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QT n. 2, febbraio 2017 Seconda cover

Il pericolo Trump

Le conseguenze del degrado della classe dirigente della più importante potenza mondiale sulla stabilità e sicurezza dell’Europa (e del mondo.

Trump

“Con questi dirigenti non vinceremo mai” – così sentenziava lapidario nel lontano 2002 Nanni Moretti nei confronti della classe politica (D’Alema, Fassino, Rutelli) che aveva gestito in modo fallimentare i partiti della coalizione di centro sinistra nella disputa elettorale contro un soggetto alquanto discutibile come Berlusconi. Gente molto ambiziosa, ma senza una propria visione della società e dell’economia da proporre all’elettorato e al paese (anche a causa della transizione in corso, e tuttora incompiuta, dal Partito Comunista a un altro soggetto ancora non definito). Alta percezione della propria indispensabilità, ma poco carismatici, in primis all’interno del proprio elettorato. Sempre pronti a prendere le redini di un partito, un po’ per colpa di un ego ipertrofico, un po’ per la necessità di ricevere contributi pubblici fondamentali a se stessi e alle proprie fondazioni “culturali”.

Peccato non sia esistito un Nanni Moretti negli Stati Uniti all’inizio del 2016, in quanto avrebbe potuto evitare una disfatta, dato lo stretto parallelismo tra la crisi dell’attuale leadership di “centrosinistra” USA e quella italiana.

Nei confronti di Hillary Clinton, se non fosse stata per l’ingombrante e preoccupante presenza di Trump, l’opinione di una buona fetta dell’elettorato democratico non sarebbe stata molto diversa da quella repubblicana: 35 anni ininterrottamente al potere trascorsi a stringere relazioni molto utili per finanziare le proprie fondazioni con leader democratici e non – inizialmente come first lady politicamente molto attiva nelle amministrazioni del marito sia in Arkansas (1979-1992) sia a livello di Stati Uniti (1993-2001), poi come senatrice dello Stato di New York (2001-2009) e infine come segretario di Stato (l’equivalente in Italia del ministro degli Affari Esteri) durante la prima amministrazione Obama (2009-2013).

Le critiche si riferiscono soprattutto all’ultima fase, in quanto proprio quando ricopriva il ruolo di ministro degli Esteri i finanziamenti da parte di governi stranieri (anche autoritari come l’Arabia Saudita) alla fondazione Clinton si sono moltiplicati per, secondo l’accusa, ottenere un trattamento di favore e riuscire ad influire sulle decisioni della Clinton.

E purtroppo, la figura opaca della Clinton non è riuscita a risollevare le sorti del proprio partito già in crisi di consensi dopo la prima amministrazione Obama. Nonostante un indice di gradimento relativamente alto al momento di lasciare la Casa Bianca, tra il 2008 (anno della prima elezione) e il 2016, il Partito Democratico ha perso 7 milioni di voti, a fronte di un aumento solamente di poco più di 1 milione di voti in campo repubblicano. E lo stesso vale per gli Stati “operai” del Midwest, dove i voti persi dai democratici sono stati tre volte superiori ai voti guadagnati dai repubblicani.

Questo è un tema fondamentale da considerare per contestualizzare la vittoria di Trump: non vi è stato, se non in termini limitati, un cambio nell’opinione del paese che si è riscoperto populista e protezionista da un giorno all’altro, non è stato un fantomatico acume di Trump nel comprendere i veri bisogni del paese a determinare la vittoria repubblicana, è stata soprattutto l’apatia in campo democratico a determinare questo risultato. Apatia prodotta da un leader percepito, secondo le inchieste pre-elettorali, come “onesto e degno di fiducia” da meno del 30% degli elettori, con l’aggravante della totale assenza di una visione della società e dell’economia da proporre all’elettorato e al paese. Mesi passati a contrastare i propositi qualunquisti di politica interna, estera ed economica di Trump parlando solamente della volgarità di certe espressioni di Trump, del fatto di aver deriso un disabile durante un comizio o di aver definito “miss piggy” (signorina maialino) una ex miss Universo. Aspetti sicuramente deplorevoli, ma che non possono determinare la campagna elettorale di un candidato che punta a vincere.

E le conseguenze che si prospettano sono molto preoccupanti.

“America first”

Il tratto di barriera già esistente al confine fra Messico e Stati Uniti

Trump non ama il “soft power”, molto in voga durante l’amministrazione Obama, e non perché non sia efficace, ma perché non è tangibile. Odia gli accordi e gli organismi multilaterali perché, pur permettendo agli Stati Uniti di ampliare il proprio raggio di azione - vedi l’influenza che avrebbero potuto esercitare su tutta la zona del Sud-Est asiatico con il Partenariato Trans Pacifico – rafforzano il potere di paesi molto più deboli economicamente e militarmente, obbligando gli Stati Uniti a una interazione formalmente tra pari. E questo è un affronto inconcepibile per un uomo come Trump e per la sua visione del mondo. Lui vuole chiaramente il ritorno a rapporti bilaterali nei quali gli Stati Uniti possano far sentire tutto il proprio peso economico e militare.

“Tenere rapporti bilaterali però sottolinea il professor Vincenzo Della Sala, docente di Sociologia intervistato da QT sul tema – è più complicato: devi tenere tanti fili con altrettanti soggetti, che non sempre si bilanciano e questo genera normalmente il manifestarsi di conflitti. Quello che Trump non ha capito è che il sistema multilaterale degli ultimi decenni ha servito bene gli Usa, è stato creato per i suoi interessi e gestito anzitutto secondo i suoi interessi. Ad esempio, il Nafta (Trattato di libero commercio nord americano) ha servito più gli interessi degli Usa che del Messico o del Canada. Può darsi che non abbia servito gli interessi di una fetta dell’elettorato che ha votato Trump, ma è un altro discorso”.

Nell’idea di Trump, il raggio d’influenza degli Stati Uniti deve essere più corto di quello auspicato dalle ultime amministrazioni (tanto democratiche come repubblicane), ma dentro quel raggio il peso deve essere il più forte possibile.

E forse, se gestita in modo oculato, questa strategia potrebbe produrre benefici nell’immediato, in quanto ritarderebbe (senza però evitarlo in futuro) un possibile scontro con le nuove potenze continentali in espansione, Cina in modo particolare. Ma Trump non è una persona moderata. Non è stato capace di gestire in maniera oculata i propri beni, generando fallimenti costanti alle proprie imprese (ben 6 volte le iniziative economiche di Trump hanno dichiarato fallimento), figuriamoci nella gestione dei beni pubblici. E soprattutto Trump non ama la storia. Ed è questo il vero problema: Trump punta a indebolire tutte le organizzazioni multilateralti, anche quelle degli alleati storici.

Donald Trump con Theresa May

Il tentativo spregiudicato di destabilizzare l’Unione Europea è lampante. Il 15 gennaio Trump minaccia l’Europa sostenendo la necessità di superare la Nato (non nel senso positivo di privilegiare la diplomazia rispetto alla forza militare, ma nel senso molto pericoloso di non dover garantire automaticamente l’appoggio in caso di attacco esterno), criticando aspramente le politiche migratorie della Germania e prospettando restrizioni alla circolazione dei cittadini europei sul territorio statunitense. Tutto questo non lo applicherà al Regno Unito, che riceverà un trattamento di favore con la sottoscrizione di ulteriori accordi, qualora dovesse confermare la propria scelta di uscire dall’Unione. Risultato: due giorni dopo la premier britannica Theresa May, ringalluzzita dopo mesi passati a indugiare – tanto da essere rinominata dall’Economist come “Theresa Maybe” (“Teresa Forse” ndr) – rompe pubblicamente gli indugi e comincia ad alzare la voce ipotizzando una rottura totale del paese con la UE, arrivando addirittura a minacciare ritorsioni economico-finanziarie, come la creazione di paradisi fiscali, o conseguenze militari non dovessero i partner europei scendere a più miti consigli nei confronti del Regno Unito. Per non parlare della derisione costante, da parte di Trump e di vari esponenti del governo inglese, delle leadership continentali (che pure non sono esenti da criticità), cercando di aiutare i populisti nostrani. E possibili ulteriori proposte destabilizzanti potrebbero continuare nei prossimi mesi, prima, durante e dopo le elezioni nei principali paesi dell’Unione quali Francia, Italia e Germania.

Un bullo pericoloso

Il campo di detenzione di Guantanamo

Qui, pur classificando come spregevoli molte delle politiche proposte (e in alcuni casi già attuate) dall’attuale presidente, non vogliamo concentrarci tanto sui contenuti delle politiche, ma soprattutto sull’atteggiamento di spregiudicata onnipotenza che sta adottando nei confronti del resto del mondo, e degli alleati europei, che potrebbe avere conseguenze molto pericolose per tutti. Un atteggiamento da bullo di quartiere più che da presidente di un paese alleato, che consiste nello scaricare gli alleati perché non rappresentano una minaccia diretta agli Stati Uniti, in quanto da sempre alleati e militarmente poco attivi, e ricercare invece l’amicizia dei nuovi bulli, instabili e pericolosi, tipo la Russia, per potersi spartire con loro, in posizione ancora di dominio, il controllo del mondo.

“Questo è un tema in cui gli Stati Uniti stanno rischiando molto. – sottolinea il professor Della Sala – Gli Usa non possono prescindere dalla necessità di avere alleati in ogni parte del mondo, soprattutto per tenere delimitata la sfera d’influenza delle nuove potenze continentali. La Cina non è necessariamente una minaccia per gli Stati Uniti, ma una sfida sì. È interesse degli Stati Uniti che la Cina non diventi potenza egemonica in Asia da dove poi potrebbe estendere il proprio dominio in altre aree, come hanno fatto gli stessi Usa con l’Alleanza Atlantica, piedistallo per l’egemonia americana in altre parti del mondo. Fino ad oggi la Cina non ha potuto portare avanti questo tipo di politica perché gli Usa glielo hanno impedito attraverso il sistema di alleanze nell’area asiatica. Il timore è che il comportamento adottato da Trump possa spingere gli alleati a cercare nuovi rapporti con altri attori. Credo che Trump non abbia chiara la complessità della politica internazionale. Ne può nascere un’accelerazione dello spostamento del baricentro della politica dal mondo occidentale al Pacifico. Perché il ragazzino oppresso dal bullo cercherà dei nuovi amici. E questo potrebbe mettere in discussione anche i rapporti con l’Europa, che da questo processo esce sicuramente marginalizzata”.

A questo punto cosa vorrà fare l’Europa? Aspettare e giocare di rimessa nella speranza di venire a patti con l’alleato statunitense, o alzare la voce con il rischio di una escalation?

Purtroppo, l’estrema destra inglese (Farage e May), italiana (Salvini) e francese (Le Pen) ha dimostrato di non avere troppa dignità: pur di ottenere un poco di notorietà e vantaggi economici costoro sono stati e saranno pronti a far saltare il sistema europeo in toto (non tanto di ridiscuterlo, intenzione in sé positiva) per essere utilizzati come pedine da Trump. Utili all’inizio per distruggere definitivamente il sistema europeo, per poi essere relegati, soprattutto l’Italia, alla marginalità, unica condizione alla quale possono aspirare all’interno degli assetti economici e diplomatici mondiali se presi singolarmente.

Gli eventi recenti stanno palesando l’estrema pericolosità del soggetto. Negli ultimi giorni, persone normali in possesso di tutta la documentazione necessaria per entrare e risiedere negli Stati Uniti, studenti in corso nelle università USA, persone legalmente residenti, stabilmente occupate e integrate negli USA da decenni sono state bloccate negli aeroporti di tutto il paese (o, peggio ancora, del paese di provenienza) solamente perché stranieri e originari di alcune nazioni a maggioranza musulmana.

Il totale disprezzo mostrato dall’attuale presidente, in primo luogo, verso la vita di persone che senza una ragione, senza aver commesso alcun crimine si sono trovate di colpo in un limbo legale che potrebbe portarle ad abbandonare gli studi o a perdere il lavoro, e, secondariamente, verso lo stato di diritto del proprio paese, palesa la bassissima levatura morale di questa persona. Un decreto presidenziale assurdo, e probabilmente illegale, che potrebbe rovinare la vita di persone perbene e che non servirà assolutamente a prevenire attentati terroristici nel paese, ma solamente a dare un po’ di soddisfazione ai gretti desideri di parte dei suoi elettori. Elettori che si esaltano ogni volta che Trump fa scadere sempre più in basso la figura presidenziale.

Trovare normale e non provare alcuna remora nel dichiarare il proprio apprezzamento e la propria speranza che siano reintrodotte le più dolorose pratiche di tortura (“molto peggio del waterboarding”) di fronte alle telecamere di tutto il mondo durante un incontro col premier di un paese straniero, “perché anche se non funziona se lo meritano” – dimenticandosi che in molti casi tali torture sono state praticate nei confronti di soggetti poi risultati totalmente estranei al terrorismo - o trovare normale durante la campagna elettorale proporre l’eliminazione fisica dei famigliari (innocenti) dei terroristi come strategia per combattere il terrorismo, tutto questo definisce perfettamente la persona di Donald Trump.

Ed è questo il punto principale: l’assoluta bassezza morale e incompetenza dell’attuale classe dirigente non solo influirà sulla qualità di vita di quanti risiedono all’interno del territorio statunitense, ma con molta probabilità rovinerà le relazioni con buona parte del mondo e, secondo noi, pure con gli alleati europei. E non ci sarà possibilità di collaborare con Trump (diverso il discorso con le istituzioni degli Stati Uniti), a meno che non si voglia scadere al suo livello.

Collaborare o boicottare?

Durante la presidenza di Barack Obama, il Partito Repubblicano fece un’opposizione spietata su tutto, rifiutando ogni compromesso.

Questo atteggiamento ha danneggiato la qualità dei servizi offerti dal governo e ha esposto la democrazia americana a grandi rischi.

Il Partito Democratico ha ripetutamente condannato un tale atteggiamento come irresponsabile. Eppure adesso molti suoi membri hanno la tentazione di trattare Trump allo stesso modo: esprimendo indignazione per ogni sua uscita pubblica, opponendosi ad ogni nomina, facendo ostruzionismo ad ogni nuova legislazione e trasformando ogni passo falso in uno scandalo. In breve, minando alle basi la legittimità della sua presidenza.

Il problema di questa strategia è che, oltre a essere incoerente rispetto alle dichiarazioni del passato, rischia di spingere Trump verso gli elementi più di destra del Congresso. Al contrario, avviare un dialogo aumenterebbe le possibilità di trovare un consenso su politiche ragionevoli. Dopo il suo primo incontro col New York Times all’indomani delle elezioni, i giornalisti sono rimasti impressionati dalla superficialità delle posizioni di Trump, tanto che uno di loro ha suggerito che questa mancanza di competenza potrebbe creare un’opportunità per le persone di buon senso di influenzarlo.

C’è chi al contrario sostiene che collaborare con un uomo come Donald Trump sarebbe disastroso per la democrazia. Stiamo parlando di una persona che ha condotto una campagna elettorale meschina, durante la quale ha utilizzato continuamente riferimenti razzisti e sessisti ed ha esortato ad attacchi contro manifestanti e giornalisti. Aiutarlo contribuirebbe dunque a legittimare questo tipo di politica, rendere normale il bullismo, le offese, le aggressioni, le menzogne, l’incitamento all’odio e alla paura.

Alcuni giornalisti del Washington Post si sono chiesti cosa risponderemo a chi ci chiederà cosa stavamo facendo mentre Trump deportava migliaia di immigrati irregolari, toglieva l’assistenza sanitaria a milioni di cittadini e lanciava attacchi contro la libertà di stampa.

Forse ci giustificheremo dicendo che gli stavamo dando una possibilità...

Lorenzo Piccoli (per gentile concessione del sito Unimondo.org)