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Gli insegnanti nella scuola che cambia

“Gli insegnanti nella scuola che cambia”, a cura di Alessandro Cavalli. II indagine Iard. Bologna, Il Mulino, 2000.

Dell’indagine Iard, dedicata agli insegnanti italiani, su queste pagine si è già parlato(Insegnanti: corrotti, depressi, sfiduciati, o cosa? Questotrentino n.16-2000). Ci soffermiamo ora su un aspetto particolare, quello della scuola non statale, che con il centro-destra al governo, e Letizia Moratti al ministero dell’Istruzione, sta diventando tema di infuocata polemica.

I dati sociologici affermano che 400.000 alunni italiani frequentano la scuola elementare (il 7,5%), la media inferiore (il 3,7%), la media superiore (il 6,8%), in istituti non statali. Il numero è esiguo, il 6% del totale, ma non trascurabile.

Se aggiungiamo le scuole materne esso però sale a 1.151.000. Del 90% di bambini che in Italia frequentano la scuola dell’infanzia, il 44% sono iscritti a scuole non statali. Il loro tipo di gestione è vario: religioso in prevalenza, ma anche laico (le scuole straniere ad esempio), e pubblico (degli enti locali).

Le funzioni affidate alla scuola materna sono: relazionali (socializzare ed educare), cognitive (trasmettere competenze), integrative (verso i bambini provenienti da altri paesi), di servizio alle famiglie (assistenza, cura, controllo). Esse sono dunque in buona parte svolte da scuole non statali, ed è difficile distinguere, in un adolescente, quale scuola materna ha frequentato da bambino. Le ragioni di questa pluralità affondano nella storia della variegata nazione italiana, che non è possibile cancellare, né sarebbe bene omologare. La diversità fra le scuole esistenti suscita anche polemiche, ma costruttive.

Il dato notevole è però che il 10% dei bambini (ma in certe aree del Paese, squilibrato com’è, arrivano al 30%), non frequenta ancora la scuola materna, e fra loro troviamo molti destinati a fallire nel percorso scolastico successivo. Domandiamoci: chi avrà la volontà, un giorno, se mai verrà, di preoccuparsi dei piccoli calabresi, esclusi da questo primo, decisivo, segmento scolastico? Sarà un "privato", una curia, un gruppo economico, un’ambasciata straniera, o la "società" tutta intera che cresce, lo "stato"?

Il punto più debole della (buona) riforma dei cicli scolastici, elaborata ai tempi dell’Ulivo, e oggi affondata dalla vittoria del centro-destra, fu la mancata introduzione dell’obbligo, pur prevista nel progetto iniziale del ministro Berlinguer, dell’ultimo anno di scuola materna, con cui doveva iniziare il ciclo primario. Contro quell’obbligo, che era diritto all’eguaglianza, si scatenarono le opposizioni di destra, e la resistenza culturale del "familismo", radicato anche nei partiti, e nella società, dell’ex maggioranza ulivista: il diritto della famiglia a "scegliere" se mandare a scuola i cuccioli, così piccolini, non si poteva violare! E poi quel ciclo riformato costava: per investire risorse in scuole materne in Calabria, da sottrarre ad impianti da sci, a nuove strade e autostrade, in Trentino e in Lombardia, ci vuole una società più matura di quella che le TV hanno formato. Né ritennero doveroso scendere in campo, per bimbi di pochi anni, i prestigiosi intellettuali che poi avrebbero contato, indignati, i minuti assegnati alla storia dell’arte nei curricoli dei nuovi licei.

Oggi, il ministro Letizia Moratti incarica la commissione presieduta dal prof. Giuseppe Bertagna, della Cattolica, di rispondere al seguente quesito: "Se… considerare la frequenza della scuola dell’infanzia, che resta non obbligatoria… come possibile credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dell’istruzione obbligatoria". In altre parole: si propone di avvantaggiare ulteriormente chi già la frequenta, quando i commissari risponderanno, è ovvio, che sì, è utile frequentare la scuola materna. I non frequentanti, e fra loro cresceranno i bambini stranieri, continueranno ad essere abbandonati al loro destino. Poi protesteremo: che non sanno l’educazione, rubano, pisciano lungo le strade. La riforma dei cicli, con il diploma a diciott’anni, entrerà così in vigore per i privilegiati.

In questo modo lo Stato, invece di ridurre le diseguaglianze, le accresce, in nome della libertà di scelta delle famiglie. L’articolo 3 della Costituzione ("E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese") potrà anche restare, sulla carta, in vigore, in attesa di poterlo stracciare, trionfalmente, fra un po’ di tempo.

E’ la storia a spiegare perché in altri paesi europei, laici, la scuola privata è più diffusa, come è la storia a spiegare che in Italia essa è comunque molto frequentata dai bambini delle materne. Riuscirà una decisione di governo, contingente, a invertire una tendenza che è di lunga durata? Alessandro Cavalli, il coordinatore della ricerca Iard, afferma che il dibattito in Italia sulla parità nasce "dal declino e dal rischio di estinzione" della scuola non statale.

Ma se non tutte le richieste vanno condivise, è però giusto che siano ascoltate e dibattute. Le funzioni che una società affida alla scuola sono di trasmettere conoscenze e tecniche per apprendere, competenze professionali, capacità relazionali, formazione culturale e politica. Finora in Italia i cittadini si sono dunque affidati, massicciamente, alla scuola di Stato. Sarà perché non ci sono stati ricchi in quantità sufficiente disposti a pagare, ad aprire, a tenere in vita, per i propri rampolli, una migliore scuola privata?

Però i tempi cambiano. Ricordo che Lucio Lombardo Radice, direttore di Riforma della scuola, collocava, negli anni Settanta, questo tema fra quelli residuali: laici e cattolici non si sarebbero più scannati per esso. Il dibattito sulla scuola privata è invece cresciuto negli ultimi anni. Paolo Trivellato lo spiega con quattro ragioni: la crescita delle concezioni liberali della società; la volontà dei cittadini di avere, all’interno del Welfare, una maggiore varietà di opzioni; le pressioni del mondo cattolico; l’analisi catastrofica che alcuni opinionisti hanno diffuso sulla qualità della scuola statale.

Le ragioni prevalentemente addotte per la scelta di una scuola non statale sono: la difesa di un’identità culturale-religiosa, l’affermazione del proprio status socio-economico, la migliore qualità degli insegnanti, la tutela da minacce (violenza, droga, cattive compagnie), il recupero dalle "cadute" incontrate nelle scuole statali. Ma la motivazione più frequente dell’iscrizione dei figli è la soddisfazione di esigenze familiari.

Che cosa pensano gli insegnanti statali della questione? Per i due terzi la scuola statale, in cui loro insegnano, è migliore di quella non statale, soprattutto per quanto riguarda la preparazione degli insegnanti e la serietà delle verifiche dell’apprendimento degli allievi.

Il finanziamento pubblico (sia quello diretto alla scuola, che quello indiretto alle famiglie) è respinto nettamente dai tre quarti degli insegnan ti delle scuole medie inferiori e superiori, e dai due terzi delle materne ed elementari. I favorevoli sono una ridotta minoranza del 15%. L’iniziativa privata, potenzialmente concorrente, è respinta per una ragione soprattutto valoriale-ideologica, non modificabile da esperienze fattuali. Nemmeno la necessità di mediare per formare un governo, o di armonizzare l’Italia ai paesi europei, cambia di molto le risposte. Naturalmente i docenti delle scuole non statali sono favorevoli (il 75 %) al finanziamento pubblico.

Ma qual è il rapporto fra i due tipi di docenti? Ci sono delle consonanze notevoli quando sono invitati a giudicare la scuola, la necessità della riforma, ad esprimere la propria percezione, ideale ed attuale, della professione docente.

Sui nuovi esami di Stato, in vigore da tre anni, le risposte quasi coincidono: il 72,5 % li giudica un miglioramento, solo l’8,1 vi vede un peggioramento, e per il 7,4 non è cambiato nulla. La possibilità, per i candidati di istituti legalmente riconosciuti o parificati, di sostenere l’esame dinanzi ai propri insegnanti, è invece considerata positivamente solo dagli insegnanti non statali (85%), mentre quelli statali la considerano tale solo al 33%. L’accordo ritorna, ma al ribasso (30%), quando si chiede un giudizio sulla possibilità per chiunque di essere ammesso all’esame dopo aver compiuto i 23 anni.

Le divergenze fra i due gruppi sono interessanti, e fanno pensare. I non statali sono più giovani, ma soprattutto più motivati, e meno pessimisti nell’avvertire un declino del prestigio sociale dell’insegnante. Considerano più positivamente il contesto relazionale in cui operano, cioè il rapporto con i dirigenti, gli altri docenti, i genitori. Si identificano con il loro istituto, e difendono le forme di reclutamento con cui sono stati assunti.

Io non penso che dalla scuola privata, per quanto sostenuta da "bonus", detrazioni, ammennicoli vari, verrà mai, nel contesto italiano, una reale minaccia alla scuola statale. Né un reale stimolo al suo miglioramento. Rimarrà scuola di élite, non di massa. Però sono cento le ragioni che fanno scegliere alcuni, ed altri desiderare, la scuola privata. Vanno capite, e discusse. Lì ci sono imbrogli, integralismi, profitti, ma anche dedizione ed impegno, in insegnanti e studenti. Sono cittadini italiani che non vanno regalati a Berlusconi, perché un sistema unitario di istruzione soddisfa meglio l’ideale degli operatori più generosi. Né vale l’argomento, "che facciano nella loro scuola quello che vogliono, purché se la paghino": sono, appunto, cittadini italiani.

Il problema, per chi vuole discuterne senza stancarsi, e senza la pretesa di arrivare ad un accordo definitivo, non è la distribuzione di manciate di soldi. Nell’epoca postmoderna, conclude Paolo Trivellato il suo saggio, i sistemi educativi sono policentrici. La domanda di istruzione non statale viene spesso da genitori, non per opzioni religiose o liberali, ma che vogliono delegare a "qualcuno" l’educazione dei figli. E la domanda di istruzione statale viene spesso non per convinzione nel pluralismo, ma perché lì ci si esercita meglio a destreggiarsi nella "giungla" del mondo.

Domande originate da illusione e cinismo, da una crisi ambedue, impregnate di paura e sfiducia. Forse discutere di questi problemi è anche il modo più efficace per far fronte all’offensiva strumentale di chi, dietro qualche lira, fa balenare la libertà di scelta delle famiglie.