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QT n. 5, 4 marzo 2000 Cover story

Dare il voto agli insegnanti: è possibile?

Berlinguer e i suoi maldestri tentativi di riforma; gli insegnanti e la loro resistenza a farsi giudicare. Eppure la scuola andrà sottoposta a esami e valutazioni. E in Trentino, con l’Autonomia?

Carissime Marta ed Emilia, soltanto una volta, e brevemente, abbiamo parlato fra noi del concorso istituito per premiare gli insegnanti più bravi, e che poi il ministro ha cancellato. In seguito abbiamo evitato, accuratamente, di tornare sul tema, mentre continuavamo a discutere di letteratura e storia, di istruzione e formazione, di umanesimo e scienza. In quei pochi momenti abbiamo però intuito che non eravamo pienamente d’accordo: voi contrarissime, io che non sapevo bene cosa pensare, più premuto dalle domande che sicuro nelle risposte.

Certo non pensavo di sfidarvi a duello in un quiz di storia del Novecento, né a pacchetti di titoli e di pubblicazioni, né in una lezione davanti ai ragazzi su Dante Alighieri o su Aldo Nove. E intascare così, vincitore, chissà, i sei milioni da trasformare in bei libri, in CD, in un pranzo in più al ristorante, o da regalare ai figli per una vacanza più lunga. Ecco: che abbiano potuto pensare possibile una competizione fra noi, per qualche lira in contante, è l’aspetto più pernicioso del concorso inventato lassù, o là fuori. Fra noi, che in questi anni abbiamo lavorato insieme nel gruppo didattico, per insegnare tutti un pochino meglio la lingua, la storia, la letteratura, ai giovani cittadini che ci sono capitati fra i banchi: io ho imparato da voi, e voi qualcosa da me. E questo vale anche, in modo diverso, per gli altri colleghi, con i quali però il concorso non l’ho mai nemmeno sfiorato: Anna Lisa e Silvano, Maria e Laura, Chiara e Silvana, Baldassare e Antonietta, Tiziana e Nicola.

Collaborazione che non è stata sempre un idillio: ci sono state anche tensioni, nel tratto di strada percorso insieme. Ognuno è rimasto se stesso, ed è cambiato.

Anzi, è in questi ultimi anni, con l’arrivo di alcuni insegnanti giovani e motivati, che anch’io ho ripreso un qualche vigore nell’attività collegiale, nel gruppo didattico, nel consiglio di classe, persino in collegio docenti, dove le nostre "metafore" rischiano sempre di finire incomprese e stritolate fra le macchine e i numeri, esaltati dai tecnici e dagli ingegneri da cui noi, umanisti, ci sentiamo accerchiati.

Alcuni colleghi hanno firmato, con voi, il documento di protesta contro il concorso, ma altri, parecchi, come me, non hanno firmato: sia fra gli uni che fra gli altri ho notato insegnanti che a scuola lavorano con impegno e con competenza, e nomi per i quali non mi sentirei invece di mettere la mano sul fuoco.

Quest’anno sono stato spedito tre volte, in un’aula, a supplire un collega assente proprio il giorno in cui di pomeriggio era convocato il collegio docenti: al fascino di quella riunione, da vivere accomodato nelle poltroncine nuovissime e blu, il collega, che io per altro non conosco nemmeno di vista, sfugge così, con un’assenza che si ripete da sempre, mi dice il vicepreside che abbiamo eletto con il voto nell’urna. L’ultima volta ero tentato di svelare a quegli ignoti ragazzi il sospetto e la rabbia, ma mi accolsero con tale entusiasmo, vecchio e sconosciuto, che rinunciai.

Un’altra volta mi toccò di dover quasi sedare una rivolta di ragazzini di prima: e, ve lo assicuro, non gridavano e sibilavano perché troppo poco guadagnava, a loro giudizio, la professoressa inseguita dai loro urli.

Dei documenti di protesta contro il concorso, l’ultimo ci è giunto, veloce via Internet, dalla lontanissima Ascoli, non condivido mai la premessa: l’impegno e la professionalità dei docenti sono già lì nelle aule, formati, in azione, gli studenti ne godono, in attesa soltanto del riconoscimento economico che ci è dovuto, tardivo, ma giusto, ed eguale per tutti.

Io non sono d’accordo che oggi si diano sei milioni agli insegnanti, tutti, così come sono, e per come insegnano. Se ascolto i miei figli, e i loro amici, scopro che troppe cose non vanno. O quando, travestito da genitore, ci spintoniamo in attesa di essere ricevuti ad udienza.

Voler valutare la professionalità di chi insegna è infilare la mano in un vespaio. I decreti ministeriali non riescono bene quando è in crisi, da un pezzo, il principio di rappresentanza, cioè la democrazia: chi rappresentano, ormai, i sindacati che hanno firmato il contratto? Paiono più rappresentativi, per un momento, quelli che dicono no, ma soltanto fin che dicono no. Io per la verità dovrei stare in silenzio. Pago da sempre, ogni mese, le 20.000 lire di tessera, forse più per forza d’inerzia che per convinzione. Ma non partecipo da anni a un’assemblea sindacale: i dirigenti dal tavolo a me sembravano sempre troppo corporativi, mentre ad altri colleghi, i più, parevano invece molli e cedevoli nel difendere i diritti acquisiti, le anzianità pregresse, le baby-pensioni, ed altre simili amenità. Ho smesso di andarci alle assemblee, quando mi sono accorto che i giorni seguenti l’aula mi appariva più grigia e i ragazzi più distratti del solito. Da giovane i sindacati confederali li ho visti nascere, ma dopo l’assemblea, o lo sciopero, insegnavo con più slancio e passione.

Sono quei sindacati che ci hanno umiliati per anni - è la conclusione dell’invettiva che tante firme ha raccolto nel nostro istituto. Io invece li scelsi, lavoratore della scuola, sperando nella loro vicina unità, e orgoglioso di essere accolto al fianco degli operai della Flm, decisi a riformare, anzi forse a rivoluzionare, la scuola, e il mondo con essa.

Non ridete vi prego. Anni mitici quelli, che non rimpiango, sia chiaro, infarciti com’erano di illusioni e di delusioni.

Non esistono più, che io sappia, nemmeno le commissioni scuola dei partiti politici, che elaboravano idee. Io partecipai persino, per qualche tempo, al coordinamento nazionale degli insegnanti del partito al quale ero iscritto. Allora, in quegli anni, non sarebbe venuta in mente a nessuno la "trovata" del concorso per premiare i migliori, con i peggiori legittimati a restare cattivi, impunemente, pagati solo un poco di meno.

Ci scontravamo fra insegnanti, aspramente, e convinti, da posizioni opposte, di migliorare la scuola. Insegnava all’Iti Antonio Zuccali, che voi non potete conoscere, ma i più anziani ricordano: era per me l’avversario con cui misurarmi, strenuamente. Mi pareva rigido e rigoroso, ma mai avrei pensato che dovesse essere pagato una lira meno di me. Pensavo, pensavamo, in quel fuoco, di poter modificare anche quegli insegnanti nostri avversari: e lui, alla lunga, resistendo, ha modificato positivamente anche me.

Quello della professionalità degli insegnanti è un problema reale, di lunga durata: noi veniamo dall’idealismo crociano, che riduce ogni scienza a strumento pratico e infido, immaginiamoci la didattica e la docimologia. Il concorso l’ha fatto esplodere, finalmente. Berlinguer, il ministro dell’istruzione "bocciato", è così riuscito a cacciare dalla copertina de L’Espresso la fanciulla discinta di turno. Ma nulla mi aspetto dalle invettive di quegli intellettuali convocati a sbeffeggiare la scuola malata, alla catastrofe anzi, dicono loro. Come può essere il "concorsaccio" criticato da quello che ormai è diventato un "giornalaccio", con la politica ridotta a racconto dei fatti privati dei politici in auge?

Il concorso è, per Luciano Canfora, l’ennesima "trovata" dopo le altre, di un ministro esibizionista. Io invece ho visto in questa politica il tentativo di rimettere la scuola al centro dell’attenzione della società: l’insegnamento del Novecento, il nuovo esame finale, l’autonomia scolastica, lo statuto degli studenti, la riforma dei cicli. Non tutto anch’io condivido: avrei preferito, pensate, completamente esterne le commissioni d’esame, ma quasi nessuno - l’ho capito rapidamente - era d’accordo con me. Sono però iniziative che hanno messo in moto energie, le mie, le nostre: il "tema", nella didattica della scrittura, è stato finalmente sostituito da una tipologia di testi più varia; per motivare e valutare sappiamo oggi in tanti che non basta dire a un ragazzo: parlami un po’ dell’Ariosto; in storia, con rischio e fatica, siamo legittimati a parlare di Haider e di Berlusconi, di D’Alema e di Kofi Annan.

Geminello Alvi invece conosce benissimo la terapia di cui la scuola italiana ha bisogno: non certo concorsi per gli insegnanti ma, così, il mercato privato e l’abolizione, per giunta, del valore legale del titolo di studio! Troppi taumaturghi occupano in questi giorni la scena: sono i più pericolosi, perché con le loro magiche bacchette, impediscono di vedere la crisi, i processi in corso, quello che resta da fare, e le antinomie irresolubili che della scuola costituiscono la fisiologia.

Le mazzate più dure contro il concorso le hanno assestate i partiti di destra, quelli che nella nostra provincia si oppongono a che ci aggiorniamo con l’anno sabbatico. Che diremo agli operai? - si è domandato compunto un consigliere di Forza Italia. E questi, un altr’anno, governeranno, anche la scuola.

La scuola istruisce, come può, ma è anche sede di "relazioni umane", si ripete giustamente da molti. Chi sceglie questo lavoro ne conosce l’impegno e lo stress, e le soddisfazioni che ti regala talvolta. Sono legami e ferite non valutabili né monetizzabili: sono un cadere e un rialzarsi premi a se stessi. In questo lavoro occorre disponibilità a tenere lo sguardo sull’altro, con distacco ed empatia, sul cucciolo d’uomo che cresce, che tu educhi e che a sua volta ti educa. In una professione così delicata, all’inizio almeno, questa disponibilità andrebbe verificata con serietà, e la psicologia ha inventato i test proiettivi di personalità.

E poi per insegnare occorrono conoscenze e competenze. Certo, se avesse ragione Fabrizio Frasnedi, per il quale la "scrittura" non si può né insegnare né valutare, non servono né esami né corsi, basta affidarsi al carisma divino. I "quiz" infatti anche lui li ha strapazzati, quelli da somministrare ai docenti e quelli da far ingurgitare ai discenti, perché entrambi espressione di quell’approccio algoritmico all’apprendimento, rovina dell’individuo cristiano e liberale. Ma (quasi) nulla ci ha così insegnato nelle tre ore in cui ha pontificato dalla sua cattedra.

Di più invece abbiamo imparato da Dario Corno, e dai suoi problematici diagrammi di flusso. Che non esauriscono l’apprendere e l’insegnare, ne sono soltanto una parte: l’approccio euristico rimane fondamentale. Ma costruire una prova strutturata, il test di lingua e di storia, e poi limarlo, e poi buttarlo per uno migliore costruito collegialmente, serve prima per chiarire le idee a me stesso, e per insegnarle meglio, e poi per valutare gli allievi, e riprendere con essi il cammino. Oh, la valutazione formativa!

Raffaele Simone è l’unico su L’Espresso a dire alcune cose che condivido. Ma quanti, fra gli insegnanti che oggi protestano, le condividono? A un pizzico di demagogia si lascia andare anche lui, è la captatio benevolentiae: che ci raddoppino almeno, e subito, gli stipendi, che sono da fame!

La mia prima busta paga, lì all’Iti, conteneva, in contanti, 145.000 lire italiane. Ne ho avuti da allora raddoppi, ma non sono diventato più ricco, perché l’inflazione, a due cifre, e il debito pubblico, se li mangiavano in un battibaleno. Altro che "Ridateci Franca Falcucci!": nemmeno per il salario io vorrei tornare ad allora. Ma "la cacciata degli incapaci (che sono molti)" e "un’energica progressione di stipendio corrispondente a una carriera in crescita" sono i successivi auspici di Raffaele Simone.

Quando ho raggiunto la laurea (sono passati più di trent’anni), nulla sapevo, ovviamente, del revisionismo storiografico sul ‘900. Ma qualche tempo fa un collega, (non dell’Iti, sia chiaro), a una lezione d’aggiornamento, chiedeva a me, sottovoce, chi fosse quell’Ernst Nolte di cui blaterava il relatore. Ecco: io non credo che un insegnante di storia, in Italia e in Europa, possa oggi insegnare con dignità il Novecento se nemmeno sospetta dell’esistenza di Nolte, o se in Trentino non sa che Alcide De Gasperi non fu mai un irredentista. Queste conoscenze si possono ben valutare anche con dei test fatti bene.

Non ritengo umiliante che la società voglia sapere, tre volte nella mia vita, se mi sono mosso al passo con i tempi della ricerca. Né è vergognoso che il preside certifichi la mia puntualità, le assenze, e come tengo i registri. Che dicano la loro anche gli studenti che mi hanno avuto fra i piedi. Se in una prova sono tre quarti gli insufficienti, può un docente continuare come nulla fosse avvenuto, perché lui spiega l’evento con gli allievi zucconi e sfaticati? E che dire del docente bravissimo che mai ha dovuto dare a fine anno un’insufficienza, e dichiarare così il suo insuccesso?

Valutazione formativa, intendo, per accertare, spiegare, sollecitare al cambiamento. I milioni d’aggiunta andrebbero dati a figure specifiche e preparate in modo mirato. Ad esempio un coordinatore di disciplina, e di classe, dovrebbe almeno, per sostenerci, essere esperto in "gestione dei gruppi", e non essere nominato con un applauso. E se qualcuno, di Nolte proprio non vuole saperne, né quest’anno né l’anno prossimo, o ritiene a tutt’oggi il tolemaico un paradigma più esplicativo che quello copernicano, beh, perbacco, anche spolverare i libri e i computer è una funzione importante.

In ogni valutazione i rischi sono infiniti. L’oggettività non esiste. Non affiderei mai al nostro preside il compito di valutarci come lettori di "poesia", lui così sicuro che le macchine restano piantate per terra, mentre le metafore si dissolvono come le nuvole. E lo studente, che solo cinque anni dopo il diploma ha scoperto il valore dei giornali e della letteratura, a caldo, che direbbe di me? Le vittorie postume non hanno prezzo, altro che sei milioni!

L’acconciarci nella situazione di oggi è però inaccettabile, questo a me pare: proviamo a cercare. Emilia e Marta, voi siete giovani, avete degli anni davanti, e tanti giovani godranno del vostro lavoro.

Un’ultima cosa: la scuola non appartiene agli insegnanti. Quando entrai per la prima volta in un’aula, ero ancora studente all’università, trovai i docenti inferociti contro la riforma d’allora, appena approvata nel ’63 dal Parlamento, quella della scuola media unica proclamata diritto di tutti i ragazzi d’Italia. Pronosticavano una catastrofe, con le applicazioni tecniche, e senza latino!

Io li guardavo spaesato: solo poi ho capito che quella era stata la più bella legge della storia della Repubblica.