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QT n. 20, 24 novembre 2001 Monitor

“Aida” e gli Altri

La regia di Ivan Stefanutti su un'opera oggi difficile da rappresentare: attualizzazione, rifiuto del grandioso, ricerca psicologica.

Cosa avrebbe detto Verdi se avesse visto la rappresentazione della sua Aida al Teatro Sociale di Trento del 15 e 16 novembre scorso? Avrebbe apprezzato, in controtendenza rispetto alla pompa degli allestimenti, "tutto il bataclan" come la chiamava Verdi stesso, la scelta del regista Ivan Stefanutti di declassare il ruolo della celebre festa trionfale (atto II, scena II) a tutto vantaggio della valorizzazione dei dialoghi intimisti del III e IV atto (Aida-Amonasro, Aida-Radames)? Da uomo pragmatico e concreto qual era, abituato a confrontarsi con gli eventi della sua epoca, crediamo di sì, soprattutto perché finalmente emerge, liberata dal frastuono dell’esteriore evidenza spettacolare, quella sorprendente capacità della musica di passare dai grandi quadri corali e collettivi alla solitudine dei personaggi principali, nettamente connotati dalla finezza di indagine psicologica della partitura musicale e che l’atmosfera soffusa e misteriosa dei fondali dell’allestimento trentino, ora verdi, ora rossi, aperti su galassie lontane, non fa che accentuare.

Mentre i citati "trionfi" si riducono ad un’umoristica parata di sparuti soldatini-marionette, ridicoli nel loro incedere ingenuamente marziale, (quasi nel segno di un brechtiano principio di estraniamento) e certamente suggeriti non dall’esiguità dallo spazio scenico del Sociale, ma da una precisa volontà registica. Del resto un’Aida vista qualche anno fa, nello spazio pure contenuto del Teatro dell’Opera di Roma, ancora rilanciava la carta della pompa e magniloquenza da Grand-Opéra.

Dunque una bella occasione questa, nel centenerio della morte di Verdi, per riflettere sul significato di un’opera che, popolarissima e considerata opera massima di Verdi prima di Otello e Falstaff, è di anno in anno sempre più difficile da rappresentare. Occasione che l’estro creativo del regista non ha mancato.

La sfida è consistita nel riattualizzare la messinscena proiettando l’Egitto da favolistica in una dimensione futuribile e fantascientifica, segnata dall’uso di costumi dai tessuti tecnologici, dai fondali galattici, dall’uso di luci ipertecnologiche. Insomma, su un altrove che, concepito da Verdi alla luce di un esotismo fin de siècle quale quello vagheggiato da un’Italietta in procinto di lanciarsi nell’avventura coloniale (e guarda caso iniziata tragicamente ai danni dei territori etiopi nel 1885), non parla più alla nostra immaginazione, nutrita da visioni cinematografiche e letterarie lanciate alla velocità della luce tra viaggi stellari e navicelle spaziali. Solo le ipermoderne mitologie cosmiche - sembra aver pensato il regista - possono dare, oggi, cittadinanza e sostanza di sogno a quell’alterità per la quale ai tempi di Verdi poteva bastare qualche approssimativa egittologia.

Un’edizione dell’Aida che ripropone il confronto-scontro con l’Altro, il diverso (impensabile per quei tempi integrazione o melting-pot). Gli Etiopi, solitamente rappresentati scuri di pelle, sono gli Altri al tempo di Verdi, ma qui sono presentati come vichinghi dalle lunghe e selvagge chiome e dal colorito pallido, perché la diversità oggi è più multiforme, e può essere indicata - come ha scelto il regista - con qualsiasi altro colore della pelle. Significativa la soluzione di presentare gli Etiopi in scena umiliati da una posizione sempre prona, per evidenziare in contrapposizione la scaltrezza di Amonasro, cui restituisce presenza scenica e convincente ambiguità Luca Grassi.

Ma le deroghe alla tradizione non finiscono qui. Il capo dei sacerdoti, Ramfis, cui dà voce tonante Antonio De Gobbi, una sorta di Grande Inquisitore, abbigliato con tonaca nera, cappuccio e maschera (ricodo delle maschere del teatro No giapponese o della pittura facciale del più popolare Kabuki) dalle lucine rosse ai lati, è la stessa lugubre metafora di quegli uomini che non sono uomini ma una carica, un’istituzione religiosa, maggiormente enfatizzata dal total look nero da cui il fondamendalismo dei suoi interventi si fa più impersonale ed anonimo. Del resto è la sua figura a dare l’avvio alla vicenda, investendo Radames dell’incarico di combattere contro gli Etiopi e, a chiusura, comminandogli la pena di morte.

Fa da contraltare una bionda Aida, Amarilli Nizza, il cui registro canoro è più lyrique ed espressivo che impetuoso nei passi di stile largo e cantabile, e particolarmente nei dialoghi col padre Amonasro, in cui l’amor di patria è rievocato con caldi accenti ("Là tra foreste vergini") piuttosto che su un astratto dover di patria. Amneris, la figlia del faraone e rivale in amore di Aida, è Annarita Chiuri, che dà voce e interpretazione attoriale decisamente uniformata verso l’affresco di una donna dura e abituata al comando; compare spesso in scena portando al guinzaglio una coppia di schiavi, lussuriosa quanto basta a suggerire la dissolutezza dei costumi dei Tebani (si noti il groviglio di corpi all’inizio della prima scena del II atto). Non stupisce che l’anatema anticlericale (atto IV, scena I) sia lanciato proprio da lei.

Infine Radames, Viktor Afanasenko, che nel primo atto appare decisamente statico, ma poi acquista credibilità di personaggio a tutto tondo, soprattutto nell’ultimo, grazie ad una voce che si fa più attenta alle sfumature.

Non mancano suggestioni da Art Nouveau e arts déco nella ri-creazione dell’atmosfera esoterica e languida di alcune scene (invocazione al Fthà, atto I, scena II) che si colgono nel preziosismo cangiante dei alcuni dettagli o negli arabeschi stilizzati delle coreografie.

Insomma, crediamo che riscoprire i nuclei di forza di questa opera, tentando di farle parlare il linguaggio di questi tempi di globalizzazione, reale e virtuale, di rimescolamenti geografici e nuove divisioni sociali, sia forse l’unico modo per riproporla.

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