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Il tibet fuori dal Tibet/2

Ancora l'incontro con la realtà della diaspora tibetana in India.

Agrippino Russo

Namghyal Norbu, il direttore responsabile del campo, ci conduce nel suo piccolo ufficio attraverso un dedalo di viuzze; e lì gli rivolgiamo alcune domande

Da quanto tempo vi è lo stanziamento tibetano di Kusumpti?

"Dopo l’insurrezione popolare di Lhasa del 1959 e in seguito alla repressione dell’esercito di Pechino, moltissimi tibetani sono fuggiti attraverso i valichi himalayani di India, Nepal e Bhutan. Qui a Shimla il governo indiano si è premurato di aiutarci già dagli inizi degli anni sessanta. Ufficialmente lo stanziamento di Kusumpti esiste dal 1964".

Quali sono i problemi più urgenti con cui dovete confrontarvi?

"I problemi sono principalmente di ordine economico e sanitario. Attualmente la fuga dal Tibet continua con un ritmo di circa 300 persone al mese che riescono a passare le frontiere attraverso l’Himalaya. L’India è ancor oggi tollerante, ma paesi come il Nepal cercano sempre più di scoraggiare tali fughe e, se intercettati, i fuggitivi vengono riconsegnati ai cinesi con conseguenze facili da immaginare.

Attualmente siamo aiutati dal Governo tibetano in esilio che ha la sua sede a Dharamsala, ma il nostro stanziamento è un ‘Tibetan self-help center’ che cerca di auto-finanziarsi con le attività che avete appena visto. Quanto all’aspetto sanitario, molti profughi hanno il sistema immunitario debole, impreparato al clima indiano, quindi patologie come epatiti, tubercolosi e malattie intestinali di tipo batterico sono all’ordine del giorno. Qui, oltre che delle strutture sanitarie indiane, usufruiamo anche di un medico di medicina tibetana formatosi nell’università medica del Delek Hospital di Dharamsala, che cura secondo i metodi della nostra medicina. Abbiamo anche una scuola materna e una scuola primaria frequentata da duecento studenti, che una volta terminati gli studi cercheranno una difficile occupazione o, se ne avranno la possibilità e la voglia, approderanno alle scuole superiori".

Quanti rifugiati sono presenti a Kusumpti?

"Vi risiedono circa 1.500 persone, ed altre entità tibetane minori risiedono in diverse località dei dintorni come Dolanji, Narkanda e Sarog. Grosse comunità tibetane sono presenti nella regione del Kinnawar e nel distretto dello Spiti-Lahaul, a ridosso del confine con il Tibet . In India attualmente si contano 150.000 rifugiati sparsi negli stati del Bengala, Aruchanal Pradesh, Himachal Pradesh, Uttar Pradesh e Karnataka".

Ha notizie di ciò che avviene in Tibet?

"I profughi che arrivano raccontano di uno stato di polizia che controlla in modo sistematico la vita del nostro popolo. E’ vietato qualsiasi dissenso e gli arresti e le torture sono il deterrente per tenere a freno ogni voce di protesta. Finire nelle carceri cinesi spesso significa non uscirne più e basta poco per essere accusati di qualcosa. Al di fuori delle città come Lhasa o Shigatsè, la realtà del Tibet è drammatica. Una politica agricola di sfruttamento intensivo delle colture, in pochi anni ha impoverito e desertificato molti terreni, con le conseguenti carestie e spostamento di popolazioni in altre regioni. C’è poi il problema della massiccia immigrazione cinese, che è attualmente predominante rispetto alla popolazione tibetana, diventata ormai minoranza etnica in casa propria.

L’occupazione ha portato anche ad una sorta di apartheid da parte dei cinesi, che si sentono culturalmente superiori ai tibetani e quindi tendono a discriminarli in svariati modi. Per esempio, un bambino cinese avrà sempre più opportunità per l’educazione che non un bambino tibetano, oppure ai cinesi è permesso di sposare una tibetana ma non il contrario. Tutti i posti di responsabilità sono in mano ai cinesi e la nostra gente è costretta a fare solo i lavori più umili e meno remunerativi. La stessa cultura nomade è stata soppiantata da una stanzialità coatta che ha fatto degenerare il modello societario dei pastori con un impoverimento sia materiale che psicologico degli stessi. Oggi i pastori si muovono in spazi sempre più ristretti con sempre meno risorse alimentari per le mandrie e questa specie di prigionia strutturale li rende facili al degrado e prede dell’alcool che i cinesi usano come mezzo di controllo e immettono in gran quantità sul mercato tibetano".

Ma la Cina ha comunque dato anche possibilità di sviluppo ad un paese da millenni isolato dal mondo e con un assetto sociale e forme di governo che in occidente definiremmo feudali...

"L’isolamento naturale del Tibet e un governo teocratico che si perpetuava nei secoli attraverso la figura del Dalai Lama come guida spirituale e politica del paese, era senza dubbio una realtà anacronistica e fuori dal tempo. Ma il Tibet è sempre stato un’eccezione. Questo tipo di feudalesimo, come dite voi, ci ha comunque permesso mille anni di relativa pace con i nostri vicini e uno stile di vita molto influenzato dal buddismo, che in termini pratici significava rispetto e tolleranza verso ogni forma di vita. Se andate a guardare la storia del nostro paese vi accorgerete che non abbiamo mai avuto grosse tensioni sociali e, nonostante tutto, il nostro popolo, che è di origine nomade, ha sempre goduto di ampia libertà sia di pensiero che di movimento. Secondo gli attuali parametri dal punto di vista del progresso eravamo molto indietro, ma sostanzialmente felici. Oggi i cinesi ci hanno portato il progresso ma non vedo tibetani felici. Se fossero felici non scapperebbero. Perché allora continuano a fuggire? Ci dicevano che erano venuti a liberarci da una classe di monaci corrotti e che il buddismo addormentava le coscienze, ma quando c’era il Dalai Lama la vita era tranquilla e regnava un ordine sociale apprezzato dai suoi abitanti che è comunque difficile da spiegare per chi non è mai vissuto in Tibet. Il progresso ha creato problemi prima sconosciuti. Nessuno in passato conosceva i danni all’ambiente perché il nostro modo di vita era estremamente protettivo e rispettoso di ogni forma vivente. Oggi i cinesi hanno reso il Tibet un luogo irriconoscibile dal punto di vista ecologico e gli effetti più evidenti di tali disastri sono il disboscamento continuo delle foreste del Kham, il depauperamento delle materie prime del sottosuolo, e i vasti territori usati come discariche nucleari a cielo aperto in cui non è più possibile vivere, coltivare, o allevare animali. Il lago Kokonoor, che per noi è sempre stato un luogo sacro, è oggi il più importante sito per gli esperimenti nucleari di Pechino. E più di un quarto della sua forza missilistica è dislocato in varie regioni della ‘Provincia Autonoma del Tibet’. Intere aree del paese sono ormai completamente militarizzate ed altre sono state avvelenate dalle scorie radioattive, con gli abitanti che stanno morendo di malattie tumorali simili a quelle di Cernobyl. Ma tutto passa sotto silenzio e per Pechino il problema non esiste".

Pensa che sarà possibile intavolare trattative con la Cina per ottenere una sorta di autonomia per una salvaguardia dei valori della vostra cultura e della vostra sopravvivenza?

"Sono quarant’anni che il Dalai Lama e il Governo tibetano in esilio cercano di intavolare trattative con Pechino, ma fino ad oggi le risposte cinesi sono state di totale chiusura. Per la Cina non esiste un problema Tibet come non esistono un milione e mezzo di tibetani uccisi a causa delle persecuzioni politiche. Ma il tempo, purtroppo, gioca a loro favore. Ancora pochi anni e i tibetani diventeranno solo un ricordo, un altro popolo estinto e un’altra cultura cancellata nel panorama delle minoranze etniche del pianeta. La nostra speranza sono i profughi che riescono a scappare. Siamo noi i testimoni di ciò che avviene e siamo noi che dobbiamo continuare a tenere in vita le tradizioni e le usanze di un popolo destinato a soccombere".

Come può l’Occidente aiutare il Tibet?

"Facendo pressioni sulla Cina affinché si decida ad intavolare trattative serie per un’ autonomia reale del nostro paese. Siamo un popolo semplice ma realista. Sappiamo bene che i cinesi non lasceranno più il Tibet, ma se ci permettessero una certa libertà di gestione potremmo almeno sperare di salvare la nostra cultura e le nostre tradizioni. E questo sarebbe già un enorme passo avanti. Nel presente quello che l’Occidente può fare è di tenere vivo il nostro problema e favorire i profughi con aiuti e programmi di sviluppo. L’India ci ospita, ma ha già enormi problemi interni da risolvere, quindi ogni tipo di solidarietà è il benvenuto. Grazie".

L’intervista è finita. Mr. Namghyal si congeda per andare a controllare i lavori di ristrutturazione delle tubature dell’acqua che dopo l’ultimo monsone sono scoppiate allagando parte dello stanziamento. Prima di lasciarci ci mette al collo delle katà, sciarpette bianche che nella tradizione buddista vengono donate agli ospiti. Un gesto semplice, la cortesia di un popolo gentile che si rifiuta di morire, bistrattato dalla Storia e dall’indifferenza degli "stati civili" che nonostante tre risoluzioni di condanna dell’ONU nei confronti della Cina per l’invasione di uno stato sovrano, fingono di non vedere e chiudono gli occhi per non irritare il più importante patner economico del prossimo futuro.