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Strumenti didattici

Attilio Monasta - Chiara Torrigiani, Strumenti didattici per la formazione integrata. Carocci,2005, pp.160, 15,30.

E’ sorprendente un volume sulla scuola in cui la parola chiave è lavoro. Sulla scuola italiana, che riconosce però nell’Europa la spinta alle riforme di cui essa ha bisogno. Io ho imparato in anni lontani, da Jerome Bruner, che la scuola non è un’isola, ma parte del continente. Ne trovo conferma, in questo studio d’attacco, senza pause e fotografie, di Attilio Monasta, docente di Pedagogia all’Università di Firenze. Impervio di dati, di leggi, decreti, e delibere; di direttive (dell’Unione europea); di documenti (delle Conferenze Stato-Regioni). Per usufruire dei materiali pratici si deve accedere al sito www.carocci.it, curati, per Aristeiaonline, da Chiara Torrigiani.

Tra le competenze essenziali, quelle che l’istruzione di base deve fornire, a tutti, dai 6 ai 18 anni, Monasta ci mette la "padronanza delle tecnologie", e non solo delle tecnologie dell’informazione, ma anche l’uso domestico di utensili e macchinari, la manutenzione ordinaria di impianti di uso comune a qualunque persona. Senza imprecare, è tutta in queste parole la crisi del liceo, la scuola senza mani, che una gloriosa tradizione culturale di élite ci ha tramandato.

Competenze di base sono anche la "comunicazione efficace", la capacità cioè di comprendere ed esprimersi con vari linguaggi (verbali, corporei, artistici, musicali), la "capacità di elaborazione logica ed operativa", la "relazione con sé e con gli altri". Senza imprecare, è descritta così la crisi della formazione tecnica e professionale.

Ancora nel 1954, in un paese del Trentino, cinque bambini di quinta elementare, tentando l’esame di ammissione alla scuola media, chiedevano di essere avviati allo studio, mentre gli altri trentacinque compagni accettavano di andare al lavoro. Questo per quanto riguarda la mia storia personale. Pensavamo di esserci sistemati per tutta la vita, lungo i suoi "ordini e gradi". La storia, infatti, ci pareva ferma.

La trasformazione del lavoro e l’esplosione dei saperi, invece, dalla metà del Novecento, producono una svolta epocale: l’economia globalizzata basata sulla conoscenza. Da essa discende la necessità di superare progressivamente la separazione fra istruzione (scolastica) e formazione (professionale), e, più profondamente, fra cultura e professionalità. Fra scriba e analfabeta: la cultura cessa di essere un ornamento, e la professione un affare.

La riforma del "sistema formativo" verso una "formazione integrata" ha dunque lo scopo di superare "la separazione tra coloro che possono interpretare, coloro che possono utilizzare, e coloro che non sono in grado di fare né l’una né l’altra cosa".

E’ un’istanza superiore, l’Unione Europea, che coglie, con il Trattato di Maastricht (1992) e l’introduzione dell’euro, la portata e la durezza della trasformazione necessaria. E’ sul processo di integrazione europea (la moneta unica richiede condizioni simili di sviluppo economico e sociale) che si innesta, quindi, e trova linfa, vincoli, spinte, il cambiamento del sistema di formazione.

In questa europeizzazione dell’economia e delle professioni, hanno origine, fra il resto, anche i concetti di competenza, certificazione, portfolio, curricolo, modulo, credito, standard, stage, Erasmus, doppia laurea, formazione continua (lifelong learning).

Parole che fanno inorridire tanti intellettuali tradizionali, che imperversano sui giornali, e fanno opinione. Il disprezzo, però, è non solo un errore, lascia anche perire quei valori culturali che si vorrebbero preservare dalla contaminazione economicistica.

Le spinte della trasformazione economica e sociale sul sistema formativo, in senso "unitario", agiscono anche in Italia, in alcuni segnali, tardivi e contraddittori nell’esito. L’istruzione di base è prolungata, con la scuola media unica, nel 1962, e i criteri di valutazione qualitativa, nei giudizi finali sugli allievi, sono introdotti nella scuola elementare e media nel 1979. Viene unificato lo stato giuridico degli insegnanti, e viene avviata, in un nuovo rapporto fra scuola e territorio, una gestione democratica delle istituzioni scolastiche.

Ma la legge sul livello universitario per gli insegnanti elementari non viene attuata, e i corsi di formazione universitaria per gli insegnanti partono, fra resistenze e polemiche, solo nel 1998. Fallisce la riforma della scuola secondaria superiore, che doveva mettere mano al rapporto tra istruzione scolastica e formazione professionale. Viene bloccato persino il progetto (2001) di unificare in un’unica scuola primaria la fascia di età fra i 6 e i 13 anni.

E tuttavia lo stare in Europa ci costringe, al di là del variare delle maggioranze politiche, ad alcune scelte irrinunciabili. Sarà maggiore o minore la convinzione, e la disponibilità a investirvi risorse, ma l’innalzamento complessivo del livello di scolarità dal punto di vista quantitativo e qualitativo (dalla scuola dell’infanzia all’università) è un processo irreversibile.

Decisione improvvida, quella del centro-destra, di abrogare la legge appena approvata dal governo dell’Ulivo sull’obbligo scolastico (a 15 anni) e formativo (a 18). Ma la scelta di sostituirla con il diritto-dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni rivela che il problema della "formazione integrata" rimane. E le conseguenti elaborazioni di alternanza fra studio e lavoro non vanno liquidate con disprezzo.

Alla logica del "curricolo", inoltre, per pure esigenze di contrapposizione polemica, il nuovo governo ha sostituito quella dei "piani di studio personalizzati". Così gli operatori, che faticosamente stavano imparando, nell’ambito dell’autonomia scolastica, a progettare e valutare per competenze, sono finiti disorientati. Ma nessuno ha potuto reintrodurre il programma dettato dal ministero nei suoi contenuti, o abolire la progettazione per moduli.

Al di là della diatriba, tutta "politica", rimane, per entrambi gli schieramenti, la difficoltà culturale a misurarsi sul rapporto tra cultura e lavoro. Monasta sostiene, mi pare, che fare dell’età della scelta il punto discriminante (a 13 invece che a 15 anni) rivela, anche nel centro-sinistra, la difficoltà a pensare un’autentica "formazione integrata", tutta di alto, eguale livello. Se ognuno, fino alla maggiore età, deve essere in formazione, il sistema formativo, unitario e differenziato in percorsi, deve fornire a tutti le stesse competenze di base, e poi competenze specifiche e trasversali.

Il titolo di studio, con valore legale, deve garantire l’accesso all’università, ai corsi professionali, a quella formazione continua che oggi l’innovazione (dei lavori e dei saperi) richiede al lavoratore per tutta la vita.

Qual è l’origine della difficoltà degli insegnanti a pensarsi come operatori efficaci in questo "sistema formativo" nuovo? E’ che il ruolo della scuola è stato, naturalmente fino alla metà del Novecento, quello di riprodurre le stratificazioni sociali, cioè di formare la ristretta classe dirigente del paese. Mentre oggi, in una società di massa, la funzione di "canalizzazione" sociale non spetta alla scuola. Né, ormai, all’università: anche se molti accademici si lamentano del fatto che la scuola non sa più svolgere bene il compito per cui è nata, cioè quello di selezionare. Ma nel 1962 lo stesso lamento era rivolto dagli insegnanti medi alla scuola media per tutti: sarebbe stata una catastrofe.

La precoce fuoriuscita dal sistema di un numero elevato di giovani non è normale, è solo uno spreco. Se un giovane esce, o è espulso, non è perché vuole andare a lavorare (anche se talvolta si esprime così), è perché quell’ambiente, per il suo stile di apprendere, gli è insopportabile.

E lo spreco non sta solo nel massiccio insuccesso scolastico. Riguarda anche chi nel sistema resta, persino fino alla laurea. Ma vi ottiene, ha scritto altrove l’autore, (Testimonianze, n.430-431) un successo "illusorio", perché incoerente con l’evoluzione economica, sociale e culturale della società contemporanea. La stragrande maggioranza di piccoli imprenditori, anche quelli di successo economico, non ha oggi l’istruzione e la cultura sufficienti per una "convergenza" europea in materia di tasse, sicurezza, innovazione tecnologica.

Naturalmente agli insegnanti, chiamati a ridefinire la propria professionalità, Attilio Monasta riconosce che, insegnando, hanno sempre fornito ai propri allievi una grande quantità di competenze. Ma inconsapevolmente, in un curricolo nascosto. Oggi si tratta di porsi questo obiettivo per tutti, cioè di organizzare un sistema formativo che, rinunciando all’enciclopedismo, progetti e valuti "per competenze".

Anche la "relazione con sé e con gli altri" è competenza essenziale, ma l’autore non vi insiste, perché altro, cognitivo, è lo scopo del libro, a fronteggiare il lavoro che cambia, in Europa e nel mondo. Io penso però che, trattandosi di scuola, è bene che l’aspetto relazionale, emotivo, di cittadinanza, trovi (un qualche) spazio anche nel volume scientifico più rigoroso. Con almeno, che so, una fotografia di Chiara ed Attilio a Firenze.