la nota legge nazionale di riforma scolastica, a forte impronta renziana, in materia di stage curriculari per i ragazzi di tutte le scuole secondarie, licei compresi.

Scoppia il putiferio: più di un insegnante contesta aspramente, al Liceo “Da Vinci” il Collegio Docenti addirittura blocca l’adozione del progetto, mentre i sindacati approvano la proposta. Contrari la UIL ed alcuni ex-dirigenti scolastici. Ma cosa prevede realmente la legge e che tipo di impatto avrà sull’organizzazione della didattica?

Come funziona

Dal punto di vista puramente didattico, al di là delle opinioni personali, l’idea dell’alternanza scuola-lavoro è una novità nel panorama scolastico italiano e trentino. Secondo la delibera, uno studente liceale deve svolgere obbligatoriamente 200 ore nel corso del triennio finale, in attività di alternanza scuola-lavoro, mentre un collega delle scuole tecniche e professionali ne dovrà affrontare 400.

Quindi una media di 67 ore per anno nei licei, e 133 negli istituti tecnici. In pratica gli studenti del triennio devono vivere un’esperienza a contatto col mondo del lavoro e le scuole devono creare queste opportunità, attivando convenzioni con aziende private o enti pubblici.

Un’esperienza simile, su scala più ridotta, la Provincia l’aveva già avviata nel 2014, con tirocini estivi attuati su domanda dello studente e quindi volontari, e retribuiti (paga mamma Provincia) con 70 euro settimanali. Lo scorso anno gli studenti coinvolti furono 1900.

L’alternanza scuola-lavoro invece, che può anche svolgersi in estate, è gratuita e soprattutto obbligatoria, e anche soggetta a valutazione finale, alla maturità. Coinvolge quindi non dei volontari, ma la totalità delle classi e degli studenti, comportando quindi una certa complessità organizzativa.

Come ci spiega la dirigente del Liceo “Rosmini” di Trento, Matilde Carollo, “la scuola predispone l’intervento attraverso un progetto generale del Consiglio di Istituto, poi spetta al Consiglio di Classe organizzare le attività esterne e interne, decidere i tempi e i modi delle collaborazioni, individuare i tutor di classe, mentre il singolo studente decide a quale attività partecipare”.

Dall’altra parte ci sono le aziende che, contattate da un referente d’Istituto, aderiscono alle proposte promosse dai Consigli di Classe e individuano un tutor aziendale che entrerà in relazione con il tutor di classe per gestire le attività.

Gli studenti, a quel punto, partecipano alle attività: potranno recarsi presso i locali dell’azienda e svolgere ciò che il progetto prevede; per fare alcuni esempi, sarà possibile coadiuvare l’amministrazione nelle sue funzioni, seguire riunioni, sperimentare software gestionali, collaborare allo sviluppo di strategie di marketing. L’idea di fondo è che da un lato si possano sperimentare sul campo le competenze acquisite a scuola, dall’altro se ne possano assorbire di nuove.

“Ciò non significa – continua Carollo - che tutte le ore debbano essere svolte in esterno: parte del tempo previsto può essere impiegato in classe per progettare le collaborazioni o per assistere ad interventi di esperti. È possibile infatti anche svolgere attività di impresa simulata, in cui le aziende o clienti esterni richiedono commesse reali ai ragazzi, che le elaborano in classe”.

Un liceo artistico, ad esempio, potrebbe prestarsi a svolgere progetti grafici di marketing (logo aziendale, grafiche, cartelloni pubblicitari) o restaurare un mobile di un privato. Una classe di Geometri potrebbe aiutare uno studio di ingegneria nello svolgere i rilievi di un terreno per un progetto futuro, e via così.

“Al termine delle attività - precisa la dirigente del “Rosmini” - è previsto un momento per tirare le somme: la rielaborazione in classe dell’esperienza dovrà produrre una forma di rendicontazione dell’attività che poi diventerà la base di quanto verrà presentato all’esame di Stato”. Sì, perché, trattandosi di attività curriculare, ovviamente potrà essere oggetto di discussione in sede di esame di Stato, anche se ad oggi non ne sono state definite le modalità. Del resto ci sono ancora due anni di tempo, visto che i primi studenti interessati alla novità saranno quelli che oggi sono in classe terza e che termineranno la secondaria superiore nell’anno scolastico 2017-18.

Gli oppositori

Come si diceva, il recepimento da parte della Provincia della normativa nazionale ha aperto un dibattito acceso. Una delle questioni più discusse è se le attività siano effettivamente utili e spendibili nel futuro lavorativo dello studente.

Per gli Istituti Tecnici la risposta è abbastanza intuitiva: dovendo formare geometri, ragionieri e periti industriali, per dirne alcuni, si può facilmente dedurre che le attività di alternanza scuola-lavoro permetteranno agli studenti di sperimentare prima del tempo alcuni aspetti del lavoro che potranno scegliere di svolgere. Si potranno spendere le competenze acquisite in classe presso l’azienda ospitante. Si avrà anche la possibilità di essere guidati da chi quel lavoro già lo fa da tempo, rubando qualche trucco del mestiere.

Per i licei, invece, il collegamento fra lavoro e formazione non è così diretto: i piani di studio liceali hanno una struttura prevalentemente teorica, volta alla crescita più culturale che professionale degli studenti, tanto che le conoscenze e le competenze che vengono impartite quasi mai sono direttamente collegate ad una qualche attività lavorativa. Diventa complesso, quindi, capire su quali basi dovrebbero essere strutturate le attività di alternanza scuola-lavoro.

Proprio su questo aspetto sono divampate le polemiche. Alcuni insegnanti liceali ritengono che questi lavori in azienda siano praticamente inutili dal punto di vista didattico. Al liceo “Da Vinci” di Trento un gruppo di 72 insegnanti (vedi intervista “Le ragioni del no”), al termine di un Collegio Docenti, emette un documento di dissenso: “Esprimiamo con forza la nostra contrarietà rispetto alla ratio ed all’intero impianto della legge e quindi anche al suo recepimento e rifiutiamo ogni forma di collaborazione alla sua attuazione”.

Un’insegnante di quello stesso istituto, Eliana Agata Marchese, in una lettera al quotidiano l’Adige del 4 marzo, spiega meglio la sua posizione e quella dei colleghi. Secondo Marchese, “i nostri ragazzi, impegnati a far fotocopie o a riordinare archivi inutili, avranno maggiori difficoltà a superare un test di Medicina: questa è la realtà. […] Chi si iscrive a una scuola superiore deve formarsi come individuo, deve imparare ad apprendere, non deve perder tempo con lavoretti poco qualificati proprio negli anni in cui il suo cervello è più elastico”. Secondo gli oppositori della proposta, dunque, non ci sarebbe nessun vantaggio culturale o professionale, ma si sta costringendo i ragazzi ad una perdita di tempo istituzionalizzata.

I fautori

Diversa è l’opinione dei fautori dell’iniziativa: ogni studente non può più essere considerato un puro contenitore di conoscenze. Va visto come un cittadino che, oltre alle competenze specifiche nelle materie trattate, deve possedere quelle competenze trasversali e di cittadinanza che facilitino la sua integrazione nelle comunità e nei contesti organizzativi di cui farà parte nel corso della vita. In parole semplici, una persona, a parte le cose che conosce e che sa fare, deve saper anche gestire delle relazioni con le persone con cui lavora, rispettare tempi di consegna, rendicontare le proprie attività e via dicendo. E più in generale, un cittadino non deve solo conoscere il mondo dello studio, ma anche quello del lavoro.

Certo, a indisporre nei confronti del progetto i docenti (e non solo loro) è che esso può apparire una ricaduta della finora egemone cultura dell’impresa, per cui tutto quello che è azienda e mercato è positivo, il resto è parassitismo.

“Capisco – risponde Andrea Grosselli, della segreteria della Cgil – ma reagire dicendo che l’impresa stia fuori dalla scuola, significa accettare la frattura scuola/lavoro, cultura/produzione, mentre la scuola potrebbe insegnare agli studenti a fare i buoni imprenditori, e così qualificare il sistema sociale, non limitarsi a creare nuovi studiosi”.

“Un avvicinamento al mondo del lavoro, se non è sbilanciato, non può che essere positivo – aggiunge la prof. Sara Ianeselli, referente al “Prati” proprio per il progetto alternanza – E in quanto ai timori sulla cultura dell’impresa unico riferimento valoriale, non sono infondati: ma si tratta di costruire progetti funzionali non a questa cultura, ma al percorso di studi”.

E qui si arriva al punto. Riuscire a costruire progetti adeguati, seguirli, controllarli, valutarli. Al Liceo Prati, per esempio, si è scelto, soprattutto in questa fase di avvio, di dar vita ad attività molto vicine alla realtà di un liceo classico.

“Il nostro obiettivo è mettere in pratica le competenze acquisite a scuola – ci dice Ianeselli - Infatti, oltre a svolgere il tirocinio nell’azienda, è possibile anche il project work, ossia prendere commissioni da parte dell’ente esterno da eseguire anche internamente. Facciamo un esempio: un museo commissiona delle guide. Lo studente prende in carico l’attività, è lui che la svolge. È supervisionato, ma è operativo. L’ente esterno, assieme al tutor interno, valuta il prodotto finale, che non deve per forza essere perfetto. Magari, poi, può essere utilizzato, con dovuti aggiustamenti, ma questo non è in realtà fondamentale: la cosa importante è che si sia realizzato un certo processo, più che il prodotto finale. Ad esempio, abbiamo già realizzato un progetto con il Fai in cui gli studenti hanno preparato una guida che poi usano per fare da ciceroni per i visitatori dei vari siti gestiti dall’ente”.

Gli aspetti critici

Ora è chiaro che organizzare tutto questo non è semplice. E i punti critici si sprecano.

Secondo molti degli attori coinvolti, fautori o oppositori, ci sono almeno un paio di questioni su cui si focalizza il dibattito. Il primo è il controllo delle attività: chi garantisce che i piani predisposti vengano poi rispettati, e non vi siano studenti che vengano invece dirottati a far fotocopie ed archiviazione dei documenti?

Sulla base di quanto abbiamo già detto, l’esistenza di un progetto condiviso tra scuola ed azienda, già di per sé sarebbe un forte deterrente, con i tutor di classe che possono sempre andare a verificare quanto viene svolto in azienda, individuando (e risolvendo) eventuali problemi. Secondo i fautori, quindi, il monitoraggio costante degli insegnanti tutor sulle attività sarebbe a garanzia del corretto svolgimento delle attività. Gli oppositori, dal canto loro, ritengono che ciò non sia realistico.

Il secondo aspetto è la ricettività del tessuto economico del territorio: il Trentino ha un substrato economico abbastanza grande da poter accettare il notevole numero di studenti che dovranno essere ospitati in azienda per le attività?

Gli studenti coinvolti nell’alternanza scuola-lavoro sono circa 18.500 (triennio delle superiori e formazione professionale). Al contempo le imprese iscritte alla Camera di Commercio sono oltre 51.000. Il punto è: quante di queste potranno essere coinvolte in un progetto che vede una persona estranea presente in azienda?

Per aumentare la capacità recettiva, la Provincia ha invitato enti a vario titolo, quali ad esempio gli Ordini professionali, affinché incentivino i professionisti a partecipare al progetto e ad accogliere gli studenti. E anche l’Università può essere un buon bacino recettivo; secondo Grosselli “si potrebbe allargare anche al mondo del volontariato, cosa oggi non prevista; tutte le indagini confermano la forte crescita di competenze dei ragazzi che vi lavorano”. Basterà?

Il fatto è che tutto questo è letteralmente piombato addosso alla scuola, in corso d’anno scolastico, senza alcuna preparazione, senza alcuna gradualità: gli Istituti della Provincia sono stati costretti ad un immenso lavoro riorganizzativo, comprensivo anche di un non facile riorientamento culturale al proprio interno, da attuare in pochi mesi. Le date parlano chiaro: “La legge nazionale è del 13 luglio scorso, la Provincia ha preso tempo fino a fine febbraio per licenziare la sua delibera: e ora in uno-due mesi le scuole dovrebbero organizzare un terzo delle 200-400 ore? È semplicemente impossibile” - esclama Il segretario della UIL Pietro Di Fiore. Solo qualche Istituto che già precedentemente aveva attivato percorsi di alternanza scuola-lavoro (come il Liceo “Rosmini” di Trento e le scuole professionali) è stato in grado di gestire l’emergenza lavorando in anticipo sulla politica..

Ma anche chi è favorevole all’alternanza lamenta la deplorevole fretta, l’inevitabile approssimazione con cui si dovranno fare le cose: “È risultata una cosa nuova, calata dall’alto, senza preparazione, il nostro Collegio Docenti non ha apprezzato questo ritardo delle istituzioni che a fine febbraio hanno scaricato su di noi il compito di organizzare entro il corrente anno scolastico una tale novità – afferma Sara Ianeselli - Siamo stati costretti a partire senza linee guida, sapevamo solo che dovevamo partire. Ora sappiamo anche che dovremo partire senza fondi, visto che per quest’anno la PAT non ha finanziato questo capitolo. Nel nostro Istituto non è sorta una protesta organizzata, ma i malumori ci sono, e fondati”.

Insomma la politica, con un dilettantismo disarmante ed un ritardo clamoroso, ha trovato il modo di mettere i bastoni tra le ruote ad un’iniziativa fortemente innovativa. “Molto dipenderà da come i due tutor, quello della scuola e quello in azienda, riusciranno a garantire un effettivo percorso formativo – afferma Grosselli - Se ciò non avviene efficacemente, si rischia la deriva burocratica: le scuole che fanno tanto per fare, le imprese che utilizzano mera manovalanza, costringendo gli studenti ad attività senza alcuna valenza formativa”.

Speriamo di no.

Il progetto del Liceo Prati

A colloquio con la professoressa Sara Ianeselli, referente d’Istituto per l’Alternanza.

Qual è il suo ruolo?

Il mio compito è istituire e mantenere i contatti con le aziende, mentre i Consigli di Classe progettano l’alternanza pescando dai contatti che tengo io. Il progetto per legge deve essere personalizzato per lo studente.

Quali e quante realtà sono disposte a lavorare con voi?

Ho trovato finora porte aperte, solo qualche timore per la sicurezza di minorenni. Però il problema dei numeri c’è senz’altro. Speriamo che si muova l’ente pubblico: finora abbiamo ricevuto risposte positive e celeri da Sovrintendenza dei Beni Culturali e Museo del Buonconsiglio. Teniamo presente che il nostro obiettivo è mettere in pratica le competenze apprese a scuola, e quindi ci rapportiamo a realtà che possono darci risposte a questo livello. Da qui il tipo di proposte che abbiamo elaborato: in collaborazione con la Sovrintendenza, vedere come lavorano i suoi uffici, o restaurare i libri antichi della nostra biblioteca d’istituto.

Sono previste attività più lontane dalla realtà del Classico?

Quest’anno ci siamo concentrati su attività più prossime, ma nulla vieta che in seguito si vada anche in altre direzioni. Il punto è che non ci sia solo l’erogazione di una prestazione fisica, ma deve esserci un avvicinarsi a delle competenze: nel mondo del lavoro non c’è solo l’avvitare il bullone, ma conoscere il sistema produttivo o quello commerciale.

I numeri in gioco?

Quattro prime Liceo (che corrispondono alle terze degli altri istituti, n.d.r.), 70 studenti. Dovremo necessariamente raggrupparli, è impossibile allestire in due mesi 70 percorsi individuali. La modalità scelta è quella secondo cui è l’ente esterno che commissiona il lavoro, da svolgersi nelle strutture della scuola. Abbiamo cercato di valorizzare quanto già facevamo per esempio con il Fai, riorganizzando l’attività in modo da inserirla nel progetto scuola-lavoro. Il Collegio Docenti ha deciso la sospensione per le prime Liceo delle lezioni dal 2 al 6 maggio, per permettere l’alternanza, 8 ore obbligatorie su 5 giorni.

Quindi avete imboccato questa strada con molta decisione...

La mia idea è che il progetto non si possa realizzare fuori dall’anno scolastico, all’interno del quale è tutto più gestibile, controllabile, rispetto a attività estive, che pure sarebbero concesse. Inoltre l’alternanza già da quest’anno deve essere valutata nello scrutinio di giugno. Se si facesse d’estate, verrebbe valutata nell’anno successivo.

Alternanza Scuola-Lavoro: un déjà-vu...

… negli anni ‘70

Il gruppo comunista del “Manifesto”, negli anni ‘70, propugnò, in vista di una società senza discriminazioni, una scuola in cui vigesse il principio delle “4 ore di studio, 4 di lavoro”.

… nella letteratura fantasy

Nella saga fantasy del “Trono di Spade”, la principessina decaduta Arya Stark (nella foto tratta dall’omologa serie TV), un’undicenne costretta ad attraversare gli orrori e le infamie della guerra, quando alfine ripara presso un tempio-università dell’assassinio, per prima cosa non viene addestrata all’uso delle armi: la si mette a fare la pescivendola.

Le ragioni del NO

Liceo Da Vinci

Come già detto, al Liceo “Da Vinci” di Trento un’ampia maggioranza del Collegio Docenti (72 su 120) ha bloccato l’adozione del piano per l’alternanza scuola-lavoro. Abbiamo chiesto a due rappresentanti del gruppo, i docenti Massimo Pellegrini e Antonio Carapella, il loro punto di vista.

Cosa non va di questa legge?

Viene modificato quello che è il senso dell’esperienza scolastica: la scuola non è più il luogo di formazione dei cittadini ma il luogo di preparazione di esecutori materiali, gente che deve abituarsi a svolgere dei compiti, avere delle mansioni. Quello che preoccupa è che l’alternanza diventa componente strutturale dell’offerta formativa. La scuola si mette a disposizione delle aziende.

A conti fatti, 200 ore nei tre anni significano 63 ore all’anno, cioè due settimane. È davvero così impattante questo monte ore?

Il problema è il carico di lavoro per i ragazzi: già oggi il lavoro scolastico e le attività di recupero richieste dalle famiglie saturano i loro pomeriggi. Nel quinto anno poi, tra corsi di preparazione ai test di ammissione e visite all’università, i ragazzi mancano minimo una settimana; incastrare altre 63 ore ci sembra una follia. Altro aspetto: questa attività diventerà oggetto di una terza prova dell’Esame di Stato. Come si fa a tradurre in valutazione curriculare un’esperienza spesso così generica che i ragazzi svolgono fuori dalla scuola?

Oltre al fattore tempo, quali aspetti non vi convincono?

La tendenza all’obbligatorietà di queste esperienze. Se finora, entro certi limiti, sono state valide, è perché erano liberamente scelte dallo studente: questo ha consentito di organizzarle meglio. Non va trascurata la questione dei diritti dei ragazzi che comunque sono equiparati ai lavoratori, tranne che per la parte retributiva. Nei tirocini tradizionali, i ragazzi venivano pagati attorno ai 70 euro la settimana. Con questi tirocini il pagamento è zero. È una questione di principio: se uno lavora deve venir pagato, altrimenti che educazione stiamo dando?

Secondo i fautori dell’iniziativa, l’esperienza ha per scopo il confronto con la realtà lavorativa, più che l’acquisizione di nuove competenze spendibili. Perché ritenete questo inutile?

Questa pretesa di acquisire competenze spendibili nel mercato del lavoro è un’illusione: al massimo si tratta di un’infarinatura. È lì che ci stanno portando, alla scuola dell’infarinatura. I ragazzi, nell’esperienza dell’alternanza così strutturata, vedono una versione del lavoro edulcorata, col tutor che li accompagna tenendoli per mano. Sembra più una gita scolastica in azienda che lavoro vero. È evidente che si cerca di togliere valore critico all’esperienza scolastica.

Perché nel vostro documento, si parla di funzione docente snaturata dal ruolo di tutor?

Per il rapporto che l’istruzione pubblica è obbligata a instaurare con i privati, consentendo loro di far valere i propri interessi. La funzione docente cambia radicalmente: il lavoro scolastico non è più orientato a far crescere culturalmente, mentalmente e civilmente gli alunni, ma ad essere funzionale all’azienda. La legge questo lo dice in maniera chiara.

Ma si tratta solo di una parte ridotta della programmazione didattica…

Che però potrebbe incidere in maniera notevole: abbiamo più di 600 studenti al triennio da coinvolgere obbligatoriamente. Il lavoro organizzativo diventerebbe preponderante.

Pietro Di Fiore, segretario Uil scuola

Che idea s’è fatto di questa iniziativa?

Ci sembrano i soliti progetti con tanto fumo e poco arrosto. Per dieci anni ci siamo formati sulle competenze e macrocompetenze, ma ora andiamo sulle micro competenze. Il trilinguismo e la scuola-lavoro ricercano la micro abilità, la micro utilità. Passa l’idea che la scuola debba puntare non a formare, ma ad addestrare. Agli studenti si chiede di utilizzare parte del loro orario nelle aziende, mentre agli operai delle aziende decotte chiedono di formarsi: è un corto circuito. Alcuni progetti anche con il supporto delle aziende potrebbero essere accettabili, ma devono essere monitorati e valutati. Per le professionali può esserci un’utilità, per i tecnici forse qualcuna, ma trovarla per i licei è difficile.

Però anche il contatto col mondo lavoro può essere un momento formativo…

Senz’altro, però come è stato messo da legge e delibera è tutto raffazzonato, più costruito per fare fumo e apparenza che formazione. A livello nazionale mi dicono che agli studenti si dice “cercati un’azienda”, con i professionali che vengono messi a fare lavoretti senza nessuna qualificazione. È l’idea della scuola facilmente spendibile, un’efficienza preordinata all’efficacia.

Forse è una questione di tempi ristrettissimi…

Senz’altro.

E una questione di numeri: non ci sono troppi studenti per poche imprese?

Gli insegnanti della formazione professionale, che da anni organizzano stage, esprimono forti dubbi su avere un numero di imprese adeguato. Abbiamo aziende che riducono orari di lavoro, chiedono contratti di solidarietà... non so come possano dare spazio a stagisti. I progetti di alternanza potrebbero esserci, ma più mirati, non a pioggia.