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Cittadinanza in gabbia

E qualcuno rifiuta l’alternativa fra mentire dichiarandosi per quello che non è, o sentirsi straniero in patria.

A Bolzano, per molti giorni, un gruppo di persone ha digiunato. Il primo è stato un professore, una persona mite e schiva, che non ha mai cercato la notorietà. Eppure, ancora in una situazione fisica che i medici definivano allarmante, egli è arrivato ad affermare che anche una forma così estrema come il digiuno senza termine è utile per strappare "un quarto d’ora di attenzione" pubblica.

Qui non c’è niente di organizzato, come nelle iniziative dei radicali, che da sempre usano questo strumento non violento per attirare l’attenzione su questioni politiche trascurate dai mass media. Eugen/Eugenio Galasso è mistilingue e perfettamente bilingue, nell’impossibilità quindi di fare una dichiarazione di appartenenza linguistica non veritiera, come diverse migliaia di persone che vivono in Sudtirolo. Una non persona per la società sudtirolese.

Il sistema autonomistico, tutto incentrato sulla difesa delle minoranze linguistiche, non riconosce l’esistenza dei mistilingui. Ancora in questi giorni il presidente della giunta ha affermato: "I mistilingui non esistono". I figli di genitori di lingua diversa, le persone che per varie ragioni non appartengono all’uno o all’altro dei gruppi, o non fingono di farne parte, non hanno posto nello spazio pubblico.

Fra un anno, nell’autunno del 2001, come ad ogni inizio di decennio, arriva il censimento che a Bolzano chiede ad ognuno di apporre la propria firma sulla dichiarazione di appartenenza linguistica. Italiano, tedesco, ladino. Altro non c’è. Ovvero, si può barrare la casella "altro", però a quel punto si deve scegliere, "ai fini della proporzionale" a quale gruppo ci si aggrega. E nella "conta etnica" non si va tanto per il sottile e gli aggregati vengono contati insieme ai dichiarati. "Finalmente ognuno saprà a chi dei propri concittadini è uguale e da chi è diverso, separato, a chi è tendenzialmente contrapposto" - ha scritto nel 1980 Alexander Langer, quando per primo diede l’allarme di fronte al primo censimento nominale. Langer era contrario alla proporzionale, che si basa sulla conta etnica. Tuttavia è da chiarire che di per sé la proporzionale non dipende dalla nominatività della dichiarazione. Fino al 1981, infatti, la proporzionale veniva applicata basandosi sul censimento, anche linguistico, ma anonimo del 1971. Chi ne aveva bisogno, presentava una dichiarazione di notorietà, che manteneva il suo valore fino alla scadenza del periodo censuario. E di fatto ancor oggi sono solo alcune migliaia le persone che per concorrere a impieghi in pubblici uffici o per ottenere benefici di carattere sociale, in particolare nel settore dell’edilizia abitativa, hanno bisogno di esibire la dichiarazione.

Perché dunque far dichiarare tutta la popolazione e perché costringere in particolare i mistilingui a mentire, o a scegliere fra padre e madre, fra una parte e l’altra di se stessi?

Non lo richiede lo Statuto che contiene tre fattispecie in ordine alla necessità di censimento linguistico, con diversa intensità, e che nel complesso costituiscono un sistema abbastanza elastico. A metà degli anni Settanta si è deciso di usare il cannone della dichiarazione personale, anche in casi che non lo richiedevano necessariamente. Il risultato è stato di accentuare fortemente il separatismo del modello di autonomia, e di aprire la strada ad un’estensione non prevista nello Statuto dell’obbligo del requisito della dichiarazione etnica.

Il fatto è che la dichiarazione di massa ha conseguenze assai forti sulla società. Alle cittadine a ai cittadini del Sudtirolo anche giovanissimi si insegna che il loro primo - e possibilmente unico - elemento di identità è la lingua, o meglio una lingua. Per il Sudtirolo tutti i ragionamenti sull’identità che caratterizzano la riflessione su nazionalismo e razzismo in Europa e nel mondo, il timore del riprendere di vigore delle etnie e del micronazionalismo, vengono messi da parte come fuori tema. Eppure la definizione dell’identità, in una società che ne cerca disperatamente una, da parte di individui che vedono minata ogni certezza e sicurezza sociale e personale nel mondo globalizzato, diventa un indicatore del livello di civiltà. Se il riconoscimento dei diritti di cittadinanza viene subordinato, come nel caso sudtirolese, alla condizione di accettare un’identità per lo meno pubblica semplificata su un elemento, e che spesso, come nel caso dei mistilingui, ma anche di chi ha bisogno di accedere a risorse più abbondanti per un gruppo che per un altro, necessariamente non veritiera, si pone una condizione di grave sofferenza per alcune persone e quindi per la democrazia. In particolare in una terra che ha fatto del riconoscimento del diritto alla diversità un suo (giusto) vanto, l’indisponibilità a prendere in considerazione i diritti di una parte dei cittadini e delle cittadine suona come una stecca che rischia di far fare fiasco a tutto il concerto.

"La possibilità di una sana convivenza umana dipende dai diritti dello straniero, e non dipende invece dalla questione a chi spetti – lo stato o la tribù – decidere chi sono gli stranieri" - scrive Zygmunt Baumann in "La società dell’incertezza" (un libro che consiglio ai miei pochi lettori, insieme a "La solitudine del cittadino globale"). E’ pericoloso che chi detiene il potere decida anche chi può essere cittadino e chi no. Qui è normale: straniero è chi non si dichiara appartenente ad un gruppo. Anche se non può farlo perché è mistilingue: non lo salva il dire la verità, anzi è la sua colpa.

Voglio ricordare qui, ancora una volta, la "sequenza" di Hilberg (Raoul Hilberg) che, tra gli studiosi che negano la casualità dell’olocausto, ne indica in cinque fasi il percorso storico: definizione, segregazione, isolamento, deportazione, olocausto.

Definire, separare. Noi siamo al secondo stadio. Sul terzo ci siamo esercitati per quasi un secolo, reciprocamente, e per ora aspettiamo. Non è detto che si vada avanti. Non è neanche sicuro che ci si fermi. Jolande Mukagasana, ruandese tutsi sopravvissuta al genocidio del 1994, premio Langer del 1998, ha dichiarato che il genocidio in Ruanda ha avuto successo perché vi era stata prima, la definizione, con l’attribuzione di un documento di identità su cui risultava l’etnia di presunta appartenenza. Certo, siamo lontani dal Ruanda. Anche da Sarajewo. Ma c’è una sofferenza sottile e penetrante in Sudtirolo, che accompagna il benessere economico. L’impossibilità per un numero consistente dei suoi cittadini di sentirsi tali a pieno titolo.

Siamo lontani anche dall’Europa che vorremmo, della giustizia e della libertà. Che non è la propria, di fare quello che ci pare, ma la libertà che rende liberi, la libertà degli altri.