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QT n. 3, 8 febbraio 2003 Scheda

Soli, in gabbie dorate

Invece che inveire contro una gioventù che non ha rispetto di niente, sarebbe meglio esaminare quello che siamo diventati: cultori dell’esistente che non sanno più additare l’impossibile, l’unica avventura per la quale i giovani sarebbero disposti a imbarcarsi.

Achille Rossi

L’esperienza di questi ultimi anni ci presenta una generazione di ragazzi più aggressivi, più autocentrati, che faticano ad accogliere gli altri. Al punto che i loro compagni appena più grandi si scandalizzano e avvertono come una cesura generazionale: "Noi non eravamo come loro, vero?" - chiedono stupiti. La condizione giovanile di oggi appare segnata da una specie di solitudine relazionale; questi ragazzi sono poco pensati da adulti troppo indaffarati e distratti, per poter costituire un solido punto di riferimento. Hanno avuto relazioni più fragili, per questo provano difficoltà a entrare in qualsiasi forma di rapporto.

Non ci vuole molta fantasia per cogliere qualche figura di tale solitudine. Abbiamo ascoltato tutti le lamentele del figlio unico che chiede ai genitori: "Con chi gioco, che faccio?" e constatiamo quanto spesso nelle famiglie i bambini siano affidati alla Tv in una relazione a senso unico che li rende dipendenti e passivi. A nulla vale sommergerli di giocattoli, come si fa per tradizione in questo periodo, per mascherare la nostra latitanza. Spesso i regali sono "la solitudine legata con un nastro d’argento", secondo la bella definizione di Paolo Crepet.

Se diamo un’occhiata alla situazione degli adolescenti ci accorgiamo che la loro solitudine è impastata di tecnologia: la maggioranza dei ragazzi traffica con computer, play station, cellulare, Tv e il tempo quotidiano di conversazione con gli adulti si riduce a pochi minuti, su un registro stereotipato e povero che raramente tocca livelli profondi. Penso che nasca proprio da qui quell’analfabetismo affettivo che molti psicologi rimproverano alla gioventù di oggi. Non è colpa loro se non sono stati educati a percepire e a coltivare la dimensione emotiva. Nessuna meraviglia che per uscire da questa solitudine si abbia bisogno della complicità del branco. O che per sentirsi vivi occorra provare sensazioni forti, mettendo in atto comportamenti al limite della criminalità.

Qualcuno ha fatto notare che i bambini iperprotetti e coccolati di ieri sono gli adolescenti esigenti ed egocentrici di oggi. Si è coltivata la loro onnipotenza, invece che dire i "no" decisivi che li avrebbero strutturati. Quante volte si sente in bocca ai genitori quella frase micidiale: "Al mio bambino non gli deve mancare niente!". Per questa preoccupazione di scansare ogni sofferenza si educano ragazzi allergici a qualsiasi forma di sacrificio e di impegno. Ma evitare le scelte significa essere condannati a non crescere. Non è un caso che i giovani di oggi facciano molta fatica a tagliare il cordone ombelicale con la famiglia e ad assumersi le proprie responsabilità.

La iperprotezione, che è solo un riflesso della possessività e della paura dell’adulto, ha effetti negativi sulla vita dei bambini, perché impedisce le esperienze libere e, alla lunga, genera passività e violenza. Ha ragione Francesco Tonucci nel sottolineare che la vita di un bimbo di oggi è piena di impegni come quella di un piccolo manager e che non c’è più tempo per giocare e dunque per sviluppare un approccio personale alla conoscenza del mondo.

L’aspetto più inquietante della condizione giovanile di oggi mi sembra legato alla difficoltà di costruire una base solida per affrontare l’avventura della vita. Come se la società contemporanea li avesse defraudati dei sogni e costretti a vivere di niente, quasi a volare rasoterra. E in questo, naturalmente, i giovani non hanno alcuna responsabilità. Dipendono dagli adulti, che mancano però di una visione forte della vita e, in realtà, credono solo al denaro, al consumo, al successo. C’è una grande ipocrisia nello scandalo che gli adulti esprimono quando i giovani imparano la lezione e si comportano di conseguenza.

Invece che inveire contro una gioventù che non ha rispetto di niente, sarebbe meglio esaminare quello che siamo diventati: cultori dell’esistente che non sanno più additare l’impossibile, l’unica avventura per la quale i giovani sarebbero disposti a imbarcarsi. Bisognerebbe proporre uno stile di vita più saggio e più umano, che privilegi la relazione e indichi nel dono di sé la realtà più autentica dell’esistenza.

I giovani hanno bisogno di adulti che credano in qualcosa: una fede, un amore, una passione che sappia riscaldare il loro cuore. Non c’è di peggio che trasmettere rassegnazione, cinismo, avidità. E il messaggio non dovrebbe essere affidato alle parole, che spesso scivolano nel moralismo e nel rimprovero facile, ma a quello che siamo in profondità. I giovani di oggi richiedono adulti maturi, che li prendano sul serio, li sappiano ascoltare, li aiutino a esprimersi senza abdicare al loro ruolo. Solo così sarà possibile riannodare il filo tra le generazioni che si sta pericolosamente spezzando e che condanna i giovani alla distruzione e gli adulti all’inutilità.

Non si può conseguire però questo risultato senza mettere radicalmente in discussione gli assiomi centrali della civiltà contemporanea. La mercificazione universale, che sembra l’ultima parola della modernità occidentale, sta assassinando la nostra gioventù e ci ruba il futuro e la speranza.