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QT n. 1, gennaio 2021 Monitor: Cinema

“La regina degli scacchi” “The Crown”

Due serie su Netflix

Le zime le scorla” mi diceva l’altro giorno un’amica. La metafora è rozza ma efficace. I geni, le persone straordinarie, hanno spesso risvolti di estrema fragilità. La mancanza di affetti e relazioni porta a chiudersi in mondi altri, all’interno dei quali si può essere abilissimi signori, stare a proprio agio e vedere cose che ad altri sono precluse. Ma al di fuori di questi domini la vita, la normalità è difficile e spaventosa, perché non si è attrezzati ad affrontarla.

La regina degli scacchi

Elizabeth “Beth” Harmon, protagonista de “La regina degli scacchi” (The Queen’s Gambit), creata e diretta da Scott Frank, è il prototipo perfetto di questa condizione. La mini serie tv narra la vita di una bambina orfana con non pochi traumi alle spalle, che si riscopre prodigio degli scacchi. Seguendo le sue vicissitudini dagli otto ai ventidue anni, la vediamo progressivamente immergersi in un universo di torri, regine ed alfieri, capace di stracciare avversari a ripetizione e diventare grande maestro. Contemporaneamente in un lungo flash back, viene ricostruita la sua vita, con una madre suicida, l’orfanatrofio, l’adozione da parte di una coppia che vede l’abbandono del padre, e l’alcolismo della madre. Tutto un vissuto che, guarda caso, porta alla genialità, ma anche alla dipendenza da alcol e psicofarmaci.

La tematica è banale ed esplicita: una figlia non voluta, diventa una bambina fredda, anaffettiva, geniale e spietata scacchista. Chiusa in un mondo alternativo, che non è altro che il tentativo di riempire un vuoto, la reazione alla solitudine e mancanza di amore.

Insomma, un film sulla genialità dell’individuo e sull’importanza degli affetti, delle relazioni, della condivisione, la necessità di essere amati ed accettati per quello che si è, anche e soprattutto nella propria straordinaria diversità.

Al di là della tematica, le dieci puntate reggono su una efficace ricostruzione degli anni ‘50, ‘60, su tutti i tòpoi dell’ascesa del genio/diverso e soprattutto sulla fascinazione della protagonista. Interprete di Beth è infatti la modella Anya Taylor-Joynon, una foxy lady ubiqua, che risucchia il pubblico con il suo charme sensuale fatto di sguardi, silenzi, pose e tutto un contorno non indifferente di vestiario, automobili, ambienti d’epoca.

The Crown

In “The Crown”, a scorlare, invece, non è tanto una vetta umana, ma una vetta- luogo: il trono d’Inghilterra.

La serie televisiva britannica e statunitense di genere storico drammatico, è infatti incentrata sulla vita di Elisabetta II e sulla famiglia reale britannica. Si parte dal secondo dopoguerra, dalla morte di Giorgio VI e il passaggio della corona ad una giovanissima primogenita. Da lì si procede cronologicamente in avanti, con con molti flash back nella parte precedente del secolo. La cosa particolare è che viene raccontata la vita della regina e attraverso lei, con lei e attorno a lei, viene ricostruita l’epoca, le vicende dei suoi protagonisti e le evoluzioni della Storia. Tutto filtra attraverso Buckingham Palace, di cui apprendiamo i luoghi, i protocolli, i vincoli, i riti, il decoro, le rigidità, le dinamiche, le gerarchie.

Apprezzabile è lo sforzo di rappresentare (quasi) sempre con equilibrio lo sviluppo delle vicende private della regnante e della sua famiglia, su uno sfondo politico che entra inevitabilmente, e spesso prepotentemente, nella vita quotidiana. Ed ecco che in un sisifeo sforzo di mantenersi salda equilibrata e corretta, Elisabetta II si trova in costante balia di forze maggiori e minori, amiche e nemiche, vicine e lontane che la scuotono, la sballottano, la minano dentro e fuori, dall’interno e dall’esterno. Figura non simpatica, classista, rigida ma anche intuitiva, intelligente, sottomessa ed indomita, di Elisabetta II emergono la complessità e le contraddizioni, occultate da una formalità imprescindibile, per cui, se non si possono condividere le scelte, di sicuro se ne ammira lo stoicismo.

Le quattro serie di dieci puntate l’una, mantengono l’ottimo livello produttivo, al quale il cinema di qualità britannico degli ultimi anni ci ha abituato.

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