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QT n. 3, 8 febbraio 2003 Servizi

Il diritto di morire bene

Il problema dell'eutanasia: né accanimenti né sofferenze atroci, ma una cultura dell’accompagnamento alla morte. Con tutti i bisogni della persona: fisici, relazionali, psicologici, esistenziali, spirituali.

Il processo di secolarizzazione culturale non ha risparmiato l’ambito bio-medico, investendolo anzi con le istanze di libertà, autonomia e responsabilità personale, che comportano il rifiuto di qualsiasi tipo di interferenza esterna, laica o religiosa che sia, sulle scelte fondamentali di vita.
Intollerabile risulta in particolare la tirannia nella fase del morire esercitata da automatismi e proceduralismi tecnici, quando la "fattibilità tecnologica" rischia di diventare la fonte di legittimazione delle decisioni. Ed il paziente è "costretto a sopravvivere non perché lui (...) lo voglia ma semplicemente perché è stato attaccato ad una macchina dalla quale unicamente – d’ora in poi – sarà deciso il suo destino" (Centro di Bioetica, Diocesi di Treviso, in Minerva Anestesiologica, suppl. 1 al n.9). Da questo conflitto è nato il problema dei limiti da porre alle "sollecitudini" mediche nella fase finale della vita.

Uno spaccato di quello che succede negli ospedali ce
lo offre la ricerca del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano, condotta nel periodo giugno-luglio 2001, su "La sospensione delle cure in Terapia intensiva: orientamenti, motivazioni e prassi dei medici rianimatori nella città di Milano". Su quei trattamenti, quindi: rianimazione cardiopolmonare, ventilazione meccanica, supporto cardiocircolatorio meccanico, le varie forme di depurazione sostitutiva renale ecc., che possono sì restituire una persona alla vita, ma che ai malati terminali possono sottrarre il diritto ad una morte liberatoria rapida e naturale, prolungando arbitrariamente le loro sofferenze.

Il questionario, che garantiva l’anonimato, è stato inviato a tutti i medici delle 20 UTI (Unità di terapie intensive) dislocate presso gli ospedali del capoluogo lombardo e il tasso di risposta è stato molto alto: 86,9% per i medici (225 su 259); 100% per le UTI.

Il dato che più ha colpito l’opinione pubblica (e che ha fatto infuriare il ministro Sirchia) è quel 3,6% di casi, in cui si dichiarava che la sospensione dei trattamenti di terapia intensiva era stata accompagnata con la somministrazione di farmaci "a dosaggi volutamente letali". Comportamento, per altro suffragato da un giudizio di "accettabilità etica" espresso dal 15,8% dei rispondenti. Prima di stupirci, ricordiamo che in Europa un analogo sondaggio ha fatto registrare una percentuale di medici favorevoli pari al 40% e che in Francia "un medico su due ammette che, nel suo reparto, (l’eutanasia) è una consuetudine". Lo riferisce Marie de Hennezel ("La dolce morte", Sonzogno Ed., 2002), psicologa e psicoterapeuta francese, che ha lavorato dieci anni con un’équipe di cure palliative all’Istituto Montsouris di Parigi.

La ricerca di Milano, presenta peraltro altri aspetti meritevoli di riflessione: che negli ospedali milanesi, la decisione di sospendere le cure intensive è frutto di una scelta collegiale dell’équipe medica (82,4% dei casi), ma con scarso coinvolgimento del personale infermieristico (solo 13,1% dei casi), di coloro cioè che sono a più stretto contatto con il malato; che solo poche volte viene riportata sulla cartella clinica del malato la decisione di sospendere le cure; che nel processo decisionale non ci si cura quasi mai di "ricostruire volontà o orientamenti del paziente non competent", e competent, cioè capace di intendere e di volere, quando arriva in quei reparti lo è solo raramente; che i familiari sono praticamente esclusi dal processo decisionale; che solo di rado si utilizzano consulenze etiche esterne ed infine che ben il 55,9% dei medici rispondenti dichiara di non conoscere le "raccomandazioni e linee guida di Società scientifiche straniere", in materia.

Il quadro che questa ricerca presenta è quello di una metodica molto più "cauta e conservativa", ma anche di più basso livello, rispetto non solo a quanto avviene in Europa, ma rispetto agli stessi orientamenti del Codice di Deontologia Medica (C.D.M.), per lo meno dopo le modifiche del 1999. La principale fonte di autodisciplina del corpo medico bandisce, infatti, gli accanimenti terapeutici (Art. 14: "Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita"); stabilisce il dovere di prestare le cure palliative; fissa nella dignità della vita residua l’obiettivo dei trattamenti; mostra grande attenzione per l’autodeterminazione del paziente, anche sotto la forma di "direttive anticipate", affidate cioè in via preventiva ad un documento scritto (testamento di vita, testamento biologico).

A quest’ultima disposizione ha dato finalmente un ancoraggio certo la Legge n. 145 del 14.3.2001, che ha recepito la "Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina" del Consiglio Europeo, la quale all’art. 9 stabilisce: "Verranno presi in considerazione i desideri precedentemente espressi in relazione a un intervento medico da un paziente che al momento dell’intervento medico non sia in grado di esprimere la propria volontà".

La SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Antalgia, Rianimazione, Terapia Intensiva) successivamente ha intrapreso l’elaborazione di alcune "Raccomandazioni" che rafforzano e specificano ulteriormente quegli orientamenti: "Non devono essere trattati in modo intensivo pazienti in fase terminale per una patologia irreversibile"; "è clinicamente appropriato ed eticamente doveroso non prolungare il processo del morire"; "è un dovere etico praticare le cure palliative, anche se queste possono abbreviare la vita del paziente".

Il Codice deontologico e la SIAARTI accolgono quindi, pur senza nominarla, quella che impropriamente viene detta eutanasia passiva o indiretta (la morte o l’abbreviamento della vita è un effetto secondario delle cure o della sospensione delle stesse), per distinguerla dall’eutanasia attiva, tramite la quale si persegue direttamente e deliberatamente il decesso del malato. Anche se nella pratica il confine fra l’una e l’altra non è sempre netto, sulla liceità della prima c’è un vasto consenso, la seconda è invece al centro di aspre controversie, come capita tutte le volte che in ballo ci sono scelte etiche secche: l’eutanasia o è assistenza compassionevole o è omicidio! Assimilabile all’eutanasia attiva è poi il suicidio assistito, in cui il medico si limita a fornire il farmaco letale al malato, che lo assumerà da solo.

In Olanda (ma in maniera più o meno simile anche in altri Sta ti: Oregon, Svizzera tedesca, Belgio ecc.), il parlamento ha autorizzato nel 1993 una sperimentazione che con qualche modifica è diventata legge nel 2001 e che riconosce la non punibilità del medico che abbia praticato l’eutanasia (attiva) o il suicidio assistito nel rispetto, di alcuni "criteri di accuratezza": dev’esserci la richiesta spontanea da parte del paziente; l’inguaribilità del malato e l’insopportabilità e irreversibilità delle sofferenze; aver ottenuto il parere favorevole di un secondo medico.

Il nostro ordinamento giuridico, per il quale la vita è un bene indisponibile, sancisce il diritto del paziente di rifiutare le cure (criterio del consenso informato), anche, come abbiamo visto, sulla base di direttive anticipate. Punisce invece l’aiuto al suicidio e il comportamento eutanasico (uccisione per pietà). Quest’ultimo si configurerà come "omicidio del consenziente" oppure, quando il consenso non c’è, come "omicidio volontario comune". Il codice penale italiano non accoglie la distinzione fra eutanasia attiva e passiva (la propose, invano, negli anni Ottanta, l’on. Loris Fortuna). Spesso viene riconosciuta l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale, ma può scattare al contrario l’aggravante della premeditazione.

La scelta dell’eutanasia - scrive Umberto Veronesi, l’oncologo italiano ex-ministro della sanità - la volontà di abbandonare la vita, viene letta spesso quasi come un gesto di debolezza e di rinuncia, come una incapacità a tollerare la sofferenza, come il desiderio di non perdere nella morte la propria dignità. In realtà, in una visione laica della vita, la decisione di concludere l’esistenza con un atto che abbia luogo in modo umanitario può apparire una soluzione comprensibile quando il dolore fisico e morale tolgono significato pieno all’esistenza. Può essere vista come una espressione elevata delle nostre capacità decisionali ed è, forse, la forma più alta di libertà proprio perché riguarda la nostra vita (...) Scegliere per chi amiamo la ‘dolce morte’ può essere un gesto di coraggioso amore, una dimostrazione che il nostro amore per la sua vita, ora sofferente, va oltre il nostro bisogno della sua presenza".

Il che non significa trascurare - a meno che non sconfinino in vere e proprie forme di accanimento relazionale, come talvolta avviene - gli inviti alla prudenza che provengono da psicologi e psicoterapeuti.

La richiesta di eutanasia può essere "l’esito di un deficit psicosociale, quindi relazionale e comunicativo" (Antonio Filiberti in "La qualità della morte" a cura di L. Pinkus e A.Filiberti, Franco Angeli, 2002), o effetto della depressione indotta dalla malattia e dalle sofferenze e/o dai condizionamenti di una società tutta tesa all’efficienza e al risultato; e neppure è infrequente che il malato cambi idea. Ma è anche vero che nessuno pensa di praticare l’eutanasia come un programma di vaccinazione obbligatoria, essa riguarderà sempre e soltanto situazioni eccezionali.

Certo, non mancano gli abusi. Non ci si riferisce qui a casi di estrema aberrazione, come i programmi di eutanasia attuati dai nazisti per scopi eugenetici o economici, ma alla possibilità, sempre in agguato, che con l’alibi della compassione ci si voglia liberare di un malato: o perché la struttura ospedaliera ha bisogno del letto, o perché i parenti non reggono più all’angoscia o non intendono sostenere ulteriori costi o perché più brutalmente mirano all’eredità. E’ in queste pieghe che può allignare la cosiddetta eutanasia "clandestina" o "selvaggia", praticata cioè all’insaputa del paziente. In Francia, ad esempio, sarebbero tra 1400 e 1700 ogni anno i casi di eutanasia clandestina, secondo Henri Caillavet, ex-ministro, senatore, presidente dell’Associazione per il Diritto di Morire in Dignità (ADMD). Non si sta dicendo che ogni eutanasia clandestina sia dettata da motivi egoistici, tutt’altro, si vuol solo sottolineare che in assenza di procedure trasparenti inevitabilmente si verificheranno abusi.

E la legalizzazione da sola non sembra una garanzia totale contro questo fenomeno, se è vero che in Olanda la paura di diventare vittime dell’eutanasia selvaggia sembra diventata quasi un’ossessione. "La paura di essere uccisi a propria insaputa in caso di malattia grave ha spinto 60.000 persone ad aderire alla Dutch Patient Association, un’associazione protestante che raccoglie le richieste di informazioni delle persone che vogliono sapere se un ospedale sia ‘sicuro’ o meno. Distribuiscono anche dei ‘passaporti per la vita’, che i pazienti tengono addosso a testimonianza della loro volontà di non ricevere l’eutanasia senza il proprio consenso" (de Hennezel, op. cit).

Fortunatamente l’alternativa non è fra soffrire atrocemente e l’eutanasia. Negli ultimi anni si è infatti dato un fortissimo impulso alla medicina palliativa (ex-terapia del dolore), detta anche medicina dei morenti perché non ha come obiettivo la guarigione, che non è più ritenuta possibile, né la quantità del tempo di sopravvivenza, ma il benessere del malato. E’ una "cultura dell’accompagnamento", che si prende cura della persona nel suo complesso, non solo della sintomatologia fisica (dolore) ma anche dei suoi bisogni più profondi: relazionali, psicologici, esistenziali, spirituali, e richiede quindi un approccio multidisciplinare, con la presenza degli psicologi nelle équipe di assistenza.

Le famiglie, per problemi sia pratici che culturali - la morte, socialmente è considerata come un disvalore - delegano di norma la gestione del morire agli ospedali e alle case di riposo (morte "medicalizzata").

Malgrado il tentativo in corso di invertire questa tendenza, di fatto, al giorno d’oggi, si muore per lo più (7 persone su 10, dicono le statistiche) nelle strutture sanitarie. E qui, però, la scarsità di medici e specialmente di infermieri, la spersonalizzazione e la neutralità emotiva non garantiscono quell’attenzione personale, quell’empatia, di cui il moribondo avrebbe bisogno.

Purtroppo, in Italia, oltre a mancare quasi del tutto l’assistenza psicologica, la metà dei pazienti, secondo recenti ricerche, non riceve adeguate cure antidolore. C’è una riluttanza all’uso degli oppioidi analgesici (es. morfina, metadone), che ci pone all’ultimo posto in Europa e al 101° nel mondo, per il timore del tutto infondato di sviluppare dipendenze o asssuefazioni. Malgrado gli studi attestino che questo tipo di effetti collaterali è estremamente raro (ad esempio solo 4 casi su 11.882 pazienti, in una recente ricerca; e si trattava di 4 pazienti che avevano avuto una storia precedente di dipendenza da droghe o farmaci).

Il rispetto dell’autodeterminazione del paziente (consenso
informato) anche nella forma anticipata (testamento di vita o biologico), la messa al bando degli accanimenti terapeutici e l’uso di efficaci cure palliative, sono principi ormai acquisiti anche in Italia: l’impegno è di farli diventare prassi generale. Giustamente da essi ci si aspetta una riduzione drastica se non un annullamento totale delle richieste di eutanasia. Rimane da affrontare il problema residuale di quei malati senza speranza di guarigione, cui non si riesca ad alleviare le sofferenze né fisiche né morali e che chiedano di essere aiutati a morire (eutanasia attiva). Che ne facciamo? Ce ne laviamo le mani? Distogliamo lo sguardo? Ci affidiamo all’eutanasia clandestina? O a quella palese, operata da qualche familiare spinto dalla disperazione a staccare la spina? Salvo poi assolverlo con qualche stratagemma giuridico o condannarlo a pene simboliche?

Il problema è aperto e il dibattito molto acceso (vedi a seguire l’intervista a Sergio Vesconi e l’articolo di don Marcello Farina) ed anche l’Azienda sanitaria trentina, nell’ambito di un progetto che vede coinvolti sei paesi europei, ha svolto un sondaggio fra i medici sui comportamenti (e le opinioni) nelle decisioni di fine vita, senza eludere il problema dell’eutanasia. I risultati saranno presentati solo fra qualche mese.

Per parte nostra, chiudiamo con questa citazione della de Hennezel: "Che significato ha il rispetto della vita se viene esercitato a svantaggio del rispetto della persona?".

Nel suo semplice umanesimo ci sembra il miglior antidoto ad ogni tipo di accanimento, anche a quello trascendente-religioso, di cui è esempio recentissimo la "Nota" del Vaticano ("documento Ratzinger"), che detta le regole ai cattolici impegnati in politica e che anche sul tema dell’eutanasia pone divieti insuperabili. Fondati su una presunta "legge morale naturale", di cui la Chiesa si ritiene unica depositaria ed interprete, radicalmente negano ogni libertà di coscienza.