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Il teatrino di Trump e Kim Jong Un

Si agita lo spettro di una guerra improbabile allo scopo di giustificare le crescenti spese militari

Da qualche tempo lo scenario dell’agone internazionale si va rabbuiando. E non si tratta solo della lite furibonda tra i due “bambini dell’asilo” (Trump e Kim Jong Un) come li ha sprezzantemente bollati Vladimir Putin, il nuovo zar; o della ricorrente diatriba tra il presidente americano e gli ayatollah di Teheran, cui assiste un Israele sempre tentato di assestare militarmente una mazzata decisiva sulle ambizioni nucleari dell’Iran.

Il clima generale è, si direbbe, incarognito. Le offese gratuite e le minacce di ritorsioni si moltiplicano. Forse la quasi scomparsa della generazione che ha fatto l’ultima guerra mondiale (un ventenne del ‘45 oggi ha più di 90 anni) ha nuovamente precipitato l’umanità nell’oblio ricorrente degli orrori della guerra, né le tante piccole guerre sparse per il pianeta impressionano più di tanto il distratto spettatore dei telegiornali: sono guerre piccole e lontane, che si possono cancellare cambiando canale. È un dato di fatto che nel mondo, dopo un periodo all’insegna degli accordi per denuclearizzare e ridurre gli armamenti missilistici (accordi USA-URSS degli anni ‘70-’80), si assiste da alcuni anni a una nuova fase di riarmo accelerato. Il rapporto annuale “The Military Balance 2017” presentato a Londra il 17 febbraio di quest’anno denuncia una corsa al riarmo dell’Asia tra il 2012 e il 2016 al ritmo impressionante di un incremento del 5-6% annuo. Si parla di “rimilitarizzazione del Pacifico”, nei prossimi anni il vero teatro di confronto tra le grandi potenze che vi si affacciano: Cina, USA, Russia.

La Cina ne è la protagonista più vistosa, con bilanci che negli ultimi anni hanno dedicato quote crescenti al budget militare; ma gli USA hanno risposto con il recente aumento, da un anno all’altro, del 10% del budget militare (oggi di 640 miliardi di dollari, un terzo di quello planetario) e soprattutto creando nuove armi supertecnologiche (dalla super-bomba da 10 tonnellate al cannone-laser); la Russia di Putin ha smesso da tempo di lasciare arrugginire le armi e le navi negli arsenali, iniziando un programma di rinnovo a tappe forzate delle sue forze armate. Pur lontana da quel teatro, la stessa vecchia Europa - prima sotto la brusca spinta di Trump, più recentemente sotto l’impulso di Macron - sta pensando seriamente al riarmo nel quadro di una riorganizzazione e di un coordinamento sistematico delle forze armate nazionali.

Indubbiamente il clima è quello di una corsa al riarmo generale, cui la Cina ha dato il via e gli altri paesi, anche riluttanti come quelli europei, si stanno bene o male acconciando. Quali le cause?

Le spiegazioni classiche sono note. In una crisi economica che nonostante gli ottimismi sparsi a piene mani dai media attanaglia gran parte del mondo occidentale, l’investimento nell’industria degli armamenti costituisce un’ottima valvola di sfogo in un’ottica di tipo keynesiano. Lo Stato dilata la spesa pubblica e investe in armamenti, settore che ne traina molti altri, dall’acciaio all’informatica, dalla chimica alle infrastrutture e i trasporti; spese che si possono sempre facilmente giustificare con le esigenze irrinunciabili della sicurezza del paese, del pericolo costituito dai missili degli “stati canaglia” (oggi Corea e Iran, domani si vedrà…).

Una leadership in difficoltà sul fronte interno notoriamente ha sempre una buona strategia di distrazione dell’opinione pubblica nell’indicare un nemico esterno. Che poi veramente l’America permetta a Trump di scatenare una guerra nucleare sulla Corea del Nord - tentazione che i generali americani già ebbero all’epoca della guerra di Corea (inizi anni ‘50) - è fortemente dubbio. Sembra siano proprio i generali oggi a sconsigliare per primi questa avventura, paventando reazioni a catena incontrollabili (rappresaglia nucleare contro la Corea del Sud o il Giappone, intervento della Cina…). Ma, una volta escluso che si voglia andare fino in fondo, il teatrino Trump-Kim Jong Un può servire, eccome, se si pensa a quanto possa essere utile agitare abilmente la minaccia coreana per far lavorare a pieno ritmo le industrie belliche e quelle ad esse collegate, e distrarre l’opinione pubblica dai guai del Presidente.

Questo genere di spiegazioni tuttavia non bastano e comunque non si applicano al caso del riarmo della Cina, dove la crisi economica si sente infinitamente meno che altrove e il presidente non ha certo i problemi di credibilità di cui soffre il collega americano. La Cina, liquidato il periodo caotico del maoismo e del dopo-Mao, è entrata in una lunga fase di sviluppo economico e industriale frenetico che l’hanno portata in pochi decenni a divenire la prima manifattura del mondo e il primo esportatore di prodotti di ogni genere ai quattro angoli della terra.

Consapevoli del fatto che quel ritmo di sviluppo non si regge senza assicurarsi risorse energetiche e di materie prime adeguate e programmate sul lungo periodo (20-50 anni), la Cina ha stretto numerosi accordi commerciali e “accordi di sviluppo” a tutto campo con i paesi dell’Asia dell’Africa e dell’America Latina, garantendosi l’accesso a tali risorse. Le materie prime e il petrolio viaggiano soprattutto per mare, e la Cina conseguentemente ha avviato da tempo giganteschi piani di riarmo navale che già ora rendono la sua marina in grado di pattugliare con portaerei moderne e sottomarini nucleari le principali rotte dei traffici marittimi, dal Golfo Persico alla Cina in primis. Questa ampia manovra per ricercare e assicurarsi le risorse del pianeta, e il generale riarmo (non solo navale, evidentemente) della Cina, hanno destato il massimo allarme negli USA che, prima potenza militare del pianeta, sono già avviati da tempo a perdere la propria centralità economica e industriale.

Di fatto oggi la produzione industriale su scala planetaria conosce tre grandi attori globali, USA, Unione Europea, Cina, e due medi come Brasile (in crescita) e Giappone (in declino), che esportano e/o aprono fabbriche in tutto il mondo. Ma solo due, USA e Cina hanno forze militari in grado di garantire e proteggere i propri interessi commerciali; Europa e Giappone pagano la “protezione” americana con una totale subordinazione della loro politica estera agli obiettivi americani e con l’accettazione dell’alleanza militare (NATO e simili) sotto l’egida USA.

E la Russia? Il paese di Putin sconta ancora gravi ritardi nel sistema industriale, le merci russe (a parte le armi) non si esportano granché per la bassa qualità. In compenso gli oligarchi russi hanno puntato sul ricatto energetico che si può permettere un paese che oggi garantisce un terzo del fabbisogno di gas e petrolio dell’Europa occidentale. Ma è chiaro che la Russia è fuori dalla grande contesa per la supremazia sul mondo in questo XXI secolo, che si gioca solo tra gli Stati Uniti e la Cina. Ecco perché non sono soltanto le ragioni classiche summenzionate che spiegano il riarmo americano. Nel confronto a lunga distanza tra le due superpotenze il controllo dei flussi di informazione (internet, spionaggio industriale), dei mercati di sbocco per le merci e di rifornimento di materie prime e energia sono fondamentali; ma il presupposto di una politica planetaria a questi livelli è la supremazia tecnologica e militare.

La Cina fino a vent’anni fa dispiegava un arsenale nucleare e missilistico relativamente rozzo e una information technology piuttosto arretrata; ma oggi i computer cinesi e la tecnologia di Pechino reggono il confronto con quelli prodotti in USA o Giappone e la perdita del primato tecnologico per l’America di Trump non è più un evento considerato improbabile. La superiorità demografica, industriale e commerciale della Cina fa meno paura finché l’America mantiene la supremazia tecnologica nei settori chiave dell’elettronica e dei sistemi d’arma. Le spese militari in tempi di pace hanno anche questa ulteriore “logica” motivazione: spingono come nessun’altra la ricerca e lo sviluppo tecnologico, senza i quali sarebbe difficile mantenere o conquistare quella superiorità strategica su scala mondiale cui ambiscono rispettivamente gli USA e la Cina. In questo scenario risalta la lentezza di reazione dell’Europa e la miopia dei suoi dirigenti che si sono accodati agli USA nelle sanzioni economiche alla Russia. Trump, gli va dato atto, ha cercato senza successo di rovesciare la politica obamiana di embargo alla Russia, che tanto danno ha procurato soprattutto alle esportazioni UE; ma i postumi del “Russia-gate” e tanti passi falsi lo hanno costretto a fare marcia indietro.

L’Europa certamente sconta il dato storico della diminuita importanza dell’Atlantico, che non è più la principale rotta del commercio mondiale. L’Europa, nella gara tra i giganti cinese e americano, ha in realtà un disperato bisogno della Russia, se non vuole fare la fine del proverbiale vaso di coccio. Solo una solida alleanza politico-commerciale con la Russia di Putin (potenza nucleare certo, ma anche mercato di materie prime e di sbocco commerciale immenso) e un migliore rapporto con i paesi arabi e le petro-monarchie (oggi contesi a suon di contratti d’oro tra cinesi e americani) le garantirebbe la possibilità di tornare a fare il suo gioco sulla scena mondiale in questo secolo.

Una Europa che non cercasse più soltanto la protezione dell’Impero americano ma riattivasse con convinzione la lungimirante Ost-Politik di Willy Brandt, attuerebbe a suo proprio beneficio il pilastro del pensiero andreottiano: la politica dei due forni.