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QT n. 21, 25 novembre 2000 Cover story

Chi sono i responsabili

Gli errori, la perdita di cultura, il disprezzo del territorio, dietro i recenti disastri ambientali. Due casi emblematici: la svendita della golena, e la farsa della diga di Valda. Eppure la storia del Trentino insegna che...

"Chi è responsabile di tanta orrenda ruina?” era il titolo del manifesto che, all’indomani della sconvolgente alluvione del 1882, pubblicavano congiuntamente la Sat e i Touring Club Italiano e Germanico. Era il primo documento ambientalista del Trentino, che individuava nelle politiche di opere pubbliche (in primis la rettifica dell’Adige) e di assalti privati (in primis la deforestazione) le cause di quella che fu un’autentica sciagura.

Oggi, a distanza di oltre un secolo, in presenza di un disastro analogo (seppur meno calamitoso e, per fortuna, incruento) si pone la stessa domanda: chi sono i responsabili? Quali politiche bisogna radicalmente cambiare?

Sì, perché la (relativa) limitatezza dei danni (qualche centinaio di miliardi…) fa dichiarare all’irresponsabile che siede a piazza Dante “Il sistema ha retto” (Alto Adige del 22 novembre), ma in realtà non c’è da farsi illusioni: i climatologi sostengono che si è aperto un periodo di grandi sconvolgimenti, rispetto ai quali è doveroso attrezzare il territorio, invertendo la tendenza degli ultimi governi provinciali - e di quest’ultimo in particolare - ad autorizzare le molteplici, continue manomissioni.

“Il Trentino è affondato” - titolava L’Adige del 18 novembre. Il disastro ha avuto due aspetti: le esondazioni e le frane. In questo servizio affrontiamo il primo.

L'onda di piena dell’Adige ha fatto vari danni, soprattutto a Trento. Ma non c’è stato il disastro. In effetti sono entrati in gioco due aspetti positivi. Il primo è il deciso aumento della forestazione (con un raddoppio della biomassa negli ultimi decenni): il che, come noto, comporta maggior assorbimento dell’acqua piovana, stabilità dei pendii, ecc. Il secondo è un fatto tutto tecnico: l’utilizzo, per la prima volta nella loro storia, dei bacini delle centrali in funzione anti-piena: nei giorni antecedenti le ultime piogge, i bacini hanno rilasciato parte dell’acqua, così da poter poi fungere da serbatoi per trattenerla nei giorni critici.

Una politica da tempo invocata, che finora si era scontrata con l’ottuso e impunito egoismo delle società elettriche (“E se poi non piove abbastanza? Chi ci ripaga dell’acqua persa?” sostenevano); essere arrivati a una prima timida gestione programmata dei rilasci è un titolo di merito.

Però i punti positivi si fermano qui: tutto il resto è negativo e, se non ci saranno decisi cambiamenti di rotta, c’è di che temere per i prossimi autunni, in cui è facile prevedere la moltiplicazione delle “precipitazioni eccezionali”.

Il discorso riguarda il degrado del territorio, con la compromissione della naturale capacità di trattenere le piogge, e soprattutto l’occupazione delle zone di esondazione dei fiumi. Quanto più si occupano le golene (aree di naturale espansione delle acque), si chiudono gli alvei dentro argini stretti e rigidi, altrettanto ci si espone all’alluvione: l’acqua della “precipitazione eccezionale” non sta più nell’alveo ristretto e si riprende quello che era suo, con i dovuti interessi di lutti e distruzioni.

Ebbene, la politica dei governi provinciali e delle amministrazioni comunali, in questi anni è stata univoca, e dissennata. Le aree golenali, gli alvei fluviali non sono di nessuno, avanti con gli insediamenti. Avete per caso percorso la strada di fondovalle in Fiemme? Doveva essere sì uno sfregio al territorio, ma - ci avevano assicurato - tutto attorno la natura, ossia l’alveo dell’Avisio, doveva rimanere intatto, proprio per ragioni di sicurezza.

Ora si vede dove sono finiti i buoni propositi: tutt’intorno al fiume sono sorte nuove costruzioni, è uno spuntare di gru da ogni parte. Le amministrazioni comunali hanno dimostrato una drammatica regressione culturale, una totale incapacità di resistere alle singole pressioni economiche: a Tesero hanno fatto a bordo fiume la zona artigianale (se verrà alluvionata, dovremo anche pagare i risarcimenti?), a Cavalese hanno trasformato l’area prevista come parco fluviale in parcheggio (nell’alveo dell’Avisio) per la nuova telecabina del Cermis. Le giunte provinciali non sono state da meno: è stata l’ultima giunta Andreotti a promettere e finanziare il parcheggio per il Cermis, è stata l’attuale giunta Dellai a deliberarlo.

E così in tante altre zone: nella scheda riportiamo (da un comunicato congiunto di Wwf e Associazione Pescatori La golena svenduta) l’emblematica vicenda dell’area golenale alla confluenza del Noce con l’Adige, testé svenduta dalla sedicente ambientalista giunta Dellai.

Veniamo ora all’istruttiva vicenda della diga di Valda, saltata fuori, naturalmente, anche in questi giorni. Partiamo da una domanda provocatoria: qual è la principale differenza tra la diga di Valda, propugnata dalla Provincia e dall’Autorità di Bacino dell’Adige, e le alternative proposte dal Comitato per la salvaguardia dell’Avisio e dai Comuni della Val di Cembra e di Lavis? Il fatto che le alternative comporterebbero un minore impatto ambientale?

Il fatto che la diga di Valda sarebbe una soluzione più drastica ed efficace? Oppure il fatto che i Comuni cembrani s’inventerebbero di tutto pur di non essere loro a pagare il prezzo della salvaguardia di Trento dalle alluvioni? Sbagliato. La principale differenza sta nel fatto che con la diga di Valda si metterebbero in circolazione un sacco di soldi pubblici (fatti tutti i conti, attorno ai mille miliardi), mentre per le alternative basterebbe poco più di quanto si è sinora speso per la sola progettazione della diga. O meglio: con la diga di Valda quei soldi finirebbero nelle tasche dei soliti noti, mentre con le alternative, per quanto costose, il giochetto sarebbe impossibile. In definitiva: diga di Valda uguale grandi affari, alternative no.

Facciamo qualche passo indietro. L’idea di costruire in val di Cembra una diga di contenimento, per fermare le acque del torrente Avisio in caso di pericolo di straripamento dell’Adige, nacque dopo l’alluvione del 1966. In quell’occasione, infatti, fu proprio l’Avisio il principale responsabile dell’alluvione di Trento. Da qui la proposta di bloccare l’Avisio con una diga, da mettere in funzione soltanto in caso di pericolo alluvionale. Una soluzione avanzata la prima volta trent’anni fa, da una commissione dopo gli eventi catastrofici degli anni ’50 e ’60.

Elaborata da una commissione incaricata dal Governo italiano di predisporre un piano generale per salvaguardare il Paese dal pericolo di alluvioni, si trattava di una proposta seria, per quei tempi. Ma oggi, a distanza di trent’anni, probabilmente non più attuale o quanto meno da rivedere. Il problema è che in Trentino, intravista la possibilità di buttare sul piatto mille miliardi, il progetto della diga ha messo in moto numerosi interessi. Cosicché, in maniera sempre più sfacciata soprattutto negli anni più recenti, si è dato vita a quello che potremmo definire il Grande Inganno: individuare sconsideratamente nella diga di Valda la panacea di tutti i mali e creare, altrettanto sconsideratamente, le condizioni per farla ritenere dall’opinione pubblica indispensabile. Vediamo.

Anzitutto, nel piano De Marchi (così si chiamava il presidente della commissione incaricata dal Governo) si proponevano numerosi interventi sull’intero bacino dell’Adige, dei quali la diga a Valda era, quindi, solo uno dei tanti. Dipingere oggi la diga come la soluzione definitiva del problema alluvioni è quanto meno irresponsabile, un alibi per continuare a fregarsene della cura del territorio e concentrare l’attenzione solo sulla diga.

In secondo luogo, in trent’anni la scienza ha fatto giganteschi passi avanti. E oggi, abbinando le previsioni meteorologiche con i rilasci programmati dei bacini idroelettrici sparsi in Trentino (come si è timidamente iniziato a fare in questi giorni) si agirebbe in maniera molto più efficace, su tutto il territorio e non solo sull’Avisio.

Terzo. Anche la scienza idrogeologica ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni. Oggi gli interventi puramente idraulici, legati soltanto alla regimazione dei corsi d’acqua, al solo controllo delle loro portate, sono ormai considerati del tutto fuori mercato nel rapporto tra costi e benefici. Si privilegia invece la logica della cura globale del territorio, cercando di prevenire il problema a monte. Non è insomma un caso se tutti i progetti come quelli della diga di Valda sono stati ovunque abbandonati, poiché ritenuti del tutto insensati per il rapporto tra costi elevatissimi e benefici limitati. In Trentino, invece, come abbiamo visto, da una parte si propugna la deregulation ambientale, dall’altra si continua a spingere sulla diga di Valda.

Quarto. Da oltre dieci anni si attende il piano di bacino dell’Adige, ossia uno studio complessivo ed aggiornato accompagnato da proposte organiche per la sicurezza: l’Autorità di Bacino è stata istituita proprio per questo, ma anziché fare il proprio dovere si limita ad avallare, con un piano-stralcio, l’idea della Provincia di costruire la diga di Valda.

Tutti questi rilievi, e molto altro ancora, sono stati sollevati nella relazione presentata nel 1997, su commissione dei Comuni della val di Cembra e di Lavis, da Giuliano Cannata ed Ezio Todini dello studio Alpha Cygni di Roma, due esperti che stanno all’idrogeologia all’incirca come Bill Gates e Steve Jobs stanno all’informatica.

Si tratta di una relazione che è quasi un piano di bacino (quello stesso che l’Autorità di Bacino si ostina a non fare), corredato da una proposta organica alternativa alla diga di Valda: utilizzo dei bacini artificiali esistenti, esondazioni controllate in zone predisposte, rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, utilizzo molto spinto delle previsioni meteo e delle reti informatiche, prescrizioni urbanistiche molto severe, salvaguardia ed implementazione della naturale capacità di ritenzione idrica del territorio (foreste, biotopi, ecc.) e così via. Una relazione che si è poi trasformata nelle controdeduzioni avanzate a fine ’97, dai suddetti Comuni e dal Comitato per la salvaguardia dell’Avisio, al Ministero dei Lavori Pubblici e Ambiente, dove era in corso la valutazione d’impatto ambientale del progetto della diga di Valda presentato dalla Provincia (progetto sottoposto a VIA nazionale a causa delle grandi dimensioni dell’opera). E siccome gli interessi che stanno dietro la diga sono forti in Trentino, ma debolucci a Roma, il verdetto dell’ufficio VIA nazionale è stato drastico: vanno approfondite le proposte di Cannata e Todini.

Sono passati tre anni, ma le alternative sono rimaste ferme nel cassetto. Come dire: se non ci lasciano fare la diga, allora non serve. Insomma, meglio non fare proprio nulla ed anzi continuare a peggiorare le condizioni del territorio, far rischiare a Trento l’alluvione ed incolpare chi non ha voluto la diga. E sull’onda del panico, ottenere finalmente l’appoggio popolare per spendere quei mille miliardi.

Per i fautori della diga, i disastri di questi giorni sono i benvenuti. L’Autorità di Bacino dell’Adige, lungi dal presentarci il piano organico, ha colto l’occasione per riproporre la solita minestra della diga di Valda come panacea di tutti i mali, considerando la bocciatura al VIA romano come un incidente di percorso. E la Giunta Dellai, che proprio in questi giorni sta commissionando uno studio per verificare le possibili alternative, prima ancora che gli esperti siano incaricati ha già detto che la soluzione non sta in quelle proposte, ma nella diga di Valda.

Incredibile. Non è che il punto vero stia nel costo - troppo ridotto - di quelle alternative, e soprattutto, nel fatto che a guadagnarci non sia il solito giro di amici del cemento?

Il progetto di Valda, abbiamo detto, non è stato un’invenzione estemporanea: dopo l’alluvione del 1882 era stata prevista anche in studi del 1904 (cui collaborò Cesare Battisti), del 1921, e poi, come abbiamo visto, con il piano De Marchi del ’76. Valda e lo sbarramento sulla Rienza, storicamente sono stati considerati i due grandi interventi per la salvaguardia dell’Adige. Il fatto che oggi, a un secolo dai primi studi, essi siano giudicati superati non ci esime dal capire le dinamiche che li hanno finora ritardati.

Sulla Rienza è presto detto: il Sudtirolo non ha alcun interesse a un’opera impattante sul suo territorio, che salvaguarda il territorio altrui. E’ la stessa logica per cui nemmeno un metro quadro della campagna di Salorno è prevista come area di possibile esondazione per salvare Trento; o per cui la fossa di Caldaro, altro naturale punto di sfogo dell’Adige, viene continuamente “irrigidita” per salvaguardare al 100% i contadini locali, a danno di chi sta a valle.

E’ questo il motivo per cui sono state costituite le Autorità di Bacino: per superare le miopie delle amministrazioni locali, fatalmente tentate dai piccoli egoismi. Bene, cosa hanno fatto le nostre due gloriose Province Autonome? Si sono battute “in difesa dell’Autonomia” naturalmente, contro l’istituzione dell’Autorità di Bacino: “perché le prerogative delle Province Autonome, la cultura delle nostre popolazioni…”: insomma, le solite fanfaluche.

La Cassazione ha mandato le due Province a quel paese, sostenendo che la sicurezza delle popolazioni è un bene superiore all’Autonomia: meno male. Ma subito c’è stata la rivincita dei nostri potentati, che hanno prontamente provveduto a nominare un’Autorità di Bacino debole, che non disturbasse: ed ecco a capo dell’Autorità l’ex-sindaco di Trento Adriano Goio, personaggio molto discusso (il principale responsabile dello scempio di Trento Nord), contiguo all’affarismo, testè trombato alle elezioni comunali e quindi debolissimo.

E così l’Autorità non esiste, l’Autonomia è salva, progetti complessivi sull’Adige (a meno che non smuovano interessi multimiliardari per i soliti noti) non se ne fanno.

Eppure il Trentino, ha saputo apprendere dalle catastrofi del passato. Dopo il 1882, proprio su sollecitazione del manifesto ambientalista di Sat e Touring, si aprì a Vienna la facoltà di Scienze Forestali, e si diede il via ai primi interventi di sistemazione montana che ancor oggi reggono (il “muro di Francesco Giuseppe” che ha salvato Romagnano). Dopo il ‘66 si diede l’avvio alla Carta Forestale, con l’esplicita assegnazione al bosco di funzioni protettive. Dopo Stava, ci fu l’individuazione delle Zone a rischio, l’istituzione del Via, e tutta la legislazione ambientale dell’era Micheli.

Oggi, sappiamo ancora apprendere dagli errori?