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Fra i senzatetto di San Paolo

L’incontro di due fotografi con la miseria della più grande città del Brasile. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Ludovico Nitoglia, Gabriel Rizaffi

Ludovico Nitoglia

Avevo più o meno 14 anni quando vidi un uomo che si puliva sotto un ponte di Roma dopo aver fatto i suoi bisogni. Era robusto, con una pancia prominente, la barba incolta e brizzolata e una lunga striscia di capelli neri che faceva il giro della testa. Senza camicia, coi pantaloni ancora abbassati, teneva in una mano fogli di giornale e con l’altra improvvisava una qualche forma di igiene. Tirava un vento forte e vari pezzi di giornale volarono in direzione del lungotevere, denso di traffico. Osservavo la scena da una delle macchine che passava di là. I passanti guardavano con sdegno o comunque disappunto.

Col tempo sono arrivato a capire che ciò che più mi disturbava non era tanto l’immagine di un essere umano nudo in mezzo alla città, quanto piuttosto la reazione dei passanti. Comprendevo la loro sorpresa e anche l’imbarazzo, ma non l’indifferenza per ciò che quell’uomo -come era evidente- doveva affrontare ogni giorno.

Oggi, quando cammino per le strade di San Paolo, ho una forte attrazione per queste persone che vivono ai margini della società, per le loro storie, per il modo in cui abbracciano la strada. Fotografare questi uomini è prima di tutto avvicinarsi a loro, creare un legame. Ascoltare, provare a essere ascoltati. Dopo, forse, riesco a registrare nella foto qualche momento di questo scambio.

Ho riscontrato due generi di homeless: quelli che vivono in piccoli gruppi o comunità (che normalmente si concentrano in luoghi pubblici come piazze, stazioni di autobus e della metropolitana) e gli isolati.

Tutti dormono in baracche o sui marciapiedi: sdraiati su materassi, cartoni, incerate o sacchi di plastica. Le cause dell’allontanamento dalla società sono i conflitti familiari, la disoccupazione, incidenti sul lavoro, droga, alcol, prigione, malattie e depressione, che spesso accompagna o genera tutte le altre.

I senzatetto che ho conosciuto vivono da soli, lontani dai locali pubblici. La grande maggioranza staziona in strada in maniera permanente, in condizioni di povertà assoluta, mendicando o aiutati da associazioni di beneficenza. Alcuni stanno nello stesso posto da anni. Solo un provvedimento del giudice o l’intervento delle forze dell’ordine li obbliga ad andarsene. Altri vivono spostandosi rapidamente, fermandosi due o tre giorni sullo stesso marciapiede per poi allontanarsi e svanire senza lasciare traccia. Di questi ultimi la maggior parte sono riciclatori di spazzatura (catadores de lixo, come vengono chiamati in Brasile). Con le loro carrette attraversano gran parte della città raccogliendo cartone, metallo, plastica, ferro, che poi portano nei punti di raccolta per guadagnare una miseria rispetto alla fatica che quel lavoro gli costa (e al beneficio che la città ne ricava).

La maggior parte di loro è estremamente comunicativa con chi gli si avvicina: raccontarsi è una forma di liberazione, come se parlare togliesse loro il peso del pregiudizio.

Mi hanno raccontato dei problemi che hanno dovuto affrontare, specialmente con altri senzatetto, tra furti e rapine; delle loro disgrazie, sfortune; di Dio e di Gesù.

Gesù è stato il nome più ripetuto. La fede è uno degli aspetti caratterizzanti del popolo brasiliano e i senzatetto non fanno eccezione. Molti di loro partecipano alle funzioni religiose, portano con sé la Bibbia, comunicano citando versetti, aprono e chiudono i saluti dando la benedizione del Padre Altissimo. C’è anche chi professa una religiosità personale, modellata secondo le proprie esigenze: il sincretismo è molto sviluppato in un paese in cui varie etnie consegnano un pezzo della loro cultura sacra.

Dárcio, che vive sul marciapiede nell’avenida Engenheiro Alberto de Zagottis, nella zona di Santo Amaro, frequenta varie funzioni religiose e le messe. La parola di Dio lo fa sentire bene, in pace, lontano dalle sue crisi depressive; e i banchetti offerti a fine messa confortano il suo stomaco. È scappato di casa, sta cercando lavoro, vive con Vilma vicino al muro di una impresa commerciale. Vilma aspetta un bambino, è al sesto mese di gravidanza.

Come Dárcio, altri senzatetto mi hanno parlato dell’importanza di credere in qualcosa di spirituale che dia un significato alla loro vita di sofferenze. Forse è per questo che ho trovato nelle figure stanche, rugose, abbattute e marcate, occhi vivi di speranza. E non gli mancava mai il sorriso, come pure l’eterno ringraziamento al Padre.

Mi rendo conto che è improbabile che con il nostro racconto si riesca a cambiare la vita delle persone che fotografiamo, le loro condizioni sociali, di miseria o fisico-mentali che li accompagnano. Tuttavia, esiste la possibilità che le immagini entrino nella curiosità di chi le osserva e che possano allontanare la distanza tra l’osservato e l’osservatore, per suggerire elementi di comunione.

Gabriel Rizaffi

Attraversavo, con la macchina fotografica al collo, il centro di San Paolo verso la cattedrale per visitare la cripta, quando vengo improvvisamente avvicinato da Simone in compagnia di Guará, due degli innumerevoli abitanti di piazza Sé.

A causa delle crisi politico-sociali e del rallentamento dell’economia brasiliana, c’è stato un aumento significativo delle persone che vivono sotto la soglia di povertà e che occupano le strade di San Paolo. Simone, guardando la mia macchina fotografica, mi ha chiesto una foto. Non ci ho pensato un momento. Dopo una breve conversazione, ci siamo salutati e ho promesso di portarle una stampa della fotografia.

Ho poi deciso di ritrarre la routine, le attività e la miserabile situazione degli abitanti di piazza Sé in tutti i periodi della giornata, tra agosto e novembre 2018.

Le persone che vivono in piazza Sé sono divise in gruppi chiamati maloca (con riferimento alla capanna comunitaria tipica della regione amazzonica) e non vanno in zone della città già occupate da altri senzatetto, in particolare nei quartieri di Luz e Cracolandia. Oltre a una strisciante rivalità, esiste una divisione spontanea dello spazio pubblico, regolata dal territorio, dal livello di igiene, dall’uso di una droga particolare o dal grado di pericolo dell’individuo.

Quindi si può dire che i maloca sono cellule primordiali di gruppi sociali che stabiliscono reciprocamente regole di coabitazione, soprattutto la divisione del cibo. Ma la convivenza non è sempre armoniosa: ci sono frequenti liti, minacce, furti e persino pugnalate tra i membri della maloca.

Come un essere vivente, la maloca è itinerante. Di notte, sotto la protezione di una tettoia, tende e materassi convergono alla fine di piazza João Mendes. I materassi logori sono allungati sul marciapiede e le vetratedi un’agenzia della Banca statale fungono da capezzale. Le fioriere diventano comodini, i carrelli del supermercato si trasformano in armadi e guardaroba mobili, pieni di beni personali e collettivi: vestiti, padelle, coperte, generi alimentari, prodotti per l’igiene, alimenti per animali... Con l’arrivo del giorno o dei dipendenti della banca, la maloca si trasferisce nel cuore di piazza Sé, dove resta fino al tramonto.

Accettato dai membri della maloca, sono entrato non solo nelle loro “case”, ma nelle loro intimità, avendo cura di rispettarne al massimo la riservatezza.

Ho iniziato a fotografare la routine e le condizioni di miseria in cui vivono e mi sono reso conto che la vita era governata da litri di cachaça di pessima qualità (e da marijuana e cocaina), indipendentemente dall’ora del giorno, e che i cicli di permanenza dei membri della maloca sono talvolta estremamente brevi.

Guará è stato arrestato in flagrante per traffico di droga. Simone si è innamorata ed è partita per una destinazione ignota. Alcuni hanno lasciato la capanna per soluzioni più comode. Altri sono tornati a casa con gli occhi pieni di lacrime e hanno chiesto perdono ai loro cari abbandonati. Ma allo stesso modo, sono arrivati nuovi occupanti.

In ventiquattro mila vivere in strada

Sulla cima di una collina delimitata dai fiumi Tamanduateí e Anhangabaú, dove si trova oggi il Patio del Collegio, nel 1554 i gesuiti fondarono il collegio San Paolo di Piratininga. Il piccolo insediamento di case attorno al Collegio divenne presto il villaggio di San Paolo, embrione della città subito divenuta punto di partenza delle “Bandeiras”, le spedizioni esplorative dei colonizzatori portoghesi.

A 466 anni dalla fondazione, San Paolo è oggi non solo la più grande città del Brasile, abitata da circa 12 milioni di persone, ma anche la sua locomotiva economica e culturale, punto di convergenza di immigrati provenienti da varie regioni del paese e del mondo.

Come molte grandi metropoli, San Paolo è afflitta da grandi tensioni sociali. Malgrado il Brasile sia classificato dal Fondo monetario internazionale come una delle maggiori economie mondiali, resta uno dei paesi a più alta disuguaglianza sociale, uno scenario che si può osservare nelle strade della megalopoli.

Col censimento del 2015, la Prefettura di San Paolo certificò l’esistenza di 15.905 senzatetto; nel 2019 il numero era salito a 24.344 persone. Il Brasile è uno dei paesi più contagiati dalla pandemia e in uno scenario economico e sociale già desolante, sarà inevitabile un grave peggioramento.