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Vita e resistenza in Chiapas

Vita in un villaggio, fra zapatisti e priisti.

Le assi sconnesse e irregolari della capanna, piantate verticalmente nella terra secca e crepata, non offrono riparo dalla polvere sollevata a sbuffi dalla brezza del pomeriggio. Seduto su una panchetta sgangherata, dalle mie mani cadono in ampie manciate i grani di mais. Guadalupe, madre di cinque figli dalla pelle color caffè, sorridente e già senza denti ad un’età indefinibile tra i 30 ed i 40 anni, mi guarda curiosa e riconoscente mentre levo accuratamente le foglie che ricoprono la pannocchia, afferro il coltello per il dorso della lama e sgrano i chicchi color girasole.

E’ il lavoro che di solito spetta a lei tutti i giorni per buona parte del giorno; il mais è per gli indigeni il cibo principale. Di tanto in tanto, i polli che razzolano liberi subito fuori dalla capanna, entrano di soppiatto e si avvicinano furtivi al catino di legno che sotto le mie mani va riempiendosi con grani gialli, arancioni, color del mango o della paglia secca. Pronti, i bambini li scacciano e li rincorrono come gatti sazi che giocano con i topi.

Bambini che strillano, gridano, piangono, ridono, corrono, guardano, scappano, chiedono, vogliono, non vogliono, pretendono, hanno diritto. Hanno la pancia gonfia per i parassiti - l’acqua non è disinfettata e l’igiene è scarsissima. Sanno divertirsi come pazzi con un semplice pezzo di legno, una fionda ricavata con un paziente lavoro di coltello, il fondo bucato di una tanica per trasportare l’acqua usato come slittino. Come è difficile la vita senza televisione!?

La camicia logora e sporca, i pantaloni strappati in più punti, le scarpe aperte e sdrucite, gli uomini tornano dal loro lavoro del campo. E’ l’imbrunire. Accendono le candele nelle case o i lumini a petrolio. Vivono da sempre seguendo i ritmi della natura, la sera dormono presto sulle assi che fungono da letto ma la mattina ricominciano alle prime luci. Penso alle strade illuminate delle città.

Durante il giorno, ma soprattutto la sera, la vita al villaggio è accompagnata dalla musica; musica allegra, sempre presente, che impedisce alle gambe di rimanere ferme ed al cuore di rattristarsi. Una chitarra, una fisarmonica, un violino; canzoni di feste, di balli, di nostalgie e di leggerezze. Con un sorriso di musica sulla faccia tornando dal lavoro o semplicemente passando davanti alla nostra capanna, nessuno ci nega il saluto. Alcuni si fermano, si siedono sulla panchetta malsicura o sulla terra battuta del pavimento; altri fuori, sul selciato che, nonostante sia sera, conserva il dolce tepore del sole del meriggio. Due chiacchiere, curiosità nate dallo scambio tra persone che vivono agli antipodi del globo terrestre; sane risate, sgangherate o sommesse. Si parla della guerra, della resistenza, della lotta alla povertà e tutto grazie alla musica diviene un canto fiero di speranza.

Nell’altra metà del villaggio, le abitazioni sono di assi ben piallate (a volte c’è anche il pavimento!), c’è una scuola in cemento, le "tiendas" (negozietti) sono molto più fornite. Molte case sono raggiunte dalla linea della corrente elettrica ed hanno un impianto di tubature idrauliche più efficiente.

Parlando con le persone, si capisce da subito che o sei da una parte o sei dall’altra: zapatista (simpatizzante dell’EZLN, Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional, esercito clandestino indigeno per la difesa dei diritti dei poveri e degli sfruttati) o priista (simpatizzante del PRI, il partito conservatore ufficialmente al potere in Messico da più di 70 anni).

La parte priista è quella più ricca, vede tra le sue fila le persone e le famiglie contadine che, accettando aiuti materiali dal governo, devono accettare - ineluttabile necessità - anche la subordinazione al partito e rinunciare al tempo stesso alla dignità ed alla lotta per la difesa dei diritti umani dei campesinos e degli indigeni. Non si tratta di una scelta in mala fede, piuttosto la logica conseguenza dell’estrema povertà e della speranza di poter dar da mangiare ai propri figli.

Dall’altra parte c’è chi appoggia il movimento zapatista, ossia chi resiste, chi sa rinunciare ancora, dopo secoli di rinunce e privazioni, all’assistenza interessata del governo, in nome della fine della guerra di oppressione, della libertà, della democrazia e della dignità.

Nel villaggio ci sono così due gruppi che, a poco a poco, si distanziano sempre più l’uno dall’altro. "La nostra lotta, la nostra resistenza, l’autonomia che chiediamo nei termini di una maggiore ed equa partecipazione negli affari del Messico, non sono richieste che riguardano solo noi zapatisti; sono per tutti, compresi i fratelli priisti, vittime della povertà e dell’inganno. Per tutti i poveri di questo paese!" - ci spiega lentamente Nicolas, venuto a visitarci nell’ora della siesta.

Di fatto, da che il governo ha iniziato questa politica di assistenzialismo, il villaggio ha visto distruggersi gradualmente la propria coesione interna. Neanche la messa domenicale nell’unica chiesa riesce a ricongiungere le due parti, le cerimonie sono separate. "Ci siamo scontrati anche per la questione dell’alcool. Loro [i priisti] bevono molto, sono spesso ubriachi, mentre la regola zapatista ci vieta l’uso di liquori ed alcoolici di sorta. Con l’alcool, il governo ci vuole controllare" - continua Nicolas. La sua voce suona tranquilla, scaturisce dalle sue mani callose per il lavoro nei campi, dalla pelle bruciata dal sole, dai vestiti logori che indossa.

Non posso fare a meno di ricordare quell’aneddoto (a parer di molti quanto mai vicino al vero) della nostra Napoli quando, in prossimità delle elezioni, la DC, nel suo periodo d’oro, regalava alla gente la scarpa destra, garantendo la sinistra solo dopo lo spoglio elettorale.

Dove trova la forza di continuare, da dove scaturisce la speranza per questa gente che resiste? So per certo che a contatto con queste persone, giorno dopo giorno, ci si fa contagiare da una serena determinazione, dalla coscienza che chi si ferma è perduto. Piedi nudi sulla terra, continuano la lotta. Calli sulle mani, continuano la lotta. Niente compromessi né quieto vivere nella tranquillità del "non sapevo".

Chiudendo una "lettera aperta" di ringraziamento a ragazzi, ragazze, donne e uomini che da tutto il mondo giungono in Chiapas per denunciare, con la loro presenza "scomoda", le continue violazioni dei diritti umani in questa guerra sporca e silenziosa, il subcomandante Marcos (leader carismatico del movimento rivoluzionario zapatista) una notte scrive: "Sento che è in arrivo un’altra volta il ronzìo dell’aereo militare del governo nei cieli del Chiapas. Devo subito spegnere la candela, ma non la speranza. Esa... ni muerto (questa ... neanche morto)".